Il primo punto del romanzo The House Gun di Nadine Gordimer in cui affiorava lo spettro manniano, era questo che segue:
"È assurdo che l'assassino sopravviva all'assassinato. A quattr'occhi, senza testimoni, come due esseri fanno soltanto in un'altra affine occasione, l'uno passivo, l'altro attivo, hanno avuto in comune un segreto che li lega per sempre. Devono stare uniti". Il Naphta di Thomas Mann parlava a Harald nei silenzi che lo accompagnavano ovunque [...]".
Dunque, non avevo dubbi: Gordimer citava, adesso con chiarezza, nel suo romanzo il romanzo "La Montagna Incantata", non poteva essere altrimenti: il romanzo dell'indimenticabile: infatti, poco dopo, qualche pagina più avanti, a conclusione di paragrafo, accade questo:
"Hai mai letto Thomas Mann? Ti porto la montagna incantata" inserita in corsivo e in minuscolo, a differenza del mio istintivo consacrarla con tutte maiuscole, in modo del tutto arbitrario, o forse per quanto lo scrittore abbia, nella mia infanzia e nella grande libreria di mio padre, gravato ma anche ispirato il mio percorso, soprattutto accompagnato il mio disordine, i miei conflitti, la mia tortuosa creatività più disestrosa che estrosa.
Così come la copia del suo ritratto di spalle, o meglio: di nuca, dove Mann è girato di spalle, con un cappello classico e molto tedesco, si avverte e si evince una giovane età, un'aria leggera e nevosa, un'aria tesa di quella grana letteraria tenace, inconfondibile, maestosa; età comunque elegante di prima maturità, più tratto di distinzione che di tempo passato, e mio padre immaginava che prima o poi Thomas Mann si sarebbe girato, all'improvviso, all'interno della tela, per fissarlo e forse per dirgli qualcosa. Tutto questo non è mai avvenuto, ma forse, in questo richiamo doppio di Nadine Gordimer, si è ripristinato quell'antico collegamento di sinapsi, la fermezza di quella poetica che ridà luce a un testo e al suo lettore. La solitudine infinita di quel sanatorio, Naphta, Castorp e questo intermezzo solare dove Gordimer mi riporta dentro di me, attraverso due libri distanti e diversi, dove si spalanca in un colpo un sibilio e (ri)tratto della la mia vita. Senza viso.
Così come la copia del suo ritratto di spalle, o meglio: di nuca, dove Mann è girato di spalle, con un cappello classico e molto tedesco, si avverte e si evince una giovane età, un'aria leggera e nevosa, un'aria tesa di quella grana letteraria tenace, inconfondibile, maestosa; età comunque elegante di prima maturità, più tratto di distinzione che di tempo passato, e mio padre immaginava che prima o poi Thomas Mann si sarebbe girato, all'improvviso, all'interno della tela, per fissarlo e forse per dirgli qualcosa. Tutto questo non è mai avvenuto, ma forse, in questo richiamo doppio di Nadine Gordimer, si è ripristinato quell'antico collegamento di sinapsi, la fermezza di quella poetica che ridà luce a un testo e al suo lettore. La solitudine infinita di quel sanatorio, Naphta, Castorp e questo intermezzo solare dove Gordimer mi riporta dentro di me, attraverso due libri distanti e diversi, dove si spalanca in un colpo un sibilio e (ri)tratto della la mia vita. Senza viso.
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