Scrivo solo se sento.
Senza sentire ho giurato a me stesso di non tracciare una sola parola. Di tacere con la scrittura.
In caso la mia scrittura fosse non sentita ma solo scritta, o peggio costruita e imperniata sul solo esercizio barocco di scrittura, farebbe molto chiasso. Forse sarebbe anche migliore, fatta di un chiasso pop e semmai anche educato, ben truccata anche con un buon muscolo, delle gambe atletiche e ben tornite. Ma non sarebbe la mia.
Il sentire di cui parlo è prima di tutto una sensazione di profondo disagio nei confronti della vita di quel momento in cui devo scrivere. Questo significa che la mia volontà di trasferimento del sentito, non ha niente a che vedere con la ricerca spasmodica di un ascolto, di un consenso, ma è semplicemente una sorta di rimedio a quest'attimo di profondo disagio, diverse volte molto doloroso, che ancora non so affrontare. L'attimo del profondo disagio che nasce nel rapporto con il midollo della parola, con la prima ma poi anche con la seconda, di quel vuoto tra le due e anche del vuoto tra la seconda già scritta e quella terza che sono in procinto di scrivere, è quindi legato all' assoluta mancanza di disinvoltura, come mio tratto essenziale e pernicioso, verso le esperienze della mia vita che sento e che affiorano, quelle stesse che mi spingono a parlare in qualche modo di loro.
Credo di essere una persona estremamente incapace di gestire con disinvoltura le proprie emozioni. Forse il maggiore rispetto che io possa avere verso le mie emozioni, sarà proprio questo di subirle, senza reagirvi con un atteggiamento di leggerezza o di maestria, senza volerle trasformare o controllare come un fantino farebbe col suo cavallo. Ecco perché questo tipo di sentire mi coinvolge e mi compromette fin dal suo midollo, specie nel doverlo filtrare con un mio incerto e inadeguato (tra)dire.
Credo di essere una persona estremamente incapace di gestire con disinvoltura le proprie emozioni. Forse il maggiore rispetto che io possa avere verso le mie emozioni, sarà proprio questo di subirle, senza reagirvi con un atteggiamento di leggerezza o di maestria, senza volerle trasformare o controllare come un fantino farebbe col suo cavallo. Ecco perché questo tipo di sentire mi coinvolge e mi compromette fin dal suo midollo, specie nel doverlo filtrare con un mio incerto e inadeguato (tra)dire.
Quando attacco una parola io rischio di spezzarmi l'osso del collo. Quando non avvertirò questo rischio, lascerò perdere e semmai andrò all'ippodromo, a guardare le schiene curve dei fantini e i colori sgargianti delle loro divise e dei loro cappelli, che mi rapiscono sempre di incanto, anche non capendo un accidenti di galoppo e non puntando mai alle corse.
Senza sentire, come dicevo, ho giurato di non tracciare una sola parola. Quando non scrivo non è perché io non senta abbastanza, ma perché le dinamiche oscure di questo mio sentire non sono ancora organizzate nell'agguato contro di me. Non sono ancora armonizzate nell'assedio.
Una professoressa di lettere molto carinamente, amica di mia sorella, un giorno mi disse che secondo lei io avevo ricevuto una grazia. Mi diceva che leggendo quello che io scrivevo, avvertiva la presenza di qualcosa di altro, di un particolare dono molto speciale, qualcosa di delicato ma di potente, nel modo di legare le frasi, nel farle risuonare, insomma quel qualcosa che non si vede ma che si avverte, anche se non si può spiegare.
Io non le risposi, anche se non sento di essere privilegiato da questo aspetto ancora misteroso, che mi è stato detto da diversi "letterati e non", ma anche minacciato da tutto questo. (Soprattutto oggi, poi!).
Minacciato: perché non è qualcosa che hai scelto, ma che in fondo si è misteriosamente organizzata e insinuata nella tua vita alle tue spalle, come una tenia che si nutre a tuo detrimento, a volte come un aguzzino o un topo di fogna. Credo che invece sia la mia maledizione, il contrario. La stessa che mi divora e mi paralizza in tante altre circostanze, e che diventa anche il cappio. La stessa che non mi rende disinvolto e non mi fa mai sentire a mio agio con la parola scritta.
Ogni mattina che comincio continuo a sentirmi come qualcuno che non ha niente a che vedere con la parola scritta, che ne è totalmente estraneo, al quale è preclusa la chiarezza e il divertimento di controllare con strategia quello che la session del giorno gli riserverà. Io molto spesso parto come un ragazzino che non ha mai visto un luogo di mare, questo mi succede anche con le sceneggiature, e cerco di capire che cos'è quella luce strana e appena azzurrognola, che in fondo non ho mai visto prima ma che intanto ricordo. Così quella parola che ho usato e che già conosco ma che non riconosco, perché mi sento sempre inadeguato e vi tentenno dentro o sul suo orlo. Tutto questo procedimento di una certa sofferenza, avviene sempre durante il flusso del getto, non durante le pause o nei momenti di crisi o di blocco. Io non ricordo di aver avuto mai esitazioni davanti alla stesura di un testo, ma questo è legato al fatto che la crisi è tutta racchiusa nel processo di scrittura in toto e non solo in una fase di esitazione. È lo scrivere che è la fase profonda dell' esitazione, il suo zenit, quell'attimo che vivo di fronte a quello che sento, ma è anche quella stessa fase che mi fa amare in modo spaventosamente intenso tutto quello che sento e che incontro, come se fosse per la prima volta. Amarlo con paura e senza disinvoltura, ma amarlo. Non quello che scrivo ma quello che si cela dietro e attraverso: non l'atto ma il misfatto.
Minacciato: perché non è qualcosa che hai scelto, ma che in fondo si è misteriosamente organizzata e insinuata nella tua vita alle tue spalle, come una tenia che si nutre a tuo detrimento, a volte come un aguzzino o un topo di fogna. Credo che invece sia la mia maledizione, il contrario. La stessa che mi divora e mi paralizza in tante altre circostanze, e che diventa anche il cappio. La stessa che non mi rende disinvolto e non mi fa mai sentire a mio agio con la parola scritta.
Ogni mattina che comincio continuo a sentirmi come qualcuno che non ha niente a che vedere con la parola scritta, che ne è totalmente estraneo, al quale è preclusa la chiarezza e il divertimento di controllare con strategia quello che la session del giorno gli riserverà. Io molto spesso parto come un ragazzino che non ha mai visto un luogo di mare, questo mi succede anche con le sceneggiature, e cerco di capire che cos'è quella luce strana e appena azzurrognola, che in fondo non ho mai visto prima ma che intanto ricordo. Così quella parola che ho usato e che già conosco ma che non riconosco, perché mi sento sempre inadeguato e vi tentenno dentro o sul suo orlo. Tutto questo procedimento di una certa sofferenza, avviene sempre durante il flusso del getto, non durante le pause o nei momenti di crisi o di blocco. Io non ricordo di aver avuto mai esitazioni davanti alla stesura di un testo, ma questo è legato al fatto che la crisi è tutta racchiusa nel processo di scrittura in toto e non solo in una fase di esitazione. È lo scrivere che è la fase profonda dell' esitazione, il suo zenit, quell'attimo che vivo di fronte a quello che sento, ma è anche quella stessa fase che mi fa amare in modo spaventosamente intenso tutto quello che sento e che incontro, come se fosse per la prima volta. Amarlo con paura e senza disinvoltura, ma amarlo. Non quello che scrivo ma quello che si cela dietro e attraverso: non l'atto ma il misfatto.
Il giorno che qualcosa mi risuonerà vecchio e mi troverà particolarmente disinvolto nella gestione del suo noto, allora sarà il caso di preoccuparsi.
Davvero in quel caso me lo spezzerei l'osso del collo, proprio non correndo il rischio che ciò avvenga.
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