Quanto è impoetico tutto quello che si forza verso la poesia. Quanto è astratto questo sforzo di essere poetici, artistici, artisti, a tutti i costi, autoproclamandosene, senza certificazioni o sentenze a favore, e dimenticando tutto quello che di più grande si nasconde oltre ques'ossessione, in apparenza così docile e innocua ma totalizzante.
La bellezza di assistere, senza fare o disfare; senza tentare di sedurre, costringere, convincere, è una forma delicata di poesia senza versi. Quella di chi fa senza dirlo e saperlo, così come chi ama e carezza una foto di nascosto. Rimpiange quello che ha perso, ma ne ricorda le ricorrenze più dolci e le festeggia da solo, in un oscuro fidanzamento.
Scrivo e sento la pioggia, che scroscia di nascosto da me. Questa pioggia ha la voce di una ragazza stanca, che dice di me alle mie dita ancora molto attente, in cerca di un portone dove ripararsi da se stessa.
Quanto è impoetico, dicevo, dimenticarsi degli altri, il non aspettare, il non ascoltare chi ti ha da dire quel poco che gli basta per tenerti vicino, solo per il pensare a quello che di poetico e di artistico dovrai ottenere, incubare e costruire. Quante cose meravigliose si perdono rinunciando ad assistere al mondo di chi non conosce l'arte, di chi la disprezza nelle sue convenzioni, o che forse la ama ignorandolo, e diventa uno spettacolo personale, particolare, per il solo fatto di sentire il mondo col proprio naso, l'aria con la sua faccia, senza immaginare di dirlo mai a nessuno, ancora una volta vivendo di nascosto.
Che cosa sento io più di te, da non doverti ascoltare e preferire a te le feci di un mio pensiero, di un mio sogno di dire, di scavalcare, di raggiungere quel primato astratto e nebbioso, che ritornerà nella nebbia di tutti i primati. Le carezze, a differenza dei primati, non diventano nebbia. Cominciano nella nebbia ma si fanno strada nelle zone notturne e inesplorate di ciascuno, come defunti ancora vivi, che ti tremano nella luce della lampada, prima del sonno, o ti tirano i capelli, ti nascondono l'accendino.
Dovunque mi giro vedo trapezisti, funamboli, mangiatori di spade e di fuoco, lanciatori di coltelli, eppure l'operaio che mastica il suo panino sformato, sempre alla stessa ora, quando passo per raggiungere la metro, nasconde lo stesso mistero di un Picasso, di un Mozart, di un Bach.
Perché limitare l'occhio verso l'infinito e non spalancarlo verso il piccolo finito di chi non vuol parlare ma si traduce nella natura incolta del gesto, del dolore, del rimpianto di resistere a questo mio stesso momento, che ci vede insieme per un attimo e che non ritornerà più?
Ho voglia di semplificare, ridurmi all'essenza, dimenticare quello che ho imparato e che mi ha allontanato dalla sensibilità a quell'incrocio di occhi o di gambe. Ritornare indietro verso l'imperfezione, la dissonanza, l'aria opprimente delle giornate che si accorciano.
La foga e la fame di poesia, oggi, deve nascere dal desiderio del silenzio. Allontanarmi dal traffico e cominciare a tacere, nelle prime luci tutto mi piace perché tace e io con lui. Tace la mia scrittura e riaffiorano gli amici, le risate, l'odore dei mandarini sbucciati, i palazzi illuminati di compleanni, dove mi concedevo e rimanevo fedele a ciascun istante per quello che era e non per quello che avrei voluto diventasse.
Rimanere parecchio assente e assonnato, e riprendere a respirare, senza aspettare che qualcuno mi ascolti, ma tendendo l'orecchio al cuore di chi mi è accanto senza una voce, che non scriverà mai romanzi, saggi, trattati o poesie, ma mi farà battere il cuore del suo vero, infinito lato indimenticabile.
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