giovedì 9 maggio 2013

Pomeriggi con la nonna e il tagliarsi con la carta

Il mio appartamento da bambino aveva una porta comunicante con quello della mia nonna paterna, Elvira. Il mio primo grande amore. Una donnina silenziosa e già molto anziana, a vegliare sulla mia infanzia con il suo gatto Archimede, un gatto bianco e nero e grandissimo, regalato a mio padre dal suo professore di matematica (ecco il motivo del nome). 
Ricordo i pomeriggi diventare prime sere nella casa buia della nonna Elvira. La sua acconciatura particolare. La crocchia sempre così ordinata e il suo silenzio spettrale, che mi proteggeva quando ero da solo con lei e i miei non erano in casa. Un lumino azzurro acceso, e le sue sedie sfibrate di paglia. Un quadro di un'Ascensione della Madonna sulla parete accanto al letto, il ritratto di suo marito Luigi, che mi aveva comprato un treno elettrico prima che nascessi, senza avere trovato il tempo di darmelo. 
Elvira era una donna di pochissime parole. Aveva lavorato come dattilografa al comune. Una volta diventata vedova, i miei genitori avevano deciso di portarla con loro, nell'appartamento accanto diviso da quella unica porta interna, oltre la quale si accendevano e si spegnevano diversi dei miei pomeriggi.
Non posso che scrivere del suo silenzio che aveva un suo suono molto definito e particolare. Del suo sguardo, altrettanto silenzioso, che si posava sulla mia vita pomeridiana e ancora minuscola, che cominciava a svilupparsi nelle ombre della sua piccola casa infinita, oltre quella porta comunicante, mentre la sua vita, a mia insaputa, cominciava a perdere colpi e a prepararsi per andare...
Forse il suo silenzio era un preludio della sua morte con cui mi tradì, un sabato notte del 1974, dopo aver visto la televisione insieme a me fino a tardi, il pianoforte di Enrico Simonetti che si muoveva come il gatto nella casa illuminata a giorno. I pappagallini ondulati nella sua cucina profumata di aceto.
Eppure i pomeriggi lontani con la nonna Elvira, il suo gatto Archimede, che un pomeriggio chiusi nella lavatrice – questo mi è stato ricordato di recente da una mia cugina che vive a Roma, lasciandomi di stucco, davvero non ricordavo – hanno lasciato un solco sottile, come una ferita leggera, di quelle che alcune ragazze incontrano sui polpastrelli aprendo o sfogliando un quaderno, ferite di taglio da carta.
Parlare poco era il segno del suo amore per me, del sangue lontano di quei pomeriggi solitari di carta.
Da ragazza, Elvira, aveva perso una sorella suicida per amore. La sua unica sorella, con cui aveva diviso l'infanzia, divideva l'adolescenza, i segreti, le speranze, la stessa stanza di ragazze sperdute di  primo novecento.
Questa cosa per molti io ancora non la so: nessuno credeva possibile che una notizia del genere fosse stata riportata da un' adulta anziana, di pochissime parole a un bambino ancora così piccolo e delicato, come ero io in quel periodo, ma Elvira in uno di quei pomeriggi lo fece. Forse sentiva il desiderio di un ultimo passaggio segreto, una linea d'ombra tra lei e quella sorella lontana, svanita nelle tenebre del suo dolore, attraverso una presenza assorta e spettrale, come può essere quella di un bambino di pochi anni, che guarda la sera arrivare dalla finestra senza capire che cosa sia.
Come un tagliarsi le dita con la carta, nella mia spiritica compagnia, le dita di quella sorella e ragazza lontanissima, mentre aprono un quaderno a sangue, che ogni tanto immagino che mi ritorni accanto, a respirarmi dietro la nuca e farmi una carezza, di ritorno da una festa.
Niente più...

2 commenti:

rosaturca ha detto...

I tuoi racconti d'infanzia nell'ascolto si trasformano abbracci delicati di quelli che non ci sono più. Misteriosi e toccanti.
Grazie.
rosaturca

luigi ha detto...

Ciao!
I tuoi commenti hanno le vibrisse dei gatti...forse quelle di Archimede.
Grazie della visita e delle bellissime parole.
luigi