Credo di aver scoperto la poesia della vita nelle pagine de "Il Piccolo Principe", di Antoine de Saint-Exupery. E di aver conservato questa scoperta come un tesoro inalterato, anche se all'apparenza invisibile e piccolo, o forse irreale, per molti. Un tesoro che nessuno potrà più sottrarmi, per quanto sia smisurato e inestimabile nel suo valore, non solo letterario.
Ero davvero molto piccolo quando inciampai senza speranza dentro questa storia. Sarà stato il primo vero libro nel quale mi sono perduto, a cavallo tra le pagine de "I Quindici" e i primi racconti illustrati de "La scala d'oro". L'ho riletto in un giorno, dopo moltissimo tempo, ieri sera, e ne ho riscoperto la tenerezza dei tratti e dei sapori, il suo clima intriso di malinconia e di sogno, mai sentimentalista, nemmeno per un istante. La sua poetica immediata, senza fronzoli, ma essenziale e luminosa, rimane qualcosa di indimenticabile e toccante.
Un libro piccolo e raro, dove sono contenute le tratte di più mondi paralleli, a partire dalla bellissima dedica a Leone Werth, dove il narratore domanda perdono ai bambini per aver dedicato questo libro a una persona grande, e rettificando poi sul finale della stessa dedica scrivendo così: "A LEONE WERTH quando era un bambino". Incantevole: solo questo particolare, appena prima di cominciare il viaggio, è parte del suo seme, del suo profumo. È già dentro il nucleo del racconto.
Non dimenticherò mai il disegno numero uno, la casetta con dentro la pecora, così come i quarantatré tramonti, e quel passaggio delicato, fatto di cristallo, così palpabile, da trascinarmi con lo stesso nodo alla gola nell'intimità di un luogo misterioso e tremendamente famigliare: "Avevo disfatto la sua sciarpa d'oro. Gli avevo bagnato le tempie e l'avevo fatto bere. Ed ora non osavo più domandargli niente. Mi guardò gravemente e mi strinse le braccia al collo. Sentivo battere il suo cuore come quello di un uccellino che muore, quando l'hanno colpito col fucile".
Non dimenticherò mai il disegno numero uno, la casetta con dentro la pecora, così come i quarantatré tramonti, e quel passaggio delicato, fatto di cristallo, così palpabile, da trascinarmi con lo stesso nodo alla gola nell'intimità di un luogo misterioso e tremendamente famigliare: "Avevo disfatto la sua sciarpa d'oro. Gli avevo bagnato le tempie e l'avevo fatto bere. Ed ora non osavo più domandargli niente. Mi guardò gravemente e mi strinse le braccia al collo. Sentivo battere il suo cuore come quello di un uccellino che muore, quando l'hanno colpito col fucile".
Allo stesso modo questo passaggio, così lieve e così tagliente, mi ritorna e mi rimbomba dentro come un colpo di fucile. Allo stesso modo dell'ultima scia di fumo e di quel rombo lontano e insondabile, che ingoiò nel nulla Antoine de Saint- Exupery nel suo Lightning da ricognizione, e che come concluse Nico Orengo, nella sua prefazione: "Anche per lui il desiderio della resa è stato troppo forte".
In questo libro ritrovo molte parti sincere e controverse di me, di quello che ero stato prima di diventarlo o anche prima di averlo perduto. Che mi parlano, sottovoce, senza assalirmi né stancarmi. Come l' amore delle cose piccole e lontane, che non ti lasciano mai solo.
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