Concludo "Dora Bruder" di Patrck Modiano, in questa domenica invernale, di prima sera, nelle stesse luci evocate da questo ritratto struggente su di un'assenza perpetua e straziante, che si rivolge e si avvolge negli atti come una carezza, nei gesti, nelle evocazioni dei singoli momenti, come nei documenti d'ufficio perduti e nello stralcio di quelli ritrovati, forse nell'ansia eterna di una notte insonne. Un ritratto dalla misteriosa toccante impersonalità, intriso di dolore come delle stesse luci parigine, quelle da me immaginate tra gli alberi della piazzetta Clignancourt e quelle fobiche dell'occupazione, appena prima del coprifuoco delle sei della sera, con il cupo ronzio da neon.
"Dora Bruder" è un libro avvinghiante e colmo di una grazia raggelante e viscosa. Di una statura e di un'eleganza impareggiabili. Un libro tremendo e tenero, che "nasce da uno scacco", come scrive Pietro Citati: "che si muove nel vuoto, si agita nel vuoto, attraversa il vuoto ...".
La fuga di questa ragazzina rimasta in eterno dentro il labrinto del suo vuoto, mi rimane nel cuore, così come il suo destino insondabile, che proprio per questa costante insondabilità che lo circonda, sembra essere ancora in moto, estatico e soffuso nel suo bilico.
Ho chiuso il libro con tante domande aperte ma anche con molte risposte nel buio. Con dentro lo sguardo la lampada accesa del collegio; il calare della sera, l'ora dei ritorni, dei passi affrettati e dei sospiri; le pagine appena soffiate del romanzo di Ernest Bruder "All'orlo della notte", e la carta da parati strappata dalle stanze delle ragazze, dirette e poi internate al campo tenebroso di Drancy. Il colore delle loro camicette, delle loro scarpe, dei loro cappotti sdruciti e dei loro occhi buoni e impressionanti.
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