La fortuna di un certo linguaggio, secondo me, risede nel suo costante adattamento alla sua specifica evoluzione di crisi, nella sua impossibilità a sistemarsi, a comporsi a definirsi all'interno del suo codice espressivo come elemento tipico o anche topico. Crisi come difficoltà cronica a farsi nota risolta, abitudine, luogo noto e circoscritto nelle sue possibili dinamiche. Quello che spesso è ambìto come territorio felice per un'esperienza espressiva, diventa in diversi casi una trappola mortale, la tagliola nascosta nei fondali delle campagne, che scatta all'improvviso, in pieno sole e mozza code, gole e arti, senza pietà e in una fase costrittiva e asfittica, quanto sterile, di ricerca o di viaggio blandamente ispirato e chiassosamente solitario.
Quello che scrivo è frutto di un continuo pensiero e rielaborazione dei miei materiali espressivi o invenzioni anarchiche più o meno felici e appassionate, specie quei materiali nei quali mi inabisso e forse mi imbatto contro la mia volontà, come in una sorta di compiacimento incantato, perverso, impeto stregonesco di resa e non più di ascesa. Saranno tutti quelli attraverso i quali mi accorgo di compiere una sorta di tradimento alle mie eventuali o intangibili possibilità, per il solo fatto di collocarle e di immaginarle in luoghi già noti, troppo familiari, anche se per me inesistenti e non ancora concreti, ma in qualche modo luoghi già trafficati e battuti da diverse voci, dove vorrei brillare un poco anche io, come un cicaleccio di una radio di guerra dopo la pioggia. Un suono strano e cupo che si aggiunge agli altri cori per il solo fatto di essere in vita, di decantarsi ancora in vita, in contrappunto al tocco gelido e mortale che sbatte su di una grondaia dopo un bombardamento. Lo scrivere cose, quindi e anche, per dire di quanto tanto si è scritto. Scrivere parole in virtù del loro numero e non del loro noumeno. Può anche darsi, non è un'ipotesi da escludere, ma da includere, secondo me.
E questa pretesa di illudere un proprio certo linguaggio in un'arrampicata dentro spazi e luoghi inesistenti ma consoni e abbordabili, specie in una fase così risucchiante di stasi e di abbandono e di relativa svogliatezza a ogni nuova particolare sollecitazione culturale – parlo nello specifico della pigrizia e della inutile e assurda severità al diniego espressivo di questi miei tempi – diventa essa stessa incudine e ostacolo di se stessa, ambendo ad essere e a putrefarsi nello stesso cardine che cerca e che matura, sulla falsariga di un mondo nebbioso che ho amato da lettore ma che non esiste e non è contestuale alla mia attuale fisionomia di scrittore. Detta in parole semplici: desiderare di scrivere o di descrivere il mondo di qualcun altro, fingendolo proprio e moltiplicandolo all'infinito alla ricerca di quel primato numerico che attesti un percorso evolutivo preciso e funzionale a un certo standard ormai riconosciuto come qualcosa di valido e di potabile solo perché piaciuto. Sottile ma comune e misero artificio, dove affondano diversi intenti, spesso alle spalle di chi li orchestra o li subisce. La tenaglia che illude di riuscire a parlare quando invece la lingua che vibra non è la propria, non lo è mai stata.
Ma a questo punto, dopo queste tortuose ma sincere premesse, potrei anche domandarmi:
Ma a questo punto, dopo queste tortuose ma sincere premesse, potrei anche domandarmi:
dove sono davvero io, con le mie chiavi luccicanti di una casa sospesa o inesistente? Con le mie porte chiuse, le mie campagne deserte, le mie finestre appannate dallo stesso insondabile tramonto? O con una casa linda e pinta, ma alla Sergio Endrigo, senza soffitto e senza cucina, in attesa di un gruppo di amici con cui cenare o peggio: con cui cucinare insieme o attaccare dei nuovi lampadari colorati?
Tutto questo per dire che posso farmi forza solo dello spasmo costante di crisi che ammanta come bava di nevischio ogni mia possibile esperienza, con la speranza di interrompere, anche di colpo e in modo brusco, lo scorrere di un qualsiasi affluente, quando avverto il rischio che questo stesso affluente non è altro che una stenosi che mi allontana dalla possibilità di respiro di una mia possibile voce, del barlume di una mia possibile verità o flebile idea di una verità.
Meglio scomparire anziché scomporsi e decomporsi in nome di un numero indefinito di atti, di testimonianze frustranti di fede a una propria tenacia di verbosità creativa, che in diversi casi non mi appartiene ma è immolata a prototipi che incombono nel mio confuso e titanico ricettivo, truccandosi, in modo subdolo e fasullo, da fattore creativo.
La fine di un mese spesso mi costringe a riflettere, che spesso la mancanza di spazio e di ascolto, può rivelarsi, in taluni casi, davvero una gran fortuna. Tutti i miei stralci, le mie sperimentazioni, i miei pugni di sole o di terra che distribuisco in questo spazio, sono canto della mia fortuna, omaggio e saggio della mia evoluzione o involuzione critica, difficoltà cronica, ritornando all'inzio di questo scritto, di essere in linea con la propria natura più complessa e non con gli strumenti artificiali e richiesti per ingabbiarla, semplificarla e confezionarla, come regalo usato e ben riuscito. Vizio di esprimersi o meglio virtù di esimersi, quanto meno nelle circostanze più tragiche e immediate che lo richiedono?
Questo, in qualche modo, lo vedremo. Immagino di sì. Col tempo.
Questo, in qualche modo, lo vedremo. Immagino di sì. Col tempo.
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