lunedì 26 agosto 2013

Non prestarsi

Non prestarsi. È forma e parte di un pensiero che mi ha assalito e insieme rinvigorito questa mattina, osservando la diramazione delle nubi sulle campagne, la ferrovia, i colori  sfumati del melograno. Non prestarsi: come regola fondamentale contro il disfacimento spaventoso che avverto e che è diventato carne, valore aggiunto e disgiunto, verità, e che purtroppo sento che non si avverte così spesso, con la giusta nettezza. Non si scorge in pieno la natura pericolosa di questo disfacimento spaventoso che ottunde, così assoluto, irreversibile, che interessa chi imbocca in qualsiasi modo una mulattiera, uno scorcio nebbioso di espressività, un qualsiasi sentiero di canto.
Non prestarsi a cosa di preciso, poi? Di cosa avrei voluto parlare, nel mio silenzio, senza nemmeno sapere di dover scrivere di questo imperativo murato al diniego? Non alterare o sottomettere la propria voce in relazione a questo disfacimento, non inaridirla o peggio inabissarla sul muschio gelido che sfoggia e ammanta come pube di orchessa l'orlo del precipizio. Se abbasso la voce, dal momento  che qualcuno ha fastidio, forse per il timbro, per l'orario o per le cose che dico, qualcun altro mi chiederà, poco più avanti, se più interessato e ispirato, di alzarla. Mi farà un cenno delicato, invisibile di mano, ma ancora più intenso di quello che mi suggerisce il tacere, lo smorzarmi.
Non prestarsi a questo smorzarsi, a questo adattarsi a un territorio irreale, attanagliato da disattenzione e insieme da ripugnanza, ma anche da gratuita e incolta severità. Dalla sensibilità pianificata solo su certi richiami, su certi artifici ormai codificati, dove solo un certo linguaggio può accadere e smuoversi, spaziare, rovesciare i suoi limiti e le sue pretese verità. 
Non prestarsi, ancora: alle regie e alle regole scritte per essere rispettate, alla ricerca di una sola uniforme visione della storia, della propria storia, e questo è il tragico, che andrebbe raccontata e relegata e poi modulata sulla falsariga di altre storie, che dovrebbero dettare il loro passo perfetto pur rimanendo nel totale ignoto e digiuno di quello che la materia e il trattamento espressivo vorrebbero smuovere e approfondire della nostra, unica e propria che ci rimane da dire.
Assolutamente voltare le spalle al privilegio di un ascolto assonnato e perverso, quanto assonnante e invalidante, avvolto dal totale pregiudizio, dal sospetto, dal terrore sprofondante delle dissonanze, dall'apatia, dal conformismo, dalla cecità e dalla sordità giudiziose. Prendere in prestito i miracoli della propria ricerca minuziosa e infinita, le cadute, le sconfitte, così come i bagliori improvvisi di una certa possibile schiarita, gli squarci lirici o tragici, con tutto il carico d'ingombro emotivo ma anche della pienezza di un percorso consapevole e laborioso, silente, e quindi assimilarlo, farne cibo e tesoro, ma senza prestarsi. Che oggi significa: non disfarsi di sé, del proprio passibile incanto delittuoso della parola e del suo corso più oscuro, che spesso è tutto quello che ci rimane da perdere, ma anche da conquistare. Meglio perdere qualcosa, per sempre, ma perderla nella sua purezza e integrità, nella sua intonsa sostanza di cristallo pulito, fondale triste delle Azzorre, anziché rianimarla e preservarla nel disfacimento di un solo flusso apparente e opacizzato, lasciandola in prestito, come al terribile banco dei pegni di Canetti. 
Non prestarsi, quindi. Mai: al gioco; quando l' esprimersi e il mettersi in gioco potrebbero rimanere qualcosa di sacro, di tenero e di molto serio. Come qualcosa di vitale, di balsamico, di prezioso; e di tanto altro ancora, immagino.
Quindi?

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