...quando mi accorgo che il percorso espressivo non sia così retto e diretto come si dovrebbe, allora c'è da riflettere. A lungo. E io la faccio con me stesso questa disordinata riflessione, anche adesso che posto questa sfilza di considerazioni come un gregge sparso senza cane e senza pastore, con il lupo nero che ringhia nella notte, in una sorta di flusso anarchico e pensante, che forse mi sarà utile per fare un tantino di luce in più, o farà divertire ma anche un po' sonnecchiare chi si troverà a leggerla, chissà.
Partenza:
partendo dal fatto che la prima problematica sia quella del fattore del sogno incombente: fattore disturbante, quello che spesso non accompagna l'interno del mio scritto, la sua polpa, il suo nucleo, ma il luogo dove immagino e dove sogno possa collocarsi in un lontano o prossimo futuro il mio scritto; luogo inesistente, che probabilmente non avrà mai una sua collocazione definita e precisa, - questo anche perché i luoghi sono fatti di persone e quando scrivo non posso avere idea di quello che potrebbero pensare o non pensare le persone che abitano certi luoghi irreali delle mie parole, quelle stesse parole che dovrebbero comporre un'idea più o meno fragile di scritto, di testo narrativo, o di scrittura.
Questo primo punto ne include a ruota un secondo: qualsiasi scritto senza la certezza di un atto più o meno diretto di fiducia, di ascolto, e quindi di crescita, di critica costruttiva, di relazione e di costruzione, diventa una messa in scena infernale del peggio che può risiedere nel creativo inespresso di qualcuno che abbia la fame di dire, il suo desiderio acceccante. Non sempre quello che si desidera scrivere o descrivere sarà proporzionato alla capacità di imbrigliare e di essere all'altezza di quel desiderio; di cavalcarlo senza redini, senza caderci e farsi schiacciare, insomma: (mio nipote a circa tre anni di età, vide il cavallo bianco cavalcato da un carabiniere, in villa comunale, e piantò un capriccio perché voleva cavalcarlo e portarselo a casa, il cavallo, naturalmente. Un capriccio che durò circa un'ora, senza rendersi conto, perché bambino, che i bambini di tre anni non cavalcano i cavalli dell'arma e che in un appartamentino di città i cavalli dell'arma non hanno accesso, né sulle scale, né in ascensore, né dalla porta di casa. Ma questo il suo capriccio non lo sapeva e non lo capiva. Il suo desiderio era così forte da creare varchi, campagne aperte e spazi inesisitenti dentro e al di fuori di lui, dove invece vi erano strettoie, limitazioni urbane, gradini moderni e condòmini uterini).
Se poi non avessi ancora il metro, pur nel desiderio di un luogo espressivo e molto aperto, e nemmeno l'occhio e neanche l'orecchio adeguato per discernere su quello che sia davvero presentabile, o quanto meno diginitoso, e per quello che invece sarà da scartare perché pesante, sterile, inutile, dannoso, disarmonico, vecchio, antico, o al contrario troppo moderno e ardito?
Dunque, mi dico: da solo chi sarò io per valutare l'effetto finale di un mio eventuale progetto creativo? E le garanzie sulla sua validità? Quanto sarò davvero affidabile nella sua gestione? Anche nella più accanita sperimentazione, si ha bisogno di un minimo di umiltà e coordinazione, di una certa voce, di un certo peso nell'appoggio di questa voce, di un confronto arioso e non ossessivamente giudicante, come la maggior parte di quelli che si incontrano. Chi potrà garantirmi, allora, che non stia cucinando con ingredienti guasti, inappropriati, scaduti? Avrò certo l'occhio per leggere la scadenza di un ingrediente, questo me lo concedo, ma quanta sensibilità avranno i miei sensi per valutare la resa di un certo insieme, l'effetto del concerto degli aromi a un assaggiatore esperto e neutrale che sieda per un caso alla mia tavola? Potrò bastarmi, da solo, come chef, nella mia casa vuota, con le parti più sfibrate e accanite di me, cucinando senza ospiti a cena e senza nemmeno la forza dell'appetito? Questo per dire che scrivere senza un minimo contesto, più o meno autorevole di scambio, di confronto, di attenzione critica, può essere un'attività inutile, o quanto meno legata a processi del caso, dove la macchina del dire e del fare scrittura per un mero riconoscimento, diventerà più importante di quello che si avrebbe da dire, che si sente, o che si dovrebbe avvertire, prima di comunicarlo e di far sì che venga riconosciuto o eletto tra milioni di altri tentativi. E questo spazio al quale vorrei ambire, potrò davvero meritarlo? Su quali basi e criteri?
Ancora qualcosa, non ho finito:
anche se pianifico dei progetti di lavoro, con una certa forma, una loro linea, anche se ancora imbastardita, accennata, chi mi dice che siano davvero farina del mio sacco? Che non siano un tentativo, anche inconscio, - questo è possibile -, di divertirmi a mimare, alla men peggio, tutto quello che mi piace e che mi è piaciuto leggere, che mi emoziona e che mi ha emozionato, che mi affeziona alla possibilità di riprodurlo in un altro certo contesto? Che non stia dissanguandomi in un tentativo maldestro di emulare qualche fantasma, qualche fantasma che nemmeno so o che rappresenterà forse un insieme di più spettri di un mio passato ancora impalpabile e vacillante, al fine di sentirmi appena un po' realizzato? Realizzarmi con le melodie o e le molecole di un altro, che immagino mie solo perché non ricordo più dove le abbia prese? Insomma: se sto appena più attento, e rileggo a distanza alcuni passi di scritti diversi che ho buttato giù, credendoli originali, vivi e frizzantini, solo perché risultati divertenti nello scriverli, vedo sempre cose diverse, ma molto spesso il caos di amori inespressi e mutanti per cose che ho letto e che vorrei ricreare, spesso solo per riattivare l'effetto e la dimensione dell'incanto subito, per materializzare una bambola posticcia e grassoccia che impara a camminare e a chiudere gli occhi quando si distende, come faranno diecimila altre, allo stesso modo. Un meccanismo di comunicazione a batterie scariche, e concludo con questo punto, dove conta l'effetto di un sistema, di una circostanza che ha funzionato narrativamente o poeticamente nei miei ricordi da lettore, e che non ha quasi nulla di autentico, se non il tentativo di rivitalizzarla e tradirla, con la mania di un cattivo copista.
Qualche altro sprazzo sul finale.
Quanto so per poter dire più di chi tace e di chi non scrive? Esistono persone interessanti, ricche di storie e di idee, preparate, appassionate, creative, che non buttano giù una riga, che non scrivono un bel nulla, ma che comunicano, in un loro modo particolare, personale, anche oscuro, un loro mondo molto interessante e variegato, ma soprattutto non influenzato da nessuno e non interessato a colpire e a catturare nessuno, - quest'ultimo punto credo sia sacrale. Sarebbe così bello scrivere senza cercare un ruolo, un'identità, facendolo senza farlo, ma solo per la bellezza e la complessità misteriosa del processo. Se un bel mattino comincio una frase e penso a quanto abbiano da dire persone che una frase non si sognano nemmeno di cominciarla, allora mi fermo, guardo fuori e un po' mi arrendo. (Ho visto un gatto nero bellissimo, ieri mattina, nel parco pubblico dove vado a correre. Aveva un nero del manto luminoso e lucido, si muoveva nei raggi del sole come un imperatore orientale. Aveva una leggerezza, una possenza, una sua saggezza nella maestà naturale, rigogliosa, spettrale ma autentica, e pensavo a riuscire a scrivere almeno una parola con quella stessa maestà, con quella grande autonomia di pensiero e di potenza espressiva, con quella magnifica strafottenza incantevole. Contro quel silenzio regale e impalpabile, ogni parola era una scia sanguinolenta di catarro. Partire da quella figura, dal mio occhio bagnato in quella sagoma leggera e pregnante, niente di meno, niente di più: in quel caso sì che avrebbe un senso).
Ritornando agli umani, ecco perché, in questo rigagnolo disordinato di considerazioni e di tentazioni, credo sia giusto applicare alcune varianti al mio percorso, oltre allo stupido desiderio di batterlo cavalcando un cavallo della villa comunale. Non vivere l'esperienza dello scrivere come un esame, come un compitino da portare a casa, un disegno o un esercizio ginnico da migliorare, da spersonalizzare nella sua perfezione e da lanciare poi nelle grinfie di un mondo assonnato e distratto che dovrebbe riconoscerlo valido, e che ti risponde, su 600 pagine di scritto, con un cumulo di massimo due tweet. Ma come un processo intimo e silenzioso, l'affondo di un lungo pugnale azzurro nel mio orecchio, che mi porta a gridare e a sporcare di quel grido gli spazi bianchi rimasti, in attesa di qualche anima buona che mi tragga in salvo, forse di quel gatto nero ed elegante del parco che me lo sfili e che mi faccia le fusa durante la fleboclisi. Mi toccherà invece mettere in gioco quello che provo e che sento di esprimere, nei luoghi più semplici e familiari che mi appartengono, l'unica realtà tangibile e percorribile, anche se in apparenza piccola, di questo momento, ma viva: la mia piccola rete, proprio questo angolino invisibile, questa strettoia dalla quale ogni tanto sbocca un righino di fumo come da una casa.
Questo blog, per esempio, potrebbe rappresentare una cabina di comando dove denudare in parte i miei tentativi, per condividere i miei piccoli minuscoli percorsi, tutto quello che vi è di inedito ma di sperimentabile con una relazione viva, sincera, selvatica e generosa, ma non pretenziosa. Lo scrivere per ascoltare gli altri e non per chiedere di essere letto e ascoltato. Lo scrivere per la ricchezza di uno scambio, per un viaggio in seconda classe accanto al finestrino e non solo per un riscontro; chiedere quello che prima si è dato, o che si è tentato di dare, per leggere nello scrivere chi ti legge e renderlo scrittore con la tua lettura-(de)scrittrice. Non mostrare uno standard di razza, questo è terribilmente noioso, molto triste, ma lasciare nell'aria un senso di qualcosa che ho provato, un'idea, un tiro di sigaretta, una luce strana che ho visto soltanto io, e che avrei voluto la vedessero anche altri, non perché chissà cosa avesse di particolare o di importante, che altri luci non hanno, ma solo perché mi ha detto qualcosa che altre luci non mi hanno detto. E perché nel mondo della propria fantasia e molto spesso del proprio dolore che cerca di prendere voce in questo gioco di fantasia, non vigono sempre le solite matematiche, e non vi è nulla di più onesto e difficile, di comunicare semplicemente quello che si è ascoltato dall'affiorare di certe piccole luci o sensazioni, lampioncini e lanterne tra i rami, niente di più o di così più importante: la prima sensazione, il riflesso, che possano essere fanali di auto, bagliori di ultimi tram, finestre di una caserma o di un convento, quello che conta è la condivisione di qualcosa che ancora non si è afferrata e che il solo tentare di comunicarla e condividerla, invece di affermarla, potrebbe lasciare qualche varco in più, un motivo leggero di speranza, o anche di impotenza a rendere uguale con le proprie parole tutto quello che si è provato da muti. Scrivere di questa difficoltà, nel rendere tangibile il silenzio con cui si è ricevuto qualcosa da dover solo dare e non dire, è il più grande regalo che si possa ricevere scrivendo. E anche dare leggendo.
Credo di aver considerato e dissentito abbastanza. Troppo_.