Credo che il mio atto di scrivere non abbia quasi a che fare con un'attività intellettuale. A volte non credo che abbia neanche a fare con un'attività. Non so con che cosa abbia davvero a che fare, ma so che non si limiti solo a una ginnastica di belle idee, di pose acrobatiche e burlesche, di fiammate rosse dalla bocca di un nano, di una nevicata artificiale dal vetro di un ospedale per bambini.
Le mie parole, i miei pensieri, le mie idee, non credo che siano la mia scrittura. C'è dell'altro, che non si vede e che forse sembra eternamente invisibile, e che ha a che fare con qualcosa di molto più fisico e insieme di più oscuro e di impenetrabile. Il modo di sedermi, il senso di grande sconfitta e di impotenza davanti a quello che provo di me e davanti a me, un attimo prima di partire e di perdermi. La mia ombra, che si muta e si accorcia sul foglio, la sera tardi. L'espressione dei miei occhi, quando scendo le scale di sera da un palazzo e guardo la luce bassa da una casa sconosciuta, una stanza rossa con qualcuno che apparecchia la tavola e che forse non incontrerò mai. Il movimento del braccio che prende il quaderno raccoglitore verde, e dopo un attimo lo posa. La ricerca di una penna bic quasi scarica, lasciata tra i cuscini del mio divano, senza la quale non riesco a continuare, perché il filo di una storia dimenticata è stato interrotto dal suo stesso inchiostro. L'ansia di fare male, di sbagliare. Di fare troppo o di non fare abbastanza. Di navigare in acque troppo sicure o troppo profonde. Di affondare e di sprofondare. Il senso di vuoto e di pieno quando smetto, come ritrovarmi in un grande salone vuoto dopo una festa da ballo, con Why should i care, che suona ancora a vuoto per accompagnare un lento di soli spettri, che scivolano tra le tende bianche sollevate dal vento. (About the song) Il desiderio. La paura del desiderio e del silenzio. Il senso soffocante di morte di alcuni pensieri. Il senso soffocante di vita di altri pensieri. La consapevolezza di essere in perenne bilico, e in preda a una maledizione, che non mi lascerà più scampo e spazio per muovermi come vorrebbero che mi muovessi, o per sperare ancora in qualcosa di buono per me, ma che è in fondo tutta la mia speranza e la mia vita. La sensazione di muovere appena le labbra e inventare canzoni, in un isituto di sordomuti, o di proiettare all'infinito ombre cinesi in un piccolo istituto di montagna per ciechi. Di girare a vuoto o nel centro esatto di un cerchio sibilante di fuoco.
Tutto questo non ha a che fare con un'attività intellettuale. Non credo che abbia neanche a che fare con un'attività. Ma è qualcosa di assolutamente inutile e paradossale, quanto fragile, che difenderò comunque in ogni caso. Fino all'ultimo istante.
Le mie parole, i miei pensieri, le mie idee, non credo che siano la mia scrittura. C'è dell'altro, che non si vede e che forse sembra eternamente invisibile, e che ha a che fare con qualcosa di molto più fisico e insieme di più oscuro e di impenetrabile. Il modo di sedermi, il senso di grande sconfitta e di impotenza davanti a quello che provo di me e davanti a me, un attimo prima di partire e di perdermi. La mia ombra, che si muta e si accorcia sul foglio, la sera tardi. L'espressione dei miei occhi, quando scendo le scale di sera da un palazzo e guardo la luce bassa da una casa sconosciuta, una stanza rossa con qualcuno che apparecchia la tavola e che forse non incontrerò mai. Il movimento del braccio che prende il quaderno raccoglitore verde, e dopo un attimo lo posa. La ricerca di una penna bic quasi scarica, lasciata tra i cuscini del mio divano, senza la quale non riesco a continuare, perché il filo di una storia dimenticata è stato interrotto dal suo stesso inchiostro. L'ansia di fare male, di sbagliare. Di fare troppo o di non fare abbastanza. Di navigare in acque troppo sicure o troppo profonde. Di affondare e di sprofondare. Il senso di vuoto e di pieno quando smetto, come ritrovarmi in un grande salone vuoto dopo una festa da ballo, con Why should i care, che suona ancora a vuoto per accompagnare un lento di soli spettri, che scivolano tra le tende bianche sollevate dal vento. (About the song) Il desiderio. La paura del desiderio e del silenzio. Il senso soffocante di morte di alcuni pensieri. Il senso soffocante di vita di altri pensieri. La consapevolezza di essere in perenne bilico, e in preda a una maledizione, che non mi lascerà più scampo e spazio per muovermi come vorrebbero che mi muovessi, o per sperare ancora in qualcosa di buono per me, ma che è in fondo tutta la mia speranza e la mia vita. La sensazione di muovere appena le labbra e inventare canzoni, in un isituto di sordomuti, o di proiettare all'infinito ombre cinesi in un piccolo istituto di montagna per ciechi. Di girare a vuoto o nel centro esatto di un cerchio sibilante di fuoco.
Tutto questo non ha a che fare con un'attività intellettuale. Non credo che abbia neanche a che fare con un'attività. Ma è qualcosa di assolutamente inutile e paradossale, quanto fragile, che difenderò comunque in ogni caso. Fino all'ultimo istante.
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