venerdì 30 aprile 2010
giovedì 29 aprile 2010
L'attesa senza mani (Aeroporto di Parigi Charles De Gaulle) Fertilità dei problemi?
Sono sempre più convinto che qualsiasi comportamento o disturbo creativo, trovi il suo più sofisticato nutrimento nel deserto delle attese, forse l'unica vera scuola. Come i problemi...
l.s.
Piccoli riferimenti incrociati: "L'azzurro della notte" e "il Perturbante"
Sono ancora deciso a esplorare le dinamiche delle mie scelte, a ritroso, a volte con sensi di colpa o con rammarico o anche con gioia. Riguardo al lavoro "L'azzurro della notte", ho trovato un passaggio molto interessante che mi fa riflettere su alcune mie scelte e considerazioni, in rapporto all'idea di quella luce notturna sulla storia e su tutte le dinamiche relative alla malattia:
"...l'esperienza psicoanalitica ci insegna che la paura di danneggiarsi o perdere gli occhi è tremenda nei bambini. Molti adulti mantengono questa apprensione e non vi è lesione fisica che temano più di una lesione all'occhio. Siamo anche soliti dire di tenere a una cosa più che alla luce degli occhi. Uno studio sui sogni, le fantasie e i miti, ci ha insegnato che l'apprensione per gli occhi, la paura di rimanere ciechi, spesso è un sostituto della paura della castrazione".
Sigmund Freud (Il Perturbante 1919)
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mercoledì 28 aprile 2010
"L'azzurro della notte": Informazione, impressione, comprensione dolorosa. Del fidarsi incondizionato
Una storia di questo tipo rappresenta per chi l'ha scritta un punto di non ritorno. Assoluto. Per diverse ragioni, che cercherò di elaborare nel tempo, sia attraverso nuove riflessioni, che sviluppando scritti successivi. Dopo aver scritto di Simona, la pattinatrice o falena notturna e di tutto quello che le succede intorno o attraverso, e di Lampo e di uno scrittore senza parole, penso che tutto quello che scriverò dopo sarà minato da questa stessa ombra di dolcezza e di spavento simultanei, quell'ombra azzurra del cielo e del contesto, del tema, dell'uso particolarissimo di un pdv sdoppiato o in alcuni casi triplicato. L'uso del linguaggio come matrice primaria "perturbante" su tutto l'impianto emotivo. Cercherò di articolare in questo post, solo i dieci punti fondamentali che ho ricavato a una prima rapida analisi, su cui si è articolata la vicenda narrativa, come piccoli tasselli da tenere fermi in un luogo e cercare all'occorenza per risonanza (o per necessità?).
La storia si sviluppa su piani diversi e simultanei, e anche nella costruzione dell'impianto, mi sono dovuto abituare a prendere confidenza con questa cortina particolare e complessa, che separa lo scritto dal sognato o dal "non ancora verificato" ma già reale. Questa storia è esattamente dentro entrambe le ampolle appannate, tra la notte e la prima sera, come la stessa tinta curiosa che stacca nel buio, come se sfiorata da una lontana luminescenza.
Una storia d'amore, improbabile ma forse tra le più profonde e spaventose che la mia immaginazione abbia mai incrociato. L'elemento più forte, e lo dico da lettore, - perché quando leggo le mie storie voglio viverle come un lettore che non sa quello che accade, (e quando lo scritto funziona dimentico sempre di saperlo,anche dopo la decima scorsa) -, è che tutti gli elementi della struttura, i personaggi, le situazioni, le attese, i colori, le luci, si immergono nella vita di chi legge e rimangono sospesi e pattinanti in cerchio, come ospiti improvvisi, fidanzati di un'estate o di una vita, fantasmi o parassiti, ma difficilmente "dimenticabili". Questo è un fattore che mi ha fatto molto riflettere, dal momento che il mio coinvolgimento di fronte a un lavoro del genere e così rischioso, che ho visto crescere dal suo embrione sotto i miei occhi, è tale che questo fattore non si può spiegare, nel senso che non lo avevo nemmeno previsto. Perché Simona sia diventata parte della mia vita, e per ogni elemento della mia esistenza arriverò a lei, questo rimarrà un mistero, eppure in questa storia esiste questa sicura così strana, che te la blocca dentro, come una nostalgia feroce o un innamoramento verso quelle precise dinamiche e atmosfere della sua vita. Fino all'ultimo attimo. (Parlo ancora per me, chiaramente) L'unico modo per sottrarsene è non cominciarla. A volte immagino che se non l'avessi mai scritta o pensata, sarebbe stata diversa la mia vita. Anche quello che scrivo adesso avrà la risonanza di certe luci, di certi attimi che possono inspiegabilmente dilatarsi in una loro strana logica di eternità legati a quelle vite che sento vere e vive, forse nell'attesa che le riconosca, da qualche parte.
Gli elementi fondamentali del percorso:
1) Scrittura e vita o sogno?
2) I colori della notte. La pittura. Mutamenti dei cieli e degli animi
3) L'amare incondizionato.
4) Il dolore: informazione, impressione, comprensione. Sade.
5) Il rosso dell'uomo, l'azzurro di Dio?
6) Simona e i suoi pattini invisibili senza pista: espressività negli affetti e nel dolore. La rinuncia consapevole. La fiducia. Il sacrificio nel buio.
7) I punti di vista alternati su dinamiche comuni. La prima persona narrante è la stessa che scrive la notte di quello che ancora non sa del tutto e non vive?
8) Il cane Lampo. La nostalgia della perdita. Prospettiva mutante. Entità di equilibrio.
9) Sigmund Freud: Unheimlic ("Il Perturbante" 1919) Francese: Inquiétant; Spagnolo: lúgubre, siniestro. Gli occhi e i movimenti delle bambole. Il magico e il doloroso nella malattia mentale.
10) Il contratto affettivo nella malattia mentale.
l.s.
Foto di Daniela Fariello.
l.s.
Foto di Daniela Fariello.
martedì 27 aprile 2010
Le parole delle mie storie
Le parole delle mie storie, a volte sono cani sciolti e feroci che mi assalgono;
altre volte, invece, dolci pattinatrici felici, dalle nuche veloci e scoperte
di baci sfiniti.
l.s.
lunedì 26 aprile 2010
Da un temporale: short story, in abito nero e cortissimo
Da questa foto di Daniela un gioco immaginifico, pensato in un abito da sera cortissimo e a lutto, per le atmosfere narranti...
Temporale: short story in abito nero e cortissimo
"Signore, mi dispiace, ma qui ormai non c'è più nessuno".
"Non capisco, ma non era qui che dovevamo ritrovarci? Qui c'è l'invito della signorina Spencer, guardi anche lei!".
L' uomo in livrea prese con la mano libera dall'ombrello il messaggio ricevuto e scrutò la grafia tremante e femminile di quella mittente così emozionata nella sua scrittura epistolare. Poi alzò gli occhi e mi fissò: "Mi dispiace, signore: è ripartita".
"Ma come ripartita? La prego, se sono ancora in anticipo..."
"In anticipo sulle cinque, ma con un giorno di ritardo, signore. L'incontro era per il 22 alle cinque e non per il 23. Deve stare più attento. L'amore è soprattutto attenzione, caro amico, e adesso, se mi permette, dovrei riaccompagnarla all'auto, che mi attendono dentro".
"Dentro, ma dentro per cosa? È rimasto ancora qualcuno, c'è forse ancora qualcosa di lei, un messaggio?".
"Niente di tutto questo, signore. Dovrei pagare i becchini...che hanno premura".
Sbam! Il rumore di una bara che sbatteva mi risvegliò dal mio incubo. Rossana era accanto a me che dormiva, nella nostra villa. Stava piovendo ed era il giorno del suo compleanno. Quella sera avremmo festeggiato. La baciai nel sonno, e feci attenzione a non svegliarla...spaventato a morte ma felice!
l.s.
domenica 25 aprile 2010
Lettera a Neblinas
Ieri mi arriva questa breve lettera dalla Pontificia Facoltà Teologica di Villa S. Luigi. Il professor Marra: comunica ancora in cartaceo, asciutto, essenziale, come la sua persona. "Neblinas" è ancora un inedito, diviso tra poche persone selezionate. Lui lo ha letto e lo ha visto e sentito così:
Napoli, 16/4/10
Caro Luigi,
ho letto il tuo "libro" passatomi da Nicola. Congratulazioni e auguri.
Viaggio dell'anima che mi ha molto impressionato per la profondità e per l'impegno globale. Una vera salita alla "Montagna" delle Sette Selve.
Con affetto,
Bruno
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sabato 24 aprile 2010
A portrait of you: (Love Letter)
Questo scritto è nato da un solo mio scatto di te. Ho ragionato del tempo se inserire la tua foto o meno, poi ho smesso di ragionarci su perché certe scelte non si pensano, ma si amano...:
"Da questo mio scatto una linea d'ombra, o forse quella ferita preziosa che ci ha avvicinato e sognare di essere te per non morirne.
L'espressione del corridoio di noi due, tra le fermate di Saint-Lazare e dell' Opéra, i tuoi occhi si accendevano di candelabri e camere mortuarie della metro: quando mi arrivavi a chiudere un polso nella mano per imparare le prime volte il fuoco delle direzioni già difficili, come una figlia più grande di me, che pensavi di non ritrovarti più e camminavi ancora vicino a me, che eravamo da soli e io sono innamorato di te.
Non mi ricordo quello che ti dissi dall'inizio, era Agosto e non c'era più nessuno. Non sapevo chi fossi, Francesca di Agosto e Francesca notturna e dell'insonnia di Mezzanotte o dei miracoli, e provando da subito lo spavento dolcissimo di non scoprirlo mai. Fantasmica, come una Domenica pomeriggio di poca pioggia o di Primo Maggio, forse perché cominciammo a parlarci a notte fonda, senza reti e senza occhi, che non reggevo lo sguardo verso di te nemmeno di sera. C'era solo il grano tiepido dell'aria di quella notte così strana e la bellezza del nome e degli occhi di te come se da sola o Parigi, che ci ha cambiato la vita, e quella stessa strana solitudine di questo scatto o bacio francese di molti anni dopo, che mi aveva già rapinato da prima con la punta feroce di un gomito stretto alla gola, nell'arcipelago in autunno della tua dissonanza e dolcezza di esistere, con l'impaccio da soli appena dolente in una città straniera e il tuo primo aeroplano, mentre il tuo sguardo nel primo sonno staccava in decollo parallelo nel mio sterno azzurro.
Forse per quella stessa idea di malinconia, così elegante e così più imperscrutabile la tua: "la tua malinconia mia" con cui ho capito di amarti dall'inizio, e quella della tua vita un po' rallentata spaventandoci nell'interno notte di quell'attimo come nello scatto della foto che io non potevo esserti mai vicino -la macchina non era nostra e non ci capivamo niente di autoscatti e rimanesti male: nemmeno una da vicini in un luogo veloce e lontano- e guardavi la mia vita e la tua e già vedevi quello che ancora non scrivevo e non scattavo di me: "Tu devi scrivere" me lo hai detto prima tu...e io che non capivo o non ti sentivo, che forse ne provasti paura delle mie parole nella sera e della stessa mia vita tua, in cui ci accorgemmo di cadere, ("i fall in love": solo gli inglesi hanno capito a dovere la perfezione della resa all'abisso) e dimenticare la frattura e la poesia del tuo silenzio perfetto e i biglietti d'amore all'ingresso di casa e la tua macchina rubata e ritrovata, il tuo fidarti dell' ultimo attimo e lo strano incantamento geloso di un sorriso sfinito, se ancora più stregata dalla dolcezza di un mal di testa che ti fa così assorta di te e ancora addormentarti di un mio bacio rubato, sfiorandoti i capelli raccolti, tremando nelle ossa e nel cuore come non ho mai tremato in alcun altro luogo, o forse di una storia senza scrittori e portanti, e non ancora mai raccontata, perché tu ami farti sempre un po' da parte e non forzare mai troppo e rimanere dentro la foschia di questo tenue lume candente e indefinito che è il tuo sfumare innamorando e senza il tempo: mai ostentato, nell'inferno infranto di tutta la mia complessità e la tenerezza screziata del sogno alla candela che consuma e dall'errore di soffio ci sporca, e in questo sopore di antico fumoir che mi sciogli ancora dalle finestre accese di casa, i treni della notte e gli ultimi metrò i più lontani, perduti insieme...
your sincerely,
your sincerely,
venerdì 23 aprile 2010
La psicologia della fiaba: raccontare di una perdita
Penso che quella della fiaba di Ancia e Zanzarina sia stata una delle esperienze più tenere e delicate che abbia vissuto attraverso l'amore per la scrittura e per gli amici che attraverso la scrittura ho avuto la fortuna di incontrare. Nata da un contesto complesso perché legata alla storia di un'amicizia ma anche di dolore di un possibile e poi avvenuto distacco, elaborazione del lutto immediato. Che cosa ho pensato? Di utilizzare questi elementi così profondi e imperscrutabili attraverso il piccolo incantamento del fiabesco, cercando di far attraversare ogni dinamica emotiva e strutturale del piccolo ma delicatissimo impianto di tessitura, attraverso lo sguardo un po'assonnato di una bambina che sta per prendere sonno o che ha paura del buio e degli occhi verdi di una bambola capovolta che la sta guardando, e allora cerca la carezza di una favola, contro i tuoni e i baleni. Tra l'altro ho introdotto un sottilissimo contrappunto di controtempo narrante -è molto difficile da percepire perché me ne sono accorto io in ritardo - lasciando crescere i compagni della classe nel ricordo, e lasciando invece Zanzarina allo stesso livello di Ancia, sia come tempi regressivi o spaziali di crescita o ancora come condivisione ed empatia del dolore. In fondo nella fiaba con la partenza di Ancia si ferma anche Zanzarina e questo stravolge, come in tutte le fiabe, la razionalità e la logica della narrazione.
Ho imparato un'infinità di cose avventurandomi in questo strano percorso di contrasti, forse la più importante riguarda la continuità, nonostante le stenosi inesorabili di una perdita forte, di quel piccolo filo che continua lo stesso la sua strada parallela a un'esistenza. Una fiaba sull'amicizia e sulla condivisione dell'amore per la scrittura. Molte volte anche una tematica così bruciante e dolorosa, può ammantarsi di neve e diventare come una speranza. Come se raccontando della Morte a un bambino, la fai diventare più piccola, come stava succedendo ad Ancia...
Ho imparato un'infinità di cose avventurandomi in questo strano percorso di contrasti, forse la più importante riguarda la continuità, nonostante le stenosi inesorabili di una perdita forte, di quel piccolo filo che continua lo stesso la sua strada parallela a un'esistenza. Una fiaba sull'amicizia e sulla condivisione dell'amore per la scrittura. Molte volte anche una tematica così bruciante e dolorosa, può ammantarsi di neve e diventare come una speranza. Come se raccontando della Morte a un bambino, la fai diventare più piccola, come stava succedendo ad Ancia...
Ciao, Giovanni...
LA FAVOLA DI ANCIA E DI ZANZARINA di Luigi Salerno (A Giovanni e Little Midge)
"C'era una volta,
come in tutte le favole, un bambino che cresceva al contrario, o meglio cari lettori bambini, diventava sempre più piccolo e più dolce ogni giorno che si avvicinava al giorno del suo viaggio. I bambini che lo conoscevano e che gli volevano bene, un po' per tenerezza lo chiamavano ancia, come quella del suo oboe, perché diventava sottile come lei ma anche molto più magico. C'era una bambina, tra le tante, che gli chiedeva dove sarebbe andato così piccino e se così sottile i suoi genitori gli avrebbero fatto affrontare un viaggio così lungo e senza una destinazione; sì, cari bambini, perché il nostro Giovannino, detto ancia, non sapeva ancora dove lo avrebbero portato e forse era quello il cruccio più grande, non sentire più la sua voce, il suo suono , le sue parole, ma lui rimaneva sempre tranquillo, senza creare malinconia, anche se la sua destinazione era ancora misteriosa, perché suo padre cambiava sempre luoghi per una missione segreta.
Giovannino allora accettava tutto e così un mattino, la bambina più magra e sottile della classe, così sottile che la chiamavano tutti zanzara, gli si avvicinò e gli chiese di lasciarle almeno la bellezza del suo suono, quello della sua ancia, di carpirne il segreto e così, sperava zanzara, anche se non saprò dove andrai, cercherò in qualche modo di tenerti vicino, anche se non so suonare. Certo per zanzara non ci sarebbe stato più il tempo di imparare a tenere e conservare il suo suono, ma Giovannino, che l'aveva ascoltata con grande attenzione, sembrava concentrato e fiducioso, le disse di non temere che poco prima di andare nel luogo senza nome, per la missione del padre, le avrebbe lasciato il suo suono. Il tempo passava e Giovannino era sempre più piccino, diventava più piccolo della sua stessa ancia. La piccola zanzara diventava sempre più triste. Quando arrivò il momento del viaggio ciascun bambino della classe aveva ricevuto il suo pensiero, perché erano cose più semplici, piccoli oggetti, qualche soldatino di stagno, ma per lei, proprio quella più sottile delicata e pensierosa, non era rimasto niente. Era stata dimenticata. Giovannino partì, che piovigginava appena, e alzò appena la mano dal finestrino, con gli occhi socchiusi, che tutti i compagni erano vicini e un po' tremanti, Zanzarina invece solo arrabbiata e delusa e senza una lacrima. Era stata ingannata, proprio lei che gli voleva quel bene così speciale, non aveva ricevuto niente.
Le giornate dei ragazzi continuarono con malinconia, ciascuno ricordava qualcosa di bello di lui, si parlava, ma solo lei rimaneva muta, pensando al suono che ancia le aveva promesso. Ma un bel mattino, che c'erano gli azzurri più azzurri di un inverno che non ricordava di aver mai visto così bello e innevato nella sua vita, arrivò un treno postale da un luogo lontano e sconosciuto. Da quel treno un pacco misterioso e blindato, che portarono in quattro, sotto i fiocchi della neve, fino alla sua casetta.
Zanzara era in casa, anche spaventata perché chiamarono proprio lei, che così piccina non aveva mai ricevuto un pacco così importante e blindato. I quattro le dissero di firmare e le misero imbarazzo, perché la guardavano accigliati mentre alla piccoletta le tremava la mano sul foglio. Il mittente veniva da un luogo segreto e senza nome e non poteva essere che lui. Era così emozionata, forse era proprio la lettera di Giovannino, la piccola ancia traditrice, che adesso forse si scusava o le mandava un regalino. Si fiondò nella stanzetta, Zanzara, e sul letto, chiusa a chiave, aprì il pacco segreto. Le dita si intrecciavano per il nervoso, faceva un sacco di pasticci, poi uno scatolino blu rettangolare e un piccolo biglietto: "Dolce zanzarina, io non ti ho dimenticato era solo che il tuo suono non avevo più trovato. Finalmente l'ho capito, spero che mi avrai perdonato"...
Gli occhi di zanzarina scintillavano di gioia e di paura. "Il mio suono", pensava, e intanto apriva con le sue piccole manine l'involucro vellutato di una penna, una penna stilografica, solo per lei...
l.s.
giovedì 22 aprile 2010
Da una mail perduta alle luci di una città: Rosanna Palmieri
Credo che il mondo della rete sia veramente imbrigliato di tante fisionomie diverse e in ciascun settore districarsi è davvero una cosa molto difficile, a dir poco impossibile. Le mie prime fasi su internet erano relative a virate aeree, senza una meta predestinata. Preferivo scrivere, poi l'idea del blog, andato deserto per un tempo lunghissimo, ma comunque con una sua linea piuttosto precisa di condotta delle sue parti, a volte più approfondita ma comunque onesta, nonstante rimanesse un messaggio in una bottiglia verde nell'oceano. Quando ho incontrato delle persone quanto meno curiose di questa strana faccenda, sperduta tra altri milioni di blog, come un pulviscolo in una galassia, sono rimasto stupito, mai sospettoso, e ho trovato delle bellissime sorprese, come le sorprese vere, soprattutto in un momento così critico come è questo per trovare interlocutori stimolanti con cui condividere la stessa passione, in questo caso la letteratura e la scrittura. L'idea del blog è quella di un tavolino di un caffè, immaginario, dove sedersi per prendere ombra, dissetarsi e a volte scartare i propri misfatti letterari, stando attenti che il vento non se li porti. E al momento il mio tavolino è al completo e anche se non venisse più nessuno, è uno dei più belli che avrei potuto mai assortire. Chi un giorno vorrà abbinarsi, ci sarà sempre lo spazio adeguato.
Adesso veniamo a Rosanna. Rosanna è convinta che questo bellissimo incontro fosse stato minato all'origine da una mia volontà di evitamento, dire volontà è una parola grossa, ma penso che inconsciamente, non avendo salvato a dovere la sua mail, l'idea che si era fatta di me era quella: volevo perderla. La mail serviva per scambiarci pareri e impressioni sui nostri scritti, come stava avvenendo già da un po' con Sandra, con cui ormai già si era rodato un certo clima di intesa. Ma con Rosanna sono partito con una brutta figura e con dei testi bellissimi e una persona originale e creativa. Non lo dico per farmi perdonare, dal momento che il contatto si è ripristinato e adesso vi sto presentando la prova lampante che la mail non è andata perduta. Insomma, una poetessa - non so se ami farsi definire così ma secondo me chi, come lei, ha messo le mani avanti sui suoi scritti, ha fatto un gesto naturale e poetico-, con cui ci scambiamo da un po' alcuni testi, con una buona sintonia, e poi un bel giorno mi arriva tra gli altri questa sorta di strano racconto, con alcuni riflessi precisi su luoghi che conosco bene e che vengono riflessi con grandissima leggerezza e sagacia, a cavallo tra prosa e poesia. Uno stralcio di primo pomeriggio o forse la reale dilatazione di un' ora di pranzo ammantata di irreale e di una strana magica indolenza, a volte anche un po' visionaria, in un pezzo antico di Napoli città, con un gioco abile di intarsi molto originali e sentiti, tra storia e sogno. Fate attenzione ai suoni e al gioco di temperatura del bicchiere di birra e ai colori paralleli di malto dell'ambiente descritto, e capirete molto meglio di cosa e di chi sto parlando.
Lascio a voi il gusto di scovare il pregio e la dolcezza ombrata di questa piccola striscia di seta.
Grazie!
l.s.
l.s.
Da qualche parte, in un’ora improbabile, una birra fredda e quello de “La gatta”.
Giornata di sole, camminiamo a fatica sudate e stanche,
chiacchieriamo di cose stupide e ridiamo dei sacchetti
della spesa che ci segano le mani, pieni di cose inutili
e di acquisti sbagliati sicuramente da cambiare,
all’improvviso Flavia si ferma e mi dice: ”
Non me ne frega niente che sono solo le undici e
mezza del mattino, sediamoci da qualche parte,
che sto morendo di fame”. Da qualche parte diventa
allora un angolo senza pretese, tra due strade affollate
di gente e di macchine rumorose a due passi dalla
centralissima via Toledo, giusto quattro tavoli, due per
lato, a fare ombra due ombrelloni alti, color avorio e
una siepe bassa d’alloro tutto intorno; c’è un profumo
di pizza che ci porta via, in questo posto improbabile e
a quest’ora altrettanto improbabile per dover mangiare;
decisamente consolatoria si rivela essere la birra fredda
nei bicchieri imperlati di goccioline, subito mi ci sfrego
contro i polsi e faccio una prima sorsata avida in attesa
delle pizze, immediata la sensazione di benessere, i piedi
si anestetizzano e per qualche minuto dimentico che mi
fanno male, l’alcol dallo stomaco veloce si apre
un varco e riaffiora sulle mie guance, dandomi un’aria
intontita e buffa, non parliamo più, stiamo come sospese;
guardo alla mia destra, c’è un uomo di mezz’età dall’aria
bonaria, ha i capelli brizzolati, né corti né lunghi, gli
occhi chiari e assenti, è distratto, non c’entra col resto,
non c’entra con noi, ci sono più di trenta gradi e indossa
una giacca di lana pesante a quadri grossi, ha un giornale
spiegazzato in tasca, non sembra neppure sia lì per mangiare,
non sembra essere lì affatto, m’incuriosisce, lo
osservo bene e continuo a chiedermi dove l’avrò già visto.
Finalmente arriva il cameriere con le nostre pizze,
passa davanti al signore distratto, lo saluta
affettuosamente poggiandogli una mano sulla spalla
e gli chiede se vuole il solito, questi con voce esile
risponde di sì, allora il cameriere dice ad un suo collega:
“ Il solito al professore e facimme amprèssa che l’aspettano o’
S. Carlo”. Poi ci guarda e con aria complice ci fa:” E’
De Simone, quello de “La gatta”.
Rosanna Palmieri
martedì 20 aprile 2010
Tappeti di Sandra Mazzinghi
Pubblico questo racconto di Sandra, perché rispecchia molto la persona e la scrittrice che conosco da poco ma che penso di aver inquadrato abbastanza; e anche per festeggiare una sua soddisfazione con un suo racconto selezionato giusto oggi. Mi ha inoltrato la mail con l'esito positivo con la i del mio nome lunga come quindici treni espressi messi in fila, è fatta così, ma per il resto è innocua. Per chi non la conoscesse ancora, per darvi un'idea alquanto più precisa, è la copia vivente, nel suo stesso surreale, della Dorothy di Oz, e in questo racconto più che mai. Ma non voglio anticipare niente sul racconto selezionato, credo che lo farà lei, al più presto. Nel racconto selezionato e anche negli altri, io avverto una particolare energia, un senso di magico, una narrazione sognante, in punta di amaca e di brezza, ma allo stesso tempo profonda e ispirata. A volte colgo una bambina che sogna, in altri momenti una studiosa di astronomia che cerca di infrangere la regola e scoppia in lacrime nel telescopio, forse perché vorrebbe essere già lì, come su di un tappeto volante o su tutti i tappeti volanti possibili e in contemporanea. E quando si legge una sua storia con attenzione, arriva un tappeto e ti prende...
Buona fortuna, Sandra:
l.s.
Buona fortuna, Sandra:
l.s.
TAPPETI
di Sandra Mazzinghi
Marta aveva una bella casa. Arredata con gusto, con mobili di stili diversi, tutti rigorosamente in legno. Nulla di moderno. Viaggiava molto per lavoro: era guida turistica. E da ogni luogo si portava via un pezzo di quella cultura, non souvenir nel senso classico ma un mobile particolare, una tenda strana, un quadro che l’aveva colpita, un tappeto. Soprattutto Marta adorava i tappeti. La sua casa, sì, era grande, ma non aveva una superficie adeguata per tutti i tappeti che aveva accumulato con i suoi viaggi. Non c’era ormai più un piccolo spazio libero. Alcuni tappeti sbucavano da altri, mosaico di stoffe diverse dai mille colori.
Era caldo il pavimento della sua casa. I tappeti si distendevano per le varie stanze, nelle stanze più grandi erano tappeti rettangolari, verso i corridoi erano stretti e lunghi, tipo passatoie e stuoie morbide.
Un viaggio, un tappeto. Sarebbe stata in grado di ricordare il luogo da dove proveniva ogni tappeto, il mercato dove l’aveva acquistato. E anche gli occhi di chi gliel’aveva venduto.
Marta amava molto il suo lavoro, talvolta lasciava i turisti liberi per qualche mezz’ora per vagare tra i banchi dei mercati, e lei faceva due passi per cercare oggetti insoliti. Ma soprattutto era attratta dai tappeti. Li adorava. Grandi, dai colori aranciati, mai dove dominava il color porpora. Colori caldi che avrebbero riscaldato la sua casa e quindi anche lei.
Era sola, una donna che faceva quel lavoro non poteva avere una famiglia. Era sola, coi suoi mobili di legno e i suoi tappeti. Ripercorreva spesso i suoi viaggi, rivedeva le persone che aveva incontrato e le facevano compagnia nelle serate malinconiche.
Spesso si sdraiava sulle morbidezze di quelle orditi creati da mani esperte. Mani che intrecciano fili come il destino intreccia le esistenze. Il filo blu vicino all’azzurro. Il destino raccoglie una vita e la porta sulla strada di un’altra vita.. Ma poi. Poi arriva il filo arancione, un filo solare che si intreccia col glaciale blu e il disegno e l’armonia cambia completamente. E il destino, che si mette nel mezzo alle varie realtà, porge una strada bella o brutta. O così così.
E il destino tesse la vita, noi possiamo solo porgergli i fili. E il colore lo sceglie lui.
Pensava spesso alla vita, a cosa aveva avuto lei dal destino, quando era sdraiata e talvolta quando la malinconia la schiacciava si raggomitolava sui suoi tappeti. Come a non far entrare il dolore.
Basta tappeti! pensò mentre accompagnava un gruppo di italiani in Guatemala. Basta tappeti! Non voglio neanche vederli. Ma naturalmente.
Era la prima volta che accompagnava i turisti in Guatemala, e una delle tappe era il Mercato di Chichicastenango. Era già eccitata all’idea di visitare il mercato più grande del paese, in una delle città più pittoresche. Aveva letto da qualche parte che i venditori provengono da ogni villaggio vicino e nelle sere precedenti il mercato sistemavano le merci sui banchi e si scambiavano ultime informazioni prima di dormire vicino ai banchi, sotto le stelle.
Disse quella mattina ai turisti: «Due ore libere, senza questa guida pazza da seguire! Non vi perdete, magari!»
Due ore per i turisti. Ma due ore per lei.
Prodotti tipici, amuleti, arazzi stranissimi. Ed eccoli. I tappeti: distesi, arrotolati, srotolati davanti ai suoi occhi. Ecco le tinte e i colori. Ecco gli intrecci di fili. Eccoli. Si avvicinava, rimproverando se stessa. Basta tappeti! Basta!
Ma era più forte di lei.
Il venditore grassoccio con gli occhi vispi le venne incontro.
«Buongiorno, tappeto bello, bella signora?»
«…No, grazie… guardavo soltanto!» mentì.
Fingeva. E intanto si avvicinava per toccare, sentire le stoffe, i fili, i nodi.
«Italiana?» le chiese il venditore…
«Sì…»
«Signora italiana, anche in Guatemala ci sono tappeti magici, sai?»
«Certo… non solo in oriente… tra quel mucchio di tappeti uno vola. Tappeto volante!»
«Ah sì? E qual è?» chiese Marta stando allo scherzo.
«Non lo dico signora, devi scegliere tu…»
Marta pur convinta che non doveva comprare nessun altro tappeto per il mondo andò verso quella pila colorata di tappeti spinta da un’insolita energia. Li lisciò con le dita, li sfiorò con calma. Fuggevolmente. Con gli occhi chiusi.
E senza guardare i colori e la forma disse al piccolo venditore: «Questo, voglio questo! Lo prendo e speriamo che sia davvero il tappeto volante!»
«Certo signora. Ci sale sopra e torna suo paese sul tappeto…»
Risero. L’uomo perché aveva concluso il suo affare. Marta rise perché aveva sfidato se stessa e non era stata capace di frenarsi davanti a quel tappeto che al tocco le aveva fatto scoccare dentro qualcosa di strano.
Il venditore arrotolò il tappeto, lo legò con un cordino e lo mise sotto il braccio di Marta.
Per fortuna era un tappeto non molto grande.
Verso sera. Nella sua camera d’albergo Marta era impaziente di aprire il suo tappeto, camminarci scalza, sdraiarcisi sopra. Così fece. Lo srotolò tra il letto e la porta del bagno. Tinte arancioni, bene. Tessuto morbido, bellissimo. Si sedette a gambe incrociate al centro di quel rettangolo. Accarezzava con il dorso della mano i bordi. Adagio. E con le dita. Lentamente. Poi le sue dita ebbero un sussulto, una scarica acuta e strana. Erano le dita? O il tappeto che si era mosso? Una voce… tappeto volante, non solo in oriente… tappeto magico… E gli occhi scherzosi, ma schietti del grasso venditore di tappeti.
No. Non era possibile. Era lei che era esaltata sopra un tappeto nuovo e aveva tremato sulle trame del tappeto. I tappeti non tremano. No.
Si alzò di scatto. Si alzò e si infilò sotto le coperte.
Marta quella notte, in quel letto sconosciuto di albergo, davanti a un tappeto, fece strani sogni. Sognò il viaggio verso l’Italia, il vento che le scompigliava i lunghi capelli, sensazioni di libertà infinita, vertigini e vuoto talvolta. Paesaggi senza cornice di finestrini di aereo. Paesaggi veloci.
La mattina dopo Marta si svegliò nel suo letto, nella sua camera. E il nuovo tappeto, ultimo acquisto, era davanti a lei, con un piccolo risvolto sull’angolo.
Si accorse di avere le nocche bianche e le gambe intorpidite. E sorrise.
s.m.
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Guyau e il Pascoli di Castelvecchio e Masquerade. Il Tempo affettivo
Penso che solo in fasi successive comincia a farsi più chiaro il serbatoio di memorie e di piccoli bagagli acquisiti e in apparenza dimenticati o rimossi, che si trovano nel fondo ancora caldo di una storia e dentro di me. Come se tra me e le mie storie si innesti una relazione sentimentale in piena regola, con piccoli ricordi, passeggiate serali, ritagli di foto vissute insieme, un riparo fortuito e improvvisato durante un piovasco. Nel caso di "Masquerade", ogni tanto affiorano dei riferimenti di quanto sia particolare e animata, almeno nelle sue spirali di risonanza (ieri sera ero da solo in macchina sul tardi, rallentando in un incrocio solitario scorgo il vetro appannato e mi suggestiono) sia quelle interne alle mie emozioni sollecitate, che a piccoli passaggi che si incontrano lungo il proprio percorso.
Il primo è quello del Pascoli dei "Canti di Castelvecchio", che avevo cominciato a leggere con attenzione circa un paio di mesi fa, e soprattutto in una poesia "Il brivido" ho colto la stessa volontà di presagio che ho voluto imprimere silenziosamente dalla prima scena, che forse è già inclusiva di tutto il senso emotivo del suo sviluppo: "...sventola e smuove le foglie e fino alle dita dei rami nel buio". In effetti è un soffio abbastanza indeterminato ma ritornandoci lo avverto come una presenza. Ne "Il brivido" invece si allude a un tremito della sensazione fisica che dovrebbe significare il rapido passaggio della morte; "Il brivido che qualche volta ci scuote all'improvviso, è interpretato (in Romagna, che io sappia) come il passaggio della morte", dalle note originali del poeta. L'inizio può svilupparsi in quel senso solo inoltrandosi nella sospensione dei personaggi, e nel successivo passaggio delle luci dei fari sulla ragazza, che variano in sequenza dal rosso fino al nero. In questo caso avrei utilizzato due elementi come personificazione di un evento sinistro: il tremito delle dita dei rami e il passaggio mutante della luce sul corpo femminile, che tra l'altro non la vede: sarei io (colui che è narrato, in questo caso) a scorgere i segnali sul ramo e sul corpo che mi è accanto ma che non vede nessuno dei due. Responsabile di una serie di indizi che ancora non coglie e ai quali il lettore è portato a credere vagamente, come passaggi di uccelli di sera, senza stare troppo a soffermarsi ma soltanto confondendosi nelle ombre e nelle luci rapide. Nella poesia l'effetto è continuo di tremore provato sulla persona e non riflesso e visto da un altro:
"Mi scosse, e mi corse/ le vene il ribrezzo/ Passata mè forse/ rasente, col rezzo/ dell'ombra sua nera/ la morte..." Abilmente personificata e diretta nel contesto, così come ne "La nonna" ma adesso con gli occhi e non con il soffio: " Sì, pure al lettino del bimbo/ malato...la Morte guardava, / la Morte presente in un nimbo...[...] "la Morte da un angolo..." terribile l'angolazione spigolosa di chi ci osserva.
E dentro l'auto di "Masquerade" gli occhi cominciano a muoversi da quello strano vento fino alle luci, insieme a chi osserva dall'esterno, che non si vede ma si annuncia. Ancora una volta un'attesa. Tutta la storia è confinata in una sala d'aspetto infinita e claustrofobica (l'affetto recluso, oppressione e libertà di uno spazio affettivo, erotismo interrotto, destinazione oscura) e la personificazione di questo macigno di ombre e di luci e la Morte dell'affettività, come desiderio per non soffrirla o forse perché è un peso troppo grande e bruciante per chi scrive. Ed è adesso che entra in gioco Guyau, in uno stralcio rapidissimo di pensiero, quando scrive che soprattutto in punto di morte "la felicità più dolce è quella che si spera". In fondo l'imminenza e la natura del presagio, nascondono la stessa vena malinconica di nebbia verso lo spasmo affettivo di un'eternità delle emozioni più dolci e impossibili, del suo viso senza gli occhiali che affama ancora più di baci, come la dolcezza del suo allontanarsi, dalla sua uscita dall'auto, fino al suo ritorno, dove si schiude una dimensione ombrosa e irreale di "Tempo affettivo" a cavallo tra le sequenze e i passaggi oscuri della vicenda ancora in sospensione. Ancora Guyau: "L'idea di passato e di avvenire non è solo la condizione necessaria di ogni sofferenza morale: essa ne è, da un certo punto di vista, il principio" (La genese de l'idée du temps, Alcan, Paris 1980).
Mi sono accorto che tutte le mie storie che toccano questi elementi così impalpabili dell'attesa e del dolore, sono inquadrate come luci e come tempi, da un pezzo di specchio rotto che riflette la loro iridescenza in più raggi, a seconda della luce del giorno e del punto di inclinazione. E ancora come è possibile che sia nata una storia così esasperante e tremenda da una sensazione così delicata che provo verso la dimensione e la fragilità del mio sentire il tempo e lo spazio negli affetti senza tempo e luoghi? È una sensazione molto forte quella che la storia risenta sia del taglio pericoloso dei bordi aguzzi dello specchio infranto, ma anche della varietà cromatica di esposizione a un mio unico piccolo grande flusso sognante.
l.s.
lunedì 19 aprile 2010
Incipit inedito in corso. Il mio cattivo esempio di come lavoro su di un testo grezzo
Rodare un incipit. Uno come questo che è di quest'ultima estate e sta vivendo ancora la dolcezza dolorosa di una stanca stagionatura, forse ancora lunga. L'estate scrivo sui quaderni a righe, ho un polso strano, che fa il verso a tutti i maestri della mia vita che hanno tentato di correggerlo e forse è proprio da quel polso che si svelano le mie piccole stenosi, di un linguaggio che amo e che non so, a volte al limite con l'incapacità di scrivere. Forse il mio cattivo esempio, ancora così oscuro, forse sono proprio così e non penso di saper scrivere in modo diverso. Penso che non sapendo scrivere che così, posso perdermi come vorrei, in un mio mondo che mi accolga, come una gondola o una giostra. Forse , in altro modo, non sarei onesto e quella chiarezza artificiale soffrirebbe quello spazio angusto che l' affama. Ve lo lascio come un appunto privato di lavoro.
Un omaggio silenzioso ai nuovi e più fedeli amici di questo blog, -in frastagliata successione asindetica- che lo stanno modificando e stanno cambiando in meglio anche me, con il loro grande cuore e la loro stima: (Stefania (the little midge) e il suo momento così delicato e difficile e il suo palazzo di S e di T, Sandrina (Dorothy), che metto sempre in un tempo soltanto suo, eterno e rarefatto, ottativo sognante verso le sue risorse e la sua voglia di comunicare, Daniela (editor nata) e la sua malinconia segreta e lo spessore delle lettere antiche e delle foto moderne dei suoi nuovi amici fotografati e già così amati da me, l'eleganza umana e poetica di Rosanna, con il suo indimenticabile controluce di Napoli e di Roberto, a Giovannino detto ancia e a tutti quelli che passano di qui, nel mio regno inutile e invisibile, e anche a chi non passa: e forse anche a mio padre e a mio zio, che quanto meno mi invidieranno per la bellezza dei miei nuovi amici, più che per le mie parole, che sono molto meno importanti di tutti loro)
INCIPIT ESTATE 2009 [titolo provvisorio: Il privilegio, oppure, il privilegio di Konrad oppure valutare in base al contesto. Non pensarci troppo: viene da solo. Non guardare mai le parole che scrivo. Scrivere come al buio, almeno in prima stesura]
l.s.
(L'incipit riporta esattamente a bozza grezza, con qualche indicazione che io aggiungo e che riprendo durante lo sviluppo. È una parte ancora selvatica,quella della prima stesura, che era rimasta al buio dal mese di agosto)
PROVA MATERIALE QUADERNO ESTATE 2009
(Località ancora da definire. Preferenze a una certa Germania, preferibilmente provincia dai climi cattivi. Disgelo. Persone dietro ai vetri dagli sguardi ghiacciati)
Le sue giornate passavano e scolorivano con la lentezza dello spazzacamino: gli stessi tempi foschi nella discesa, attracco di dita corte e annerite nel robusto anello delle nocche, quando si curvavano sulle tegole rosse, la grande scia di fuliggine da ciuchi verso l'odore di spezie lontane, nel vento alla sua riemersione disperata, le colline di argento che gli morivano negli occhi: la sera. Konrad Flesch, il suo nome lontano. Lontano e più lontano ancora, in qualsiasi luogo lo si pronunciasse, impregnato di una distanza fisica, di struttura, quella stessa del suo sguardo perduto, sempre un po' altrove, un po' più scuro e meno sicuro degli altri sguardi, anche degli altri che si perdono prima o che si sentono solo perduti anche senza esserlo. Konrad ormai aveva rinunciato a viaggiare, e allora toccava farlo solo con i pensieri e i suoi pensieri si muovevano e si svelavano dalle assenze dello sguardo, botte lucida e specchio luminoso del suo cervello solitario e impantanato dalla bruma tedesca e quasi. Non viaggiando, il buon Konrad si intratteneva, per cullarsi nell'amaca ventilante di giorni uguali e mozzi di vita e di fiabeshe vacillanti a romanzate luci, radicati nell'uguaglianza e nella monofobia dei lampi improvvisi e del diaspro prezioso dei suoi ricordi, l' albero Konrad, forse un ontano o un buon pino bianco e senza nodi,[approfondire vegetazione in base alla località prescelta. Consultare testo di botanica] ma quelli muovono almeno le foglie e fanno viaggiare e muovere altri occhi nella loro direzione, sono segnali freschi e dolci di viaggi o di antiche mete. Ma Konrad era solo radicato e fermo, ma poco visibile e non centrato. I getti erano ancora troppo deboli, per chi lo conosceva [scegliere località] rimaneva immutabile e trasparente, fioriture improvvise e struggenti delle rose antiche, sparite in un soffio di sangue e solitario sole solagnolo. Alla sua finestra, sempre la stessa dinamica: sorseggiava e inghiottiva e poi guardava i mutamenti sottili: la tazza con due mani,[valutare sul tremore o meno*] il fumo fin dentro le maniche lunghe come tappeti arrotolanti il suo passato uguale al suo presente e al suo trapassato e quindi anche al suo futuro. Chissà..., pensava poi. In effetti, per il povero Konrad, qualsiasi distanza temporale dal proprio presente, qualsiasi varco in perenne e imperscrutabile estensione, aveva dentro la sua buona dose di veleno fresco e nitido di ampolla e di venoso dolore; ma solo una parte precisa della sua vita, ancora troppo vicina e pulsante, si differenziava dalle altre, con qualcosa di diverso al suo interno, come un taglio azzurro, una siringa nella gran stimmata che respira e che socchiude una scintilla rubino al posto del varco di sangue. Aveva come dentro un dolore del tutto diverso dagli altri, e riguardava Thomas: un dolore non più legato al tempo, ma a molto altro. Thomas, figlio di mia sorella. Mio[!!!!pdv!!!!] e suo nipote. Amici e cognati acquisiti. [sperimentare ipotassi o paraipotassi]
l.s.
l.s.
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Due estratti dal romanzo "Milella" di Nicola Salerno in arte Nisa
Milella scese dalla vettura e si guardò intorno.
Il treno riprese lentamente la corsa lasciando la piccola stazione più vuota di prima.
Sandro, con la sigaretta all'angolo della bocca ed il berretto sulla fronte, guardò per un po' quella curiosa creatura vestita di un abituccio scozzese e con un cappellino di paglia che le ombrava il visetto lentigginoso.
"Sei Milella?".
"Sì", fece la ragazza alzando due occhioni verdi e smarriti.
"Permetti? disse questi tenendole la mano. "Sono tuo cugino; Sandro.
"Che piacere...".
La ragazza rideva contenta, mostrando i dentini bianchi e corti.
Il cugino prese la grossa valigia di fibra.
"Per di qua. Seguimi; qui, da noi, non ci si smarrisce tanto facilmente come in città. Vedi," continuò a dire, uscendo dalla piazza della stazione "quattro case, una carrozza che brucia al sole e due facchini".
"Ma noi andremo a piedi. No, no..." Milella aveva fatto per prendere la valigia.
"Ci mancherebbe altro; il bagaglio lo porterò io. Poi, quando ripartirai, te la porterai da sola la valigia".
Risero.
"Quanti anni hai?".
"Diciassette. E tu?".
"Uno più di te. Preparati a conoscere Vana".
"Tua sorella?".
"Sicuro; tua cugina. È fidanzata a un giocatore di pallone. Si sposeranno l'anno prossimo. Tutti ci guardano".
"Perché".
"Siamo conosciuti; io, poi. Vieni, prendiamo la scorciatoia".
"Sai" diceva Lucia senza levare lo sguardo dalla sua amica, "che ti fai veramente carina?".
Milella rise: "Mi vuoi prendere in giro?".
"Dico sul serio. Adesso devo andare. Ciao".
Si strinsero la mano. Lucia si allontanò svelta mettendosi a posto i capelli con un moto del capo.
Milella restò a guardarla per un po'; le era piaciuto quel movimento fatto da Lucia, con la testa, per sciorinare i capelli. Provò a farlo anche lei; sentì i capelli frusciarle sulle guance e ritornare a posto sulle orecchie, con più grazia; questo, zia Aminta, non glielo aveva insegnato".
Estratti dal romanzo "Milella" di Nicola Salerno (Nisa) Edizioni Carroccio 1947 Milano
Il treno riprese lentamente la corsa lasciando la piccola stazione più vuota di prima.
Sandro, con la sigaretta all'angolo della bocca ed il berretto sulla fronte, guardò per un po' quella curiosa creatura vestita di un abituccio scozzese e con un cappellino di paglia che le ombrava il visetto lentigginoso.
"Sei Milella?".
"Sì", fece la ragazza alzando due occhioni verdi e smarriti.
"Permetti? disse questi tenendole la mano. "Sono tuo cugino; Sandro.
"Che piacere...".
La ragazza rideva contenta, mostrando i dentini bianchi e corti.
Il cugino prese la grossa valigia di fibra.
"Per di qua. Seguimi; qui, da noi, non ci si smarrisce tanto facilmente come in città. Vedi," continuò a dire, uscendo dalla piazza della stazione "quattro case, una carrozza che brucia al sole e due facchini".
"Ma noi andremo a piedi. No, no..." Milella aveva fatto per prendere la valigia.
"Ci mancherebbe altro; il bagaglio lo porterò io. Poi, quando ripartirai, te la porterai da sola la valigia".
Risero.
"Quanti anni hai?".
"Diciassette. E tu?".
"Uno più di te. Preparati a conoscere Vana".
"Tua sorella?".
"Sicuro; tua cugina. È fidanzata a un giocatore di pallone. Si sposeranno l'anno prossimo. Tutti ci guardano".
"Perché".
"Siamo conosciuti; io, poi. Vieni, prendiamo la scorciatoia".
"Sai" diceva Lucia senza levare lo sguardo dalla sua amica, "che ti fai veramente carina?".
Milella rise: "Mi vuoi prendere in giro?".
"Dico sul serio. Adesso devo andare. Ciao".
Si strinsero la mano. Lucia si allontanò svelta mettendosi a posto i capelli con un moto del capo.
Milella restò a guardarla per un po'; le era piaciuto quel movimento fatto da Lucia, con la testa, per sciorinare i capelli. Provò a farlo anche lei; sentì i capelli frusciarle sulle guance e ritornare a posto sulle orecchie, con più grazia; questo, zia Aminta, non glielo aveva insegnato".
Estratti dal romanzo "Milella" di Nicola Salerno (Nisa) Edizioni Carroccio 1947 Milano
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domenica 18 aprile 2010
Dichiarazione in pasticceria (Da una foto di Daniela e da una storia vera)
La pasticceria è lo sporadico luogo dell'ozio festivo, almeno per i visi più comuni: lo zucchero a volte scivola mentre si sfogliano con calma i titoli di nera o gli sportivi e poi la mia ha anche un ottimo bar, e io quando arrivo cerco solo di capire se contano i numeri sul display o se debba cercare l'ultimo della fila e chiedergli se consacrarlo penultimo. Divento sempre distratto quando ci sono molte persone o piccole minaccie alla mia veloce virata di occhi sui dolci, che sembrano altri occhi che mi guardano e a volte sfioro un braccio o mi soffermo a scorgere gli altri occhi come guardiano stanco o un portiere di notte, e ormai ho anche preso il numero e guardo il cappellino verde e a rombo di una delle commesse più carine, che ha sempre quel sorriso un po' speciale che non è mai sempre lo stesso, a volte muta di piccoli istanti, appena rallentato o un po' più triste quando incrocia l'espressione meno golosa o sconfitta e ancora ritornando ai numeri rossi, attraversati dalla cicatrice digitale del quarzo e mi accorgo con ritardo che qualcuno mi sta osservando. All'inizio non bisogna necessariamente guardare l'osservatore per avvertirsi e svelarsi osservati. Gli occhi che si posano in un certo modo, si estendono come vanesse o indovinelli su altre zone, come linee di ombre o come calore o soffio, presagio di aruspice, intuizione, oppressione, dolore. Scatta il numero successivo: controllo il biglietto senza ancora notarti, appena prima che tu mi parli, mi parli all'improvviso, ancora anonima perché ti avevo sentito e non avevo voluto raggiungere il mio ascolto con il viso. A volte non lo decido io e tu mi chiedi qualcosa di assurdo, che non ti avevo nemmeno mai visto, chissà se tu avevi visto mai me, e me lo chiedi come si può chiedere l'ora o se sei l'ultimo, nel caso non funzionasse il display, ma aggiugendovi dentro una scia profonda di sogno doloroso, che forse non capita così tante volte da incontrare da svegli. Mi chiedi se io volessi fidanzarmi con te, o forse non ricordo ancora bene se avessi detto così oppure se volessi essere il tuo fidanzato -potrebbe essere la stessa cosa o forse molto diversa. Così mi giro, frastornato, c'erano anche delle persone vicine, stavano servendo un numero non troppo lontano dal mio e mi accorgo che mi fissi, forse appena pentita o spaventata di quello che ti è sgorgato in una pasticceria così importante e lussuosa di Napoli, tra le gomitate di chi ritirava i dolci o chi si fiondava alla cassa, mi fissi e non sei brutta, nemmeno bellissima, ma quando si chiedono certe cose così all'improvviso, si trascendono i parametri comuni e io tenevo ancora il tuo sguardo di attesa: che ormai tu avevi parlato ed eri tornata in vantaggio, forse la tua prima attesa sarebbe stata quella più difficile e chissà quando ti è scattato dal cuore o dalla parte malata di te di dirmelo, se appena sono entrato o quando ho fatto un gesto involontario o ti ho sfiorato con lo sguardo, forse gli occhi allungati nel mandorlo dolce di mia madre, con quel veleno di dolcezza appena femminea che si stempera alla febbre del castano scuro quando si fa più sera anche dentro di me, quando guardo verso mia madre mi dice che ho gli occhi suoi e forse allora era qualcosa lì dentro, forse il suo dolore lontano o i suoi ultimi baci, che ancora mi abbraccia forte quando la vado a trovare di sera tardi. Non saprò mai nemmeno se mi avessi già visto in un altro luogo o il giorno prima o nella metro dove ne incontro tanti di visi, ma non mi era davvero mai successo e mi accorgo che quel mio silenzio è così intriso di speranza e di paura da parte mia e anche tua, che per un attimo diventiamo soli e stonati dentro quel via vai di buoni e profumati clienti, rimaniamo stranieri dell'assurdo e forse penso se tu fossi una matta, se fossi da sola lì dentro e se dovevi davvero comprare qualcosa e che cosa avresti scelto, forse le stesse mie scelte nei gusti, ma i numeri avanzavano e il tuo non lo chiamano ancora o mai perché forse non lo avevi nemmeno preso e stavi aspettando soltanto che io entrassi per prenderti sul vassoio una scelta pregiata di dolore, che avresti aperto a tavola da sola o con chi ti ama davvero o con i tuoi genitori, ma avevi gli occhi che mi aspettavano e forse aspettavo anche io con te, anche se non avevo nulla da aspettare ma se qualcuno ti aspetta allora aspetti con lui, che avrei voluto averla da te quella risposta, qualcuno che ci guardava e in quell'istante forse eravamo davvero insieme, contro tutto il tempo di lontananze e di vuoto dell'universo che ci avrebbe polverizzato, allora tirai il fiato e ti dissi una cosa del genere, ma con una dolcezza che ho avuto davvero con pochi, forse con l'amore e lo stesso dolore che uso nel mio linguaggio :"Mi dispiace, ma non è possibile...", perché era la riposta più probabile e onesta, d'altra parte come ci si fidanza da sposati con una moglie che ho incontrato sulla panchina di un istituto per ciechi e aveva i capelli alzati e le gambe piegate e i gomiti come lampioni su ciascun ginocchio e chiudendo gli occhi mi disse che ero la sua libertà e da allora ci amammo e si fece così tardi, e tu questo non lo sapevi e non ti avrebbe mai interessato perché in quell'attimo ti avevo rifiutato e per quell'istante ero sconfitto anche io, perché tu forse, anche se fossi una matta, avresti sperato almeno per un attimo che i miei occhi raccolti come capelli nel tuo piccolo trasandato dispiacere dicessero di un altrove che forse tu sapevi di me, per scegliere proprio me. Arrivò il mio numero e arrivò il tuo sorriso, spezzato, come di un ultimo saluto, perché adesso la signorina mi fissava e mi intingeva della sua impeccabile maestria di commercio e desideri spinti del suo mascara, ma tu non c'eri già più. Ritornai così stranito, ma non ci risi mai su né l'ho mai detto a nessuno. Per chiedere a uno sconosciuto come me una cosa del genere e forse così grande, si doveva essere davvero fuori di testa, eppure quando ti ho risposto ho avuto l'esitazione che si prova davanti a un rapinatore quando invece tu mi stavi dando qualcosa di te, forse la dolcezza della tua follia o chissà che cosa e non avevi intenzione di togliermi niente.
Ti ho rivisto poco fa, appena un'ora, ancora una volta nella stessa pasticceria, convinto che adesso avresti attaccato con il cliente di turno. Sono rimasto a intrattenermi fuori a guardare il tuo comportamento, l'espletarsi del tuo rituale nevrotico ossessivo, forse a sfondo sessuale o dissesti affettivi - certo che continuando così ti saresti trovata in un pasticcio serio -, ne ero così convinto che il tuo fosse proprio un brutto vizio e invece il tempo passava, i numeri sul display scattavano e tu invece eri una ancora normale e un po'scolorita e perduta, che non facevi niente di strano e non ti avvicinavi a nessuno, e che rimanevi forse ancora più timida e senza mai guardarti intorno e senza di me eri proprio uguale alla barchetta bianca e azzura e così sperduta di Paxos; eri forse accompagnata perché ancora stavolta non avevi il numero e non controllavi mai la sequenza e allora, senza farmi scorgere, mi sono allontanato, sentendomi ancora più spiazzato e diverso dalle altre volte: non so se più deluso o più stranito, ma di sicuro un po' più amato...
l.s.
foto di Daniela Fariello
foto di Daniela Fariello
sabato 17 aprile 2010
Masquerade e il mysterium dell'affettività
Ho scritto questa storia terribile per inventarmi suo nemico e proteggere i miei amici da lei. Per amarla e poi tradirla, e forse pentirmene, di averla scritta e poi tradita.
Sembra una follia, ma forse "Masquerade" mi è scoppiato dal cuore per essere negato e tenuto nascosto, come un parente povero e scomodo o una fidanzata strabica, o un'amante clandestina. Eppure è un lavoro che amo e che temo, con la stessa intensità, perché parla e si nutre di sensazioni profonde e sdoppiate. Ci ho pensato a quanto ci siamo sfiorati, amati, cercati con questa storia, che alterna picchi di incubo con spianate di tenerezza infinita, forse ancora più spaventose dei primi, se analizzate nell'insieme del contesto. E ritornando allo strano movente della sua natura doppia e inquietante, ho scoperto con stupore di aver avuto il coraggio, per la prima volta forse, di cominciare a comunicare in profundis il mio mondo affettivo. Può sembrare paradossale, ma questa storia terribile è tutta imperniata sull'affetto. Mi piacerebbe andare per gradi e motivare, nel mio relativo possibile, le motivazioni di questa mia convinzione, anche se per i lettori amici e disubbidienti, potrà risuonare come assurda:
Che cos'è l'affetto?
Queste sono domande che mi pongo di nascosto, diventando ombroso e fascinoso come il viscoso incedere di questa struttura narrativa che mi ha stregato e segregato nelle sue spire. Partirei dall'ortodossia della definizione più classica:
Affetto ha un'origine nobile e latina: affectu(m) deriv. di afficere che significa colpire, provocare uno stato d'animo. Allora, mi fermo già qui: l'affetto è un colpo? Nelle sue origini ha una forza motrice incontrollabile e violenta, e in fondo nella mia vita mi devasta, è proprio un colpire, e in un secondo momento dagli effetti dello stordimento si irradia uno stato di celebrazione e diffusione di sensazioni verso l'altro. Forse anche il senso della mia scrittura è una forma oscuramente "affettuosa". Il colpo e la provocazione sono i due termini principi dell'infinito di afficere, e forse da loro, misteriosamente, comincia a prendere forma l'incubo di "Masquerade". Seguendo la logica da dizionario, l'affetto, senza avventurarsi in nessuna branca troppo specialistica, ha già cinque tipi diversi di definizione:
1) Sentimento di vivo attaccamento a una persona o a una cosa; bene; affezione.
2) (estens.)l'oggetto di tale sentimento...
3) più genericamente, ogni sentimento intenso: eccitare, muovere gli affetti.
4) (lett.) desiderio, aspirazione.
5) (psicoan.) qualsiasi condizione affettiva, piacevole o spiacevole, acuta o diffusa.
Per non dimenticare che dalla stessa radice di afficere, ricaviamo l'aggettivo affetto: in questo colto, preso da un sentimento (malinconia o spavento) ma anche da una malattia. E in questo caso il raggio si estende e si irradia di una serie di intrecci e possibilità interessanti. E pensare che la forma antichizzata dell'aggettivo si rifaceva addirittura a qualcuno che è intento o assorto, forma che sento lontanissima dall'idea e dall'abitudine al sentire affettivo.
Dopo questa premessa, mi permetto di confermare che nella storia si intrecciano e si fondono le volute e le possibili varianti di afficere, senza esclusione di colpi. La dinamica dell'affettività come forma suprema di espressività (1) ma anche invalidità di una prigionia (3 e 4) o scivolando appena verso l'alveo psicoanalitico: il mistero di una condizione umana mutevole e sottoposta a mutazioni e burrasche. "Masquerade" vola basso come un rapace e cerca di cavare il verme dal mio apparato percettivo attraverso l'estrema tecnica di aggressione nel coinvolgimento emotivo, (a volte o forse quasi sempre io non riesco a guardare negli occhi per più di due secondi le persone che sento e amo di più, mi confondono e davanti a loro non riuscirei a fare nemmeno un caffè, quando le sento davvero dentro diventano i nemici di una parte di me e così divento e invento il mio timido stile nei miei personaggi più riusciti che non resistono come me allo sguardo degli altri e così all'infinito, fino a non guardarsi ma a sentirsi di più nel buio atroce dell'evitamento, proteggerli per proteggermi) forse perché rivela una componente di oscura invalidità nell' immaginarmi in eterno dentro un solco affettivo che avrò perduto da bambino dietro l'uomo dei palloni o chissà dove, e che determina dei grossi stravolgimenti ma senza il quale non avrei avuto le vedute o i paesaggi durante il viaggio. Mi sembrava giusto puntare la radice per esaminare il getto e le dinamiche successive.
La storia e i luoghi degli affetti
In questa prova narrativa, ho provato a cercare fin dall'inizio la sensazione di inafferrabile che la stessa affettività irradia nel mio sensibile. A volte lo avverto un luogo estraneo di sconosciuti o il collo di una donna da raggiungere di spalle o la casa degli spettri e un soffiare nell'occhio di un altro. L'affettività è molte volte un ambiente di estranei (il terribile gruppo dei sette) nel quale ti trovi senza la tua volontà dove devi necessariamente perderti per poi ritrovarti. Un disagio e la mia più grande ricchezza nel patirne le dimensioni onnipervadenti. Quanto dista una dipendenza da una forma affettiva secondo la classica condizione di un colpo o di uno stridio di redini al mio collo o ancora una forma tenera di scambio e purificazione verso il mondo emotivo degli altri che incontro lungo la mia strada. Il mio luogo affettivo diventa così coronato da un contrasto costante, dove ogni forma di piccola ritorsione alla mia pace diventa il regalo inatteso che non pensavo di incontrare, a volte anche lo sguardo torvo di un aguzzino nei miei ritorni tardivi, in quello che ho perduto e ho mancato. Il luogo della storia è intriso di una solitudine sconfinata: un auto nel buio sotto il fermento opaco di una statale di fari ( "...e ogni tanto i fari ti fanno rossa e gialla e poi nera"), o in un appartamento soffocato nel pettine delle villette a schiere, la visione sfocata della ragazza senza occhiali, hanno in comune un luogo di abbandono dai colpi ma anche dalla grazia di una dimensione sognante di affettività, la ricerca di proteggere e sentirmi protetto dal mio proteggere, emozione commossa e stupita ancora avvertita invece a intermittenze, nel fastidio delle luci notturne poco dosate, dell'incubo di una distanza imposta, del continuo rischio di rompere gli occhiali da donna conservati in una tasca, che è lo stesso che corre il bambino del parco Argus quando si alza di notte per lavarsi i denti (potrei essere io?). Ricostruendo questi sprazzi, come da fotogrammi spezzati, rileggo l'affettività come dimensione sinergica e urticante con la relativa dimensione dell'abbandono: come se il secondo nutrisse l'altra di dolcezza e di veleno. I luoghi oscuri degli affetti saranno allora il nostro destino obbligato o una corsia preferenziale? Quanta paura nel cercarli! Dalla collocazione della loro origine otterrò il passaggio clandestino e illegittimo alla successiva destinazione, e quanto potrò vivere un affetto di intensità più ampia verso la mia vita e verso i miei grandi amici più veri da rinchiudere ciascuno in una porta del mio cuore e senza l'incudine minacciosa del suo colpo alla mia nuca o della nausea di un flutter atriale -il dolore di avvertire gli altri troppo, di piu? La paura che possano farmi del male? (Mi raccontano che fin da bambino "sentivo" troppo le emozioni e così mi facevo da parte). E la prima colazione offerta in perverso anonimato dal gruppo dei sette è proprio l'azione perversa e perturbante che continua a raggelare di contrasti il paesaggio ormai esasperante delle mie private sequenze cognitivo-esperienziali? Ogni attimo di quella storia è intriso di questa double face, costante e amara di amore e di paura verso l'altro.
L'immagine sfocata
C'è la ragazza della storia che avverto come cantus firmus su tutto il senso profondo e affettivo della storia. Una forma profonda di affetto è resa meravigliosamente e in proporzione più grande e più intensa quanto aumenta in progressione l'ostentarsi e l'appariscenza dei proprio limiti contestuali:
("Hai cominciato a saltellare su di un solo piede e poi a fischiare..." "Un giorno che mi hai chiesto perché io ti amassi, io ti risposi perché non vedevi a un palmo dal tuo naso"). In effetti la tenerezza di una fragilità nella mia vita sono un pericolosissimo segnale di innamoramento verso l'altro: la bellezza di una ragazza bruttina, distratta, confusa, che scoppia a ridere e che ha una spalla appena più bassa dell'altra (Gli autunni di Gursern) o con i capelli davanti agli occhi che prova paura (La compagna di classe) o con un cuore da trapiantare che cerca di amare per l'ultima notte e forse anche la prima della sua vita (Fanny nostalgie) forse riconducono alla stessa matrice di incanto del piccolo, dell'albero ferito da un lampo che ha la fioritura più dolce anche se non fiorirà più. E con "Masquerade" approdo con maggiore violenza a un preciso punto di non ritorno. Tutto questo potrebbe morire sul più bello o invece consolidarsi nella stessa dimensione di perdita, ma avere comunque un senso, e paradossalmente il pericolo di una morte affettiva è il maggior fattore di propulsione per darle carburante e dedizione. Io avverto il bertolucciano "sanguinamento" in tutte le mie dinamiche affettive ("la fragola del sangue sulle catenine" sarà forse un topos?) e a volte è l'unico modo per avvertirsi e per perdersi davvero nella purezza di uno scambio e nel suo rischio? E allora nell'orrore della storia, scatta l'allarme per un disagio o l'incesto di una miopia e di baci rubati ancora una volta con i miei sogni e quello che ancora non vedo o che ho perduto di me ("...e pensando ancora al perché tu sei scesa senza gli occhiali, volevi rimanere più bella senza intervallo"; " d'istinto metto le mani sugli occhi quando il braccio del colpo mi raggiunge";"che meno tu ci vedevi e io più ti amavo"). In fondo ci sono arrivato a una certa distanza, ma rimane la volontà di espormi al rischio, perché in fondo ne vale la pena.
Psicologia dell'agguato negli affetti
Tutta l'atmosfera è imbevuta di un senso precario, come se per ogni più piccolo bacio ci fosse un prezzo sempre troppo alto e sproporzionato da pagare. Nella tensione dell'agguato, ho ritrovato una sensazione chiara dell'attacco continuo e ostinato alla mia sfera sensibile del disagio emotivo e allora la storia ha intessuto la sua trama sacrificando i più deboli e sfoggiando in cambio le mie paure come diamanti o esorcismi. Ma sono davvero in diritto di reclamare un'eternità al mio sogno sensibile e mai sazio, all'onestà del mio desiderio, del mio piccolo istante di condivisione? Quanto è lontana la logica dell'agguato esterno dalla sensazione di lontananza della ragazza che saltella con un solo piede e senza gli occhiali, dall'auto verso una zona più oscura e ancora inconoscibile ( forse una delle scene più tenere e terribili che abbia mai scoperto e affinato dal mio immaginario; presagio di morte; mutilazione dell'amare incondizionato). E ancora il fischio che ritorna nella notte è il segnale di pericolo, il controllo perduto sulla carrozza delle mie emozioni o uno squillo di morte e di desiderio di un infinito velato che non scorgo e non so già più? ( La petite mort).
Non so se riuscirò a rispondere, ma procedendo a ritroso o a tentoni nello stomaco buio della storia, adesso rimane ancora il nodo e la minaccia del titolo: "Masquerade". Forse le molteplici sembianze che devo adottare per trovare un compromesso tra la sensibilità e i dettami o dittature di un reale, che forse a volte si maschera di una dolcezza inattesa e pungente, ( l'acqua di colonia passata nei capelli, la colazione per le vittime con la rosa rossa) in altre invece sono le parti più vicine a me e più confidenti a diventare minaccia. Ma l'agguato allora è dentro l'affettività, il colpo della sua radice è sia dentro l'auto che dentro il parco Argus?
Queste rimarranno ancora domande, e trovo giusto che sia così. Al momento è bello che ciascuno ritrovi in una storia le sue piccole risposte, i suoi stimoli, come il mio dolcecieco colibrì riuscirà fino all'ultimo a scorgere il baluginare delle lucciole nel mio buio.
Ancora una volta una speranza. Anche piccola, ma comunque una speranza.
l.s.
venerdì 16 aprile 2010
Passeggiata notturna e intuizione dell'istante? (Il silenzio di un essere che ci lascia)
Ritornando ancora per un momento al piccolo momento letterario ispirato dalla foto della "Passeggiata notturna" ripercorro a ritroso percorsi comunque ancora freschi di pensiero dal taglio metafisico e per me e per un mio particolare amore per certi approcci filosofici, ancora molto intriganti. Mi sembra doveroso, a ridosso e in contrappunto con la mia precedente veduta del contesto narrante, inserire l'ottica di Gaston Bachelard sull'intuizione dell'istante- la psicoanalisi del fuoco, dove forse ritrovo, in questo piccolo estratto che segue, una flebile ma interessante risonanza:
"Un ritmo che continua immutato è un presente che ha una durata; questo presente che dura è fatto di molteplici istanti che, da un punto di vista particolare, assicurano una perfetta monotonia. Tale monotonia è alla base dei sentimenti durevoli che determinano l'individualità di un animo particolare. L'unificazione può emergere nelle circostanze più diverse. Per chi continua ad amare, un amore finito è al tempo stesso presente e passato; è presente per il cuore fedele, è passato per il cuore infelice. È dunque sofferenza e consolazione per il cuore che accetta il dolore del ricordo. Ciò equivale a dire un amore permanente, segno di un animo durevole, non è semplicemente sofferenza e felicità; trascendendo la contraddizione affettiva, un sentimento che dura acquisisce un significato metafisico. Un animo che sperimenta veramente la solidarietà degli istanti ripetuti con regolarità. Un ritmo uniforme di istanti è una forma a priori della simpatia."
E ancora, più avanti:
"...Riconosceremo allora che il ricordo del passato e la previsione dell'avvenire si fondano su abitudini"
E con Roupnel, da Siloë:
"...l'essere è uno strano luogo di ricordi; si potrebbe quasi dire che la permanenza della quale egli si crede dotato non è che l'espressione dell'abitudine a se stesso".
Estratti dal testo: "L'intuizione dell'istante. La psicoanalisi del fuoco" di Gaston Bachelard.
La foto è di Daniela Fariello.
La foto è di Daniela Fariello.
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giovedì 15 aprile 2010
Masquerade (Bozza esemplicativa di fatti assolutamente immaginati dall'autore, ma del tutto sconsigliata a soggetti sensibili)
[Questa struttura narrativa per le tematiche affrontate e alcune particolari sequenze, è assolutamente sconsigliata a soggetti sensibili e impressionabili]
Masquerade
Temperatura dolce, la provincia troppo esposta alle campagne sventola e smuove le foglie e fino alle dita dei rami nel buio: siamo quasi sotto il cavalcavia e ogni tanto i fari ti fanno rossa e gialla e poi nera, quando passano e vanno via e quando mi stringi e non ti vedo più: dal cruscotto l'effetto acustico della tua voce che quasi dorme accanto alla tua scarpa blu. Gli occhiali tuoi li ho messi in tasca, insieme alla luce stanca dei piccoli occhi, per non sporcarteli che sono nuovi, devo stare attento a girarmi sul fianco, non vorrei spaccarteli, ma stasera siamo nervosi tutti e due. Mi hai baciato dal naso e poi mi hai stretto il polso, perché sentivi freddo. Ti ho detto che il piercing mi infastidisce ma tu ci giochi lo stesso e allora ho finto di non sentire. Sei uscita per fumare e poi per fare la pipì. Hai cominciato a saltellare su di un solo piede e poi a fischiare. Io ho abbassato la testa, sorridendoti e distrutto. Con una mano sistemo il tuo sediolino. Ogni tanto mi giro per vedere dove sei finita, il mio dolcecieco colibrì, ma poi crollo, chissà se ce l'avrei fatta a guidare. Un giorno che mi hai chiesto perché io ti amassi, io ti risposi perché non vedevi a un palmo dal tuo naso e adesso volevi dimostrare il contrario, forse per metterti alla prova o farti amare ancora di più. Ancora il tuo bel fischino intorno, il pensiero di domani poi di te che vuoi sempre sgranchirti e di mia madre che deve fare le analisi e devo svegliarmi prima e accompagnarla, forse sarebbe meglio andare quando dal vetro appannato scorgo un' impronta di cinque dita: fisso lo specchietto: una mano aperta, in tensione: forse una vecchia impronta, la mia stessa distratta, ma non mi sembra il mio palmo, e neanche il tuo. Come faccio a capire se sia fresca un'impronta del genere. Potrebbe stare lì da giorni e rianimarsi per la patina dell'umido. Chi ci ha mai fatto caso, poi, e pensando ancora al perché tu sei scesa senza gli occhiali, volevi rimanere più bella senza intervallo e sento i tuoi passi ormai più lontani, adesso su tutti e due i piedi e ancora di più, quando qualcuno mi spacca il vetro laterale posteriore sinistro con il pugno, ma tu non senti niente. Un fragore da inferno, sento le schegge nella schiena, sul collo, d'istinto metto le mani sugli occhi quando il braccio del colpo mi raggiunge e mi blocca, dal buio del suo guanto, afferrandomi alla gola e comincia a parlare in modo metallico, frasi a scatto come coltelli a serramanico. La temperatura del mio corpo si fonde con la sua: penso subito a una scheggia impazzita del gruppo dei sette, quelli che ogni tanto compaiono nella perfezione dei loro raid. Sette cappotti uguali, ciascuno una maschera di donna diversa che sorride, camicia diplomatica e papillon rossi; l'ultima volta hanno massacrato una famiglia intera di una delle villette a schiera del parco Argus, cooperativa con appartamenti ancora freschi di pittura, ancora molte esse bianche pittate sui vetri neri, pochi condomini ma danarosi. La notte dopo il ricevimento di due comunioni di due fratellini, con l'oro ancora fresco per casa: i piccoli bambini appena santi, crivellati di colpi nei pigiamini, una nel letto l'altro che era in bagno a lavarsi i denti, la fragola del sangue sulle catenine che avevano ancora al collo. Stesso destino padre, madre - crollata di sonno ancora con le scarpe alte ai piedi - e cameriere filippino. Al mattino presto hanno ordinato la colazione a domicilio per tutti: con giornale, rosa rossa, cioccolata bianca per i bambini.
Forse questi due qui sono parte autonoma o impazzita di quell'ala violenta che tornava sul territorio in periodi e fasce isolate e a debita distanza per rinforzare il rinculo e il clamore agli ultimi massacri appena dimenticati. Penso ai possibili due di quei sette e lo sterno è squarciato da una corsa furiosa di cani levrieri:
"Non muovere la testa, che non ti faccio niente. Non gridare, ho detto fermo con la testa! Adesso fai entrare il mio compagno, non devi dire niente e andrà tutto a posto, che così non si fa male nessuno", intanto la sua voce mi paralizza, è quella di un corvo o di un televisore rotto con il segnale disturbato. L'altro entra e mi arriva vicino. Mi comincia a tastare, ha una maschera davanti agli occhi e una sciarpa fino al naso. Non vedo armi, ma le sue mani salgono e scendono, su tutto il mio corpo, poi arrivano alle tasche, intercettano gli occhiali da donna. Ho ancora una mezza erezione, non so se ne accorge, ma sembra avere fretta: rimane mirato nelle possibilità delle quattro tasche. Quello che ha rotto il vetro mi molla la gola e poi rimane fuori, forse nell' attesa che ci sia bisogno di lui. Ma io sono pietrificato, di solito si rimane pronti per qualche sciocchezza della vittima, se le prende una sacca di angoscia incontenibile che mi sento svenire ma riesco a non gridare. Adesso penso a te. Il complice ha le mani lunghe e gli occhi grigi. Non è molto alto, né robusto, si muove bene. Sta masticando una gomma, agita i muscoli facciali dalla sciarpa nera che si sforma e mi dilania di ombre cinesi dell'infanzia negli occhi sbarrati. L'abitacolo è intriso del suo odore che si fonde con il tuo, delle erbacce prative della campagna che traspirano dal vetro e della sua gomma che si sente anche dal suono della bocca imbavagliata e si fonde con l'acqua di colonia che forse ha passato nei capelli, e intanto penso a dove sia finita tu con la tua vescica gonfia di orina e la bocca di nuovi baci interrotti come la nostra piccola cena di wafer, sperando che tu non ti avvicini troppo prima che vadano via, forse potrebbero anche credere che io sia in macchina da solo.
"Che diavolo sono questi?".
"Occhiali, sono occhiali da vista".
"E perché li tieni in tasca?". L'altro, che era rimasto fuori si avvicina, si abbassa e mi guarda. Comincio a sanguinare dal collo, ma non me sono accorto subito. L'uomo che è già dentro, quello della gomma, che già sento l'odore di menta ghiacciata o pinete di giugno nel cervello, mi apre la mano in tasca ed estrae le tue lenti:
"Perché li tieni in tasca?".
"Li metto solo per la guida, non c'è bisogno".
"Fai un po' vedere?", dice l'altro che stava ancora sull'uscio, appena curvo e accigliato. Glieli passa gli occhiali, li apre e mi chiede di metterli.
Io esito, poi osservo la vena sgraziata di follia nei loro sguardi gemini e così li metto sul viso, così improbabili, più piccoli e femminili per il mio calco maschio e stordito. Per un attimo sono te, con la tua espressione viziata e spiritosa, dalla tua bocca ancora vicina il profumo di parole classiche e sempre così limpide e sofisticate, anche con il piercing sulla lingua, sono rimaste uguali. Se ne accorgono, anche nella poca luce, che gli occhiali non sono i miei. Il più piccolo dei due, quello che aveva anche la gomma:
"Sono da donna, che diavolo ci fai con gli occhiali da donna e dai vetri così doppi? Questa come si fa fottere con questi occhi da topo d'acqua? E poi te li lascia? Ma è una matta, allora?".
"Dov'è finita la tua topastra cieca, avanti, pochi scherzi!". Poi la pistola. La caccia da dietro, la vedo grossa come un coniglio selvatico. Non riesco a guardare, non ha la mano troppo ferma o è una mia impressione o il mio stesso tremore che mi prende lo sguardo. Non avevo mai visto una pistola così vicina. Sembra una cosa viva, come te nella macchina fino a poco fa: l' occhio-bocca della canna, nero come uno dei tuoi occhi piccoli, che meno tu ci vedevi e io più ti amavo: verso di me.
"Sono da solo, vi prego ditemi quanto vi serve...non c'è nessuno insieme a me, lo giuro!".
Il più piccolo dei due allora mi prende per i capelli, dal lato frontale e mi tira la testa all'indietro, con gesto deciso: "Avevamo stabilito delle regole: adesso ci dici dove è finita e la smetti di sparare cazzate che noi qui stiamo lavorando: altrimenti ti apriamo la testa, non è così?".
Sono senza fiato, la sua mano ancora sulla faccia, i capelli ancora spettinati, quando in lontananza mi sento chiamare: la tua voce nel buio: "Fulvio? Accendi un po' i fari, che non si vede più niente! Guarda che non ho nemmeno gli occhiali...stai attento a come ti muovi, che li puoi spaccare. Non dovevi metterli in tasca". La mano mi lascia, nel tempo esatto dell'inciampo inatteso della sua voce.
I due adesso si insonorizzano, uno scatta dietro e si abbassa, l'altro prende gli occhiali e se li scaglia nella patta del pantalone, sputa la gomma e si stende accanto al compagno con la pistola: forse il colpo già in canna. Con un sorriso: "Mi sento i suoi occhi addosso, sono giusto tra le cosce!".
"Allora, amore, che cosa c'è? Perché non parli?".
Non vedevi niente, a quell'ora poi e senza occhiali: non avevi nemmeno visto che il vetro era spaccato e che quei due si fossero abbassati o mezzi distesi dietro. Quando hai iniziato a parlare mi sono sentito la bocca gelata della pistola scivolarmi sotto la maglietta e raggiungermi la schiena già nuda -la canottiera me l'avevi sfilata già tu. Un bacio di ghiaccio metallico muto al centro dei reni, che mi raggela il cuore, ma ancora non ci arrivi. Così entri, sfocando. Io sono immobile e ti guardo per l'ultima volta, senza riuscire a lasciarti un segnale. L'ultima volta nella mia auto e nella tua vita...
"Ma che faccia che hai? Dammi un po' gli occhiali, che così non mi sembri più tu..."
"Gli occhiali tuoi li ho messi in tasca, che sono nuovi, devo stare attento a girarmi sul fianco, non vorrei spaccarteli, ma stasera siamo nervosi tutti e due".
"Dammeli, che voglio vedere se ci sono le luccioline stanotte, ho visto il bagliore, prima...non mi credi proprio mai tu?".
"Gli occhiali tuoi li ho messi in tasca, che sono nuovi, devo stare attento a girarmi sul fianco, non vorrei spaccarteli, ma stasera siamo nervosi tutti e due".
"Dammeli, che voglio vedere se ci sono le luccioline stanotte, ho visto il bagliore, prima...non mi credi proprio mai tu?".
l.s.
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martedì 13 aprile 2010
Passeggiata notturna: la tenebra nella tenerezza. Il senso dimensionale del mio narrante. L'indimenticabile.
Scrivere di uno scritto fulmineo, come sullo scatto rapace e ispirato di Daniela, significa che c'è da ragionare di un processo oscuro ma ancora palpabile, forse perché la ferita è ancora fresca e sono ancora intento a sciacquare il rasoio della storia. Questa piccola analisi o dissertazione su quello che possa rappresentare la dinamica di costruzione di una struttura narrativa, mi auguro possa essere utile a chi si occupa degli stessi processi naturali e misteriosi del linguaggio e di tutto quello che nasconde la casualità e l'impermanenza della scrittura, o almeno il mio senso dello scrivere, almeno in quest'ultima esperienza. Ringrazio prima di tutto Daniela Fariello e la sensibilità dell'occhio, che ha colto l'invisibilità dal gesto, quella stessa che sto imparando.
Il racconto, per confrontarlo con questa piccola ma approfondita analisi, si trova qui
Il racconto, per confrontarlo con questa piccola ma approfondita analisi, si trova qui
La tenebra nella tenerezza
Non credo che conti molto l'investigazione del processo di costruzione in sé, ma tutto quello che non si vede. Con questa piccola prova, ho avuto conferma che ogni piccolo movente più o meno ispirato di scrittura che mi riguarda o mi molesta, mi riporta per ragioni diverse nello stesso luogo che in fondo mi sfiora soltanto e sembra che non ci sia o non ci sia già più, e in questo suo non esserci così probabile, diventa il più certo in assoluto su tutti gli altri. Non ho mai ragionato con un proposito specifico su quello che rappresenti la dimensione dell'assenza, eppure in un piccolo bilancio sull'impostazione di una linea comune di quelle che sono le mie sperimentazioni, rimane costantemente in filigrana questa figura debole e sfocata dietro una finestra, questo strato sfumato di perenne serale, appena tremante per chi voglia scorgerne meglio i tratti del viso, o forse confonderli con il movimento di una tenda o con il riflesso ingannevole di un lume da tavolo o un sorriso di speranza nella malinconia di una mancanza di me, orgasmica di un solo attimo, che penso rimanga il senso primario e profondo del mio piccolo intento espressivo verso un lettore. Penso che avvertire e suscitare alcune mancanze, dopo la lettura e immaginare nel tempo quello che sia o meno accaduto, sia uno dei perni su cui cerco di lavorare con il linguaggio e quella stessa mancanza vorrei imparare a provarla insieme al lettore verso quel mio me che ha narrato insieme con Luigi o a volte alle sue spalle. E questa, e ieri notte con "Passeggiata notturna" ne ho avuto conferma, è la dimensione comune di buona parte dei miei personaggi e delle loro dinamiche nelle storie sviluppate e molto probabilmente della mia vita che si muove dentro e fuori le mie storie. Un riflesso, l'incertezza di un controluce ("la compagna di classe") se una figura sappia o meno di umano, la probabilità che uno sguardo si sia incrociato, quando potrebbe essere troppo tardi o forse ancora troppo presto. Ma in questa piccola logica imperscrutabile dove cerco disperatamente di addentrarmi nel gioco o nella dolcezza di una sciarada, mi accorgo che sto vivendo una storia d'amore e indimenticabile con la mia stessa vita, ma quella dell'attimo più incerto e solitario, lo spazio più insicuro e ombrato, che ribalta di colpo la sua posizione e mi investe di una luce diversa, che forse è più il frutto di un profondo contagio che di una pura luminescenza o gioco di riflesso sull'acqua. Il rapporto della mia vita e delle mie scelte con la profondità del mio tempo non vissuto e forse il più fragile e amato: nelle scelte delle situazioni, prevale sempre una doppia immagine, come in un fotogramma sfocato, dove a volte il tessuto narrante si intreccia di tenerezza, la più lacerante e forse inesplorata, con l'opposto tenebroso e simultaneo di questa condizione indefinibile, dello sfioramento e del possibile o eventuale o mai, dove cerco di addentrarmi e di trovare un luogo, che coniughi e armonizzi in una sola voce la tensione impercettibile ma concreta dei due opposti. Nella "Passeggiata notturna", pur nella sua apparente semplicità, si coglie in continuazione l'ansia del distacco, l'opacità serale e mobile di quello strano luogo trattenuto e riflesso sull'acqua con i visi muti e parlanti dei due personaggi senza nome, insieme a un senso di desiderio e insieme di lontananza, che attanaglia il punto di vista di chi osserva e di chi legge, alle stesse dinamiche probabili e rarefatte dei protagonisti, come se ci si trovasse sull'orlo di un pozzo con la propria identità e quella delle parti in causa e confondersi. In alcune fasi non so più dove sia finito io e in quale delle due voci vorrei perdermi, e mi auguro che la stessa sensazione di spiazzamento la abbia anche il lettore, se cerca di entrare nello scritto da questa strana angolazione mutante quanto labirintica e dolorosa.
A volte immagino che chi sta scrivendo sia un'altra persona, e che io, Luigi, sia sceso nella stessa ora dell'atto di scrittura, a portare fuori il cane che non ho, a guardare negli occhi che non so, a guidare quella macchina che non ho mai posseduto.
A volte immagino che chi sta scrivendo sia un'altra persona, e che io, Luigi, sia sceso nella stessa ora dell'atto di scrittura, a portare fuori il cane che non ho, a guardare negli occhi che non so, a guidare quella macchina che non ho mai posseduto.
Il senso delle dimensioni.
In questa strana storia vi sono diversi aspetti altrettanto labirintici da esplorare durante la lettura e la sensazione di perdita: il vuoto della barca, la distanza irreale di chi chiama e da chi chiama o è chiamato, da quelli che aspettano di chiamare, l'arrivo inatteso del doppio o sdoppiamento simultaneo di ciascun personaggio (Il telegramma), la paura. Ecco, in ciascuno di questi luoghi potrebbe svelarsi il pozzo dei desideri o del soffocamento e annegamento per ciascuna parte operante, anche e soprattutto per il pdv. Ma chi è che scrive e che racconta di quella strana notte così flebile e ispirata? Una delle due voci che si sogna, uno che deve chiamare e che racconterà quello che gli è successo a un altro amore impossibile o già perduto, raccontando e mimando le parole di chi sta ascoltando e mimando o immaginando le risposte di lei così lontana e muta, oppure è proprio lei che si narra nella sua impotenza di poter guardare e toccare la sua idea di vero e di possibile o ancora sarà lui, nella parte più completa delle loro dinamiche reali di distanza e lacerante trafittura di quella telefonata con l'ansia di un conto alla rovescia? E in tutto quello che non si vede, e che non vede lei, quale sarebbe l'occhio spettrale che descrive e che osserva? È vero che la barca è partita con due ragazzi così simili a loro? Se lei è dall'altra parte e ci sta credendo, è probabile che vi sia una dimestichezza e una docilità nel fidarsi e allora potremmo credere che sia vero. Ma se la prospettiva si invertisse, e fosse una dimensione immaginata, non è detto che sia meno attendibile. La ragazza potrebbe immaginare e farsi dire quello che desiderebbe accadesse e così contagiarlo della natura e della speranza del suo sogno. E lo scrittore sta sognando con loro? Io direi di sì, ma che non sia necessariamente una posizione scomoda e irreale, soprattutto pensando che il pdv principale e il motore rimane il vuoto potenziale della barca, il suo disegno sull'acqua (interessante la personificazione con il modo svogliato di allontanarsi e così serio di lei) e il suo ritorno senza nessuno. Un racconto di speranza o la disperazione di un suicidio inspiegabile? A questo punto mi sento di tirare in causa il narratore di quell'istante, ormai perduto ma forse recuperabile nella sua risonanza, e dire di sì, è un racconto di grandissima speranza: i due si ritroveranno grazie a quel vuoto che li sottrae a ogni certezza troppo cercata ma non a quella sognata, e il piccolo miracolo avviene in quell'attimo ispirato e disperato di silenzio, quando rimangono tra la distanza del respiro e la consonanza dell'acqua. Mi piace viverla come possibilità, non assoluta ma almeno realizzabile tra le dimensioni e i piccoli specchi magici della storia, dove potrebbe rianimarsi una passeggiata avvenuta nello stesso luogo nella mia vita, o immaginarne una possibilità, o la stessa barca potrebbe catturare nel mistero e mettere in crisi il meccanismo di chi si difende dalle dimensioni tremanti degli specchi d'acqua e dei visi lontani alle finestre con poca luce, e per spezzarsi invece le ossa del cranio sull'asciutto delle sue certezze. Mi sento di leggere in tutto questo un piccolo sdoppiamento fantasmico, nel perdersi e nel ritrovarsi senza una volontà. Il mio innamoramento quando adopero il linguaggio, parlo con un amico o asciugo il vomito di mio nipote Michelangelo dai sediolini posteriori della mia auto, sarà forse l'unica reale destinazione per trovare il mio luogo pluridimensionale, di vita e di scrittura? A questo non rispondo ancora. Forse per chi già mi conosce non sarà necessario.
Risonanza e intonazione di scrittura
Nello scrivere si stona e si stecca, esattamente come in una lezione di violino o di pianoforte. Non trovo nell'immediatezza di uno strumento rispetto ad un altro, possibilità di fuga dalla logica disciplinata di un' ortodossia tra le relazioni profonde nella sacralità di un determinato linguaggio. Come ce ne si accorge?
Io conosco molto a fondo, per una serie di trascorsi, la funzionalità degli strumenti ad arco nella musica classica e dei rapporti sottilissimi di rischio dell'intonazione nella dimensione tonale dove si muovono. Ogni arcata un rischio di scivolare, e soprattutto ai meno pratici questi errori sono manifesti e devastanti e al primo passo falso anche il vicino di casa più paziente potrebbe perdere le staffe. Bene, lo stesso avviene esattamente con la sequenza di un paragrafo, di una frase, di un racconto, anche di soli pochi righi. La stonatura infrange anche nello scrivere gli equilibri del possibile, dell'assente e dell'inimmaginabile o del perduto, e quando è massiccia impedisce "l'ascolto" dello scritto. Sono sicuro di quello che dico perché quando scrivo io costruisco dei livelli sottili di risonanza, con un mio personale fiuto o percorso, in assenza dei quali cestino e ditruggo, anche cento pagine o un lavoro intero. Putroppo ho incontrato molti lavori o forse troppi e anche "pubblicati", assolutamente privi di una minima logica di intonazione e di risonanza, eppure potrebbe sembrare più semplice con la musica e in effetti lo è: l'errore grossolano è così lampante: quando avverto delle distanze di comma o dei battimenti, non è solo l'orecchio ma sono altre parti del corpo che si ribellano, ed è giusto e buono che la ribellione avvenga perché è l'unico sistema per fermarsi, individuare il punto crititico e correre ai ripari. (Penso a Blaise Cendrars o a Miller e a quello che mi direbbero adesso). Ma con una pagina, anche con una sola pagina senza vita di suono, dove lo avverto il tritono, la dissonanza non prevista, il battimento? Io credo, nel mio caso personale, dalla stessa logica di assenza e di irreale su cui, nel mio caso, imbastisco e sviluppo le mie strane dinamiche narrative. Arriva da lontano e prima che tu scriva o pensi di cominciare. Un orecchio terzo o quarto o forse onnicomprensivo e inclusivo di altri sensori, pervadente nelle dinamiche relative ad apparati sensibili e sensitivi, molte volte dolorosi. Nei dialoghi, per esempio; bastano un paio di righi per vedere se lo scrittore abbia l'orecchio adatto. Non tutti sono impeccabili, l'importante è affinarsi nel'intimità e "nell'erotismo dell'ascolto". Io sono convinto che in ogni voce vi sia un potenziale sensibile di erotismo sublimato verso la propria mobilità di percezione anche non troppo volontaria ("La petite mort" è quasi tutto costruito e impostato sull'erotismo dell'assenza e della perdita). "Erotismo dell'ascolto" come partecipazione sensibile di una serie di ingranaggi per cui l'attimo in cui si svela la propria voce, ha i suoi tempi privati, personali di indimenticabile nella possibilità stessa del loro rischio di perdita. La stessa attenzione che potrebbe carpirmi e catturarmi con due donne che mi parlano accanto e tra loro di quello che dovranno indossare in una certa serata che mai vedrò se non attraverso quell'istante, o di un segreto terribile di morte.
Mai far parlare i personaggi nei dialoghi allo stesso modo,(errore comune negli scrittori poco musicali o improvvisati) ma quando avviene questo è meglio uscire e portare fuori il proprio cane reale e lasciare perdere. Putroppo ho avuto l'orrore di leggere testi pubblicati senza alcun criterio di ricerca, di sensibilità agli apparati del linguaggio, e questo è un discorso a parte. Non so davvero che farci. Questa è la responsabilità degli editori: se sei sordo a certe situazioni, non potrai scrivere! Io scelgo i vagoni della metropolitana in base ai visi e agli sguardi delle persone, e non in base alla lunghezza delle gonne delle passeggere.
La conferma di tutti questi strani fattori che ho scoperto soltanto nella solitudine di lunghe sedute di scrittura, sta nella veridicità dell'emozione da parte del lettore, che diventa poi parte viva di un secondo sviluppo e di una seconda o terza vita, per la storia. Un linguaggio che suoni sul serio emoziona e non appanna l'idea dell'emozione, ma crea risonanza nella vita e nella nostalgia dei processi più sottili di memoria. I due protagonisti o forse reali narratori della passeggiata notturna, sono avvinghiati alla mia sfera di emotività nel solco inguaribile dello stesso innamoramento o erotismo dell'ascolto, di cui sopra: e senza che io gli abbia mai teso una mano o tirato una manica adesso vivranno e moriranno con me ( A volte slacciare un corpetto ad una donna alla finestra senza mani e da lontano, è l'unico modo perché sia lei a farlo per te...) e così mi sono innamorato delle loro tenebre di tenerezza, della loro fragilità, della loro paura, del senso possibile della perdita e della loro assenza, come loro hanno fatto con me. Trovo che sia l'unica prova, anche nel suo irreale, che il costrutto della narrazione ha seguito comunque una sua logica -che alla fine sarà l'unico farmaco-: quella di perdermi nel profondo e attraverso una cura esasperante delle tensioni e delle atmosfere del mio linguaggio, delle dinamiche più sottili e imperscrutabili di quello che mi accade e che forse non sarà, e nella sua irrealtà giungere al vero o possibile movente della mia avventura o anche divertissement di scrittura: l'orgasmo di una nuova e indimenticabile mancanza.
Io conosco molto a fondo, per una serie di trascorsi, la funzionalità degli strumenti ad arco nella musica classica e dei rapporti sottilissimi di rischio dell'intonazione nella dimensione tonale dove si muovono. Ogni arcata un rischio di scivolare, e soprattutto ai meno pratici questi errori sono manifesti e devastanti e al primo passo falso anche il vicino di casa più paziente potrebbe perdere le staffe. Bene, lo stesso avviene esattamente con la sequenza di un paragrafo, di una frase, di un racconto, anche di soli pochi righi. La stonatura infrange anche nello scrivere gli equilibri del possibile, dell'assente e dell'inimmaginabile o del perduto, e quando è massiccia impedisce "l'ascolto" dello scritto. Sono sicuro di quello che dico perché quando scrivo io costruisco dei livelli sottili di risonanza, con un mio personale fiuto o percorso, in assenza dei quali cestino e ditruggo, anche cento pagine o un lavoro intero. Putroppo ho incontrato molti lavori o forse troppi e anche "pubblicati", assolutamente privi di una minima logica di intonazione e di risonanza, eppure potrebbe sembrare più semplice con la musica e in effetti lo è: l'errore grossolano è così lampante: quando avverto delle distanze di comma o dei battimenti, non è solo l'orecchio ma sono altre parti del corpo che si ribellano, ed è giusto e buono che la ribellione avvenga perché è l'unico sistema per fermarsi, individuare il punto crititico e correre ai ripari. (Penso a Blaise Cendrars o a Miller e a quello che mi direbbero adesso). Ma con una pagina, anche con una sola pagina senza vita di suono, dove lo avverto il tritono, la dissonanza non prevista, il battimento? Io credo, nel mio caso personale, dalla stessa logica di assenza e di irreale su cui, nel mio caso, imbastisco e sviluppo le mie strane dinamiche narrative. Arriva da lontano e prima che tu scriva o pensi di cominciare. Un orecchio terzo o quarto o forse onnicomprensivo e inclusivo di altri sensori, pervadente nelle dinamiche relative ad apparati sensibili e sensitivi, molte volte dolorosi. Nei dialoghi, per esempio; bastano un paio di righi per vedere se lo scrittore abbia l'orecchio adatto. Non tutti sono impeccabili, l'importante è affinarsi nel'intimità e "nell'erotismo dell'ascolto". Io sono convinto che in ogni voce vi sia un potenziale sensibile di erotismo sublimato verso la propria mobilità di percezione anche non troppo volontaria ("La petite mort" è quasi tutto costruito e impostato sull'erotismo dell'assenza e della perdita). "Erotismo dell'ascolto" come partecipazione sensibile di una serie di ingranaggi per cui l'attimo in cui si svela la propria voce, ha i suoi tempi privati, personali di indimenticabile nella possibilità stessa del loro rischio di perdita. La stessa attenzione che potrebbe carpirmi e catturarmi con due donne che mi parlano accanto e tra loro di quello che dovranno indossare in una certa serata che mai vedrò se non attraverso quell'istante, o di un segreto terribile di morte.
Mai far parlare i personaggi nei dialoghi allo stesso modo,(errore comune negli scrittori poco musicali o improvvisati) ma quando avviene questo è meglio uscire e portare fuori il proprio cane reale e lasciare perdere. Putroppo ho avuto l'orrore di leggere testi pubblicati senza alcun criterio di ricerca, di sensibilità agli apparati del linguaggio, e questo è un discorso a parte. Non so davvero che farci. Questa è la responsabilità degli editori: se sei sordo a certe situazioni, non potrai scrivere! Io scelgo i vagoni della metropolitana in base ai visi e agli sguardi delle persone, e non in base alla lunghezza delle gonne delle passeggere.
La conferma di tutti questi strani fattori che ho scoperto soltanto nella solitudine di lunghe sedute di scrittura, sta nella veridicità dell'emozione da parte del lettore, che diventa poi parte viva di un secondo sviluppo e di una seconda o terza vita, per la storia. Un linguaggio che suoni sul serio emoziona e non appanna l'idea dell'emozione, ma crea risonanza nella vita e nella nostalgia dei processi più sottili di memoria. I due protagonisti o forse reali narratori della passeggiata notturna, sono avvinghiati alla mia sfera di emotività nel solco inguaribile dello stesso innamoramento o erotismo dell'ascolto, di cui sopra: e senza che io gli abbia mai teso una mano o tirato una manica adesso vivranno e moriranno con me ( A volte slacciare un corpetto ad una donna alla finestra senza mani e da lontano, è l'unico modo perché sia lei a farlo per te...) e così mi sono innamorato delle loro tenebre di tenerezza, della loro fragilità, della loro paura, del senso possibile della perdita e della loro assenza, come loro hanno fatto con me. Trovo che sia l'unica prova, anche nel suo irreale, che il costrutto della narrazione ha seguito comunque una sua logica -che alla fine sarà l'unico farmaco-: quella di perdermi nel profondo e attraverso una cura esasperante delle tensioni e delle atmosfere del mio linguaggio, delle dinamiche più sottili e imperscrutabili di quello che mi accade e che forse non sarà, e nella sua irrealtà giungere al vero o possibile movente della mia avventura o anche divertissement di scrittura: l'orgasmo di una nuova e indimenticabile mancanza.
l.s.
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