Nell'abbraccio della ragazza, unica eletta a raggiungere il palco di Michael Jackson, durante il concerto di Monaco del 1997, ho colto qualcosa di molto più articolato del fanatismo o tipico invasamento adolescenziale per il proprio idolo di turno. Oltre e dentro quell'abbraccio, avviene una precisa sinergia di solitudine e di adempimento all'unico antidoto di morte di quell'istante, che probabilmente rimarrà scolpito nella memoria di entrambi. Michael Jackson in quel momento regge e non corregge l'impeto. Nemmeno lo disciplina nel suo trauma, ma lo fa carne bianca della sua canzone, continuando a cantarla con dentro quella stretta tentacolare, ma struggente, che gli fende il fiato. Dentro quel nodo si sintetizza l'inconsolabilità per ciò che davvero si ama. La sensazione di perderlo mentre lo si afferra, di sfuggirlo mentre lo si tocca, di morirne solo mentre lo si vive. Una strana penombra di mito e di teatro, come nostalgia di un orgasmo crepuscolare e divino, che in fondo non passa mai.
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