"I tetti erano lustri per la pioggia caduta durante la notte. Erano un richiamo per l'occhio anche i riquadri degli orti: verdolini, azzurrini, a seconda che vi fossero piantagioni d'insalata o di cavoli o carciofi. Velature di nebbia appannavano ancora la vista; la pendice di fronte era quasi tutta immersa nell'ombra della mattina. La vita ferveva nel triangolo che aveva per vertice il punto in cui i due fossi confluivano e per base la strada biancheggiante di detriti d'alabastro. Lí il terreno era pianeggiante e i poderi fitti. Due erano separati solo da un orto.
Quella di non vedere una cosa che s'aveva sotto gli occhi succedeva anche guardando in terra. Vedevi le foglie di olivo accartocciate, vedevi uno sterpo, un filo d'erba, una crepa del terreno, l'impronta dello scarpone, una zolla indurita, e non t'accorgevi del lombrico che si dibatteva nella terra smossa o della fila di formiche che risaliva la crepa. Eppure l'avevi sotto gli occhi come tutto il resto. Avrebbero potuto anzi dar nell'occhio dal momento che si muovevano.
Succedeva purtroppo anche con le olive: ti pareva che nessuna oliva nereggiasse più nella fronda, invece n'era rimasta una grossa e lucente. Te ne accorgevi all'ultimo momento, quando stavi per venir via.
Smisero vedendo la bimba che tornava da scuola. Fu Anna a scorgere il grembiule bianco nella intelaiatura di tronchi a cui era ridotto il bosco di acacie".
Carlo Cassola, da "Paura e tristezza". Einaudi. Prima Edizione 1970
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