Scrivendo, a volte ho la sensazione di spalancare le finestre di stanze chiuse da tempo. Di aprirle a cortine di bruma, in un freddo sano, rincuorante, che mette fame e voglia di camminare a lungo. Vi sono invece dei momenti in cui, al contrario, avviene un soffocamento diffuso. Ogni parola toglie l'aria e ammanta ogni parte della mia persona della più profonda oscurità, che paralizza. In questo alternarsi di aria aperta e di ambienti claustrofobici, di chiarori invernali e di oscurità, si muove l'anima solitaria di un viaggio unico, con il suo vento in faccia, le sue salite, le sue foglie bruciate del bosco, che scricchiolano sotto la suola infangata di scarponi troppo stretti. Nulla di oscuro sarà mai solo buio, ma anche notte. Notte non vuol dire solo buio, o mancanza di luce, ma molto altro, oltre la sola oscurità. Anche dentro il chiaro non vi sarà solo la luce del giorno e la purezza dell'inverno e delle lunghe passeggiate a sfinirsi: anche in quel caso molto altro, di ignoto ma anche di nutriente. Qualcosa che contrasti e affini la sola semplice chiarezza della luce. E tra i due stadi, quello diurno e quello notturno, come quello arioso contro quello claustrofobico, se ne snodano diversi altri, direi infiniti, fatti della migliore o anche della peggiore parte dei due estremi, nelle più svariate combinazioni. In questa scorsa pluridimensionale, il linguaggio si addensa di altro, oltre le sue parole, che a volte sono solo degli indizi, non sempre utili per risolvere il proprio caso o delitto creativo al quale ci si immola, senza un preciso movente. E solo allora, quando comincio a muovermi in territori che in fondo non conosco, trovo che tutto questo abbia ancora un senso. Quando, scrivendo, comincio ad avvertire l'anima nelle mani.
venerdì 3 febbraio 2017
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