Mi accorgo che col tempo cambiano alcune visioni sulla vita. Visioni non sono solo pensieri sulla vita, ma anche altro. Immagini, evocazioni, bagliori, resistenze o sensazioni. Lo spettro di visione sulla propria vita è spesso una mensola con due dita di polvere, con qualche granello d'oro, sparso e nascosto, ma anche con tanto di sottile, di tossico e di oscuro, che si accumula e si aggiunge al quadro generale o tragico che ne appare.
Dunque, ritornando al punto: cambiano alcune visioni sulla mia vita, quindi anche sulla mia scrittura, che è parte della vita, non solo della mia vita, o almeno così dovrebbe essere.
Cambiano gli atteggiamenti e le risposte, anche a distanza di giorni, di mesi. A volte rimango fermo nella nuova visione, in altri casi ritorno sulla vecchia strada o visuale, ma con un'aria e un atteggiamento diversi, più malinconico e segnato. Non si è mai più gli stessi. Non sono più lo stesso, nemmeno nel rettangolo bianco di questo post, che mi avrà già visto un altro dal primo paragrafo a questo che sto scrivendo o sporcando con le mie parole scritte di getto.
Dunque la mia visione mutata o maturata, è che su cento parole mi accorgo che in media dovrei salvarne tre, o a volte nessuna. Su duecento due, o al massimo nessuna. Su trecento al massimo: nessuna. Su cinquecento ancora meno, e così via. Quello che noto è che quello che vale davvero la pena di lasciare scritto non è sempre di un rapporto di due o tre parole su cento. Che scrivendo di più, da atleti ben allenati all'esercizio muscoloso e tenace della scrittura, (così come si incita e si invita ad essere: automi dal polso facile e leggero), il rapporto del numero delle parole da salvare, con l'accrescersi del numero dei caratteri scritti, si riduce e non aumenta, come invece un procedimento matematico e statistico potrebbe indurmi a credere o a sperare. Questo se non cresce la mia vita, la mia cultura e la mia sensibilità e il mio amore nel sentirmi vivo, a prescindere dalle cartucce di caratteri snocciolate nel vuoto in un solo giorno o notte che sia. È una mia sensazione, non sempre avviene questo, parlo comunque sempre per me. Intendo scrivendo nel deserto rosso di un territorio dove la mia creatività non sarà contestualizzata a un processo sinergico di relazioni, di scambi, di crescita, di confronti, di riscontri, ma alla semplice e muta sentenza di approvazione o disapprovazione, che è purtroppo un fattore così cangiante, personale, impermanente, anonimo, dal cui risultato si possono ricavare le stesse informazioni sul proprio testo che si potrebbero ottenere da una gracula religiosa in esposizione, che sia ispirata a parlare mentre ti guarda fisso.
La mia creatività non ha bisogno di una casa dove stabilirsi, ma di un territorio vivo e radioso nel mentre del suo esistere e articolarsi, anche se rimarrà per sempre clandestina e senza tetto. Di piccole ma delicate attenzioni e conversioni, di avvenimenti, accadimenti di vita, che nulla hanno a che vedere con la sorte definitiva di quel testo, ma che contribuiscono ad affinare al processo di scrittura, una componente di vitalità e di ricerca, e non di mero esercizio.
Posso studiare il violino facendo scale maggiori e minori, con tutte le varianti possibili, tutti i giorni della mia vita, e diventare impeccabile. Ma se non leggerò mai un rigo di una sonata di Mozart insieme a un pianista, se non varcherò mai una sala di concerti o non chiacchiererò anche solo a cena con un addetto ai lavori appassionato, non mi occuperò mai davvero di musica, non suonerò un bel niente, ma sarò solo un tecnico, un calcolatore di suoni senza vita. Un esercizio creativo ha bisogno di getti complementari, difficili da trovare in un deserto. Un libro è la fine di un lungo viaggio, spesso doloroso, dove di solito la sua pubblicazione è stato l'ultimo pensiero, l'accadimento accessorio o incidentale, rispetto al molto altro che include la sua strada e la sua storia. In un percorso narrativo avverto l'esigenza di un tessuto di piccoli moventi che lo rendano vivo perché contestualizzato. L'odore di un teatro, anche delle sue poltrone vuote, o delle briciole della sera prima.
Posso studiare il violino facendo scale maggiori e minori, con tutte le varianti possibili, tutti i giorni della mia vita, e diventare impeccabile. Ma se non leggerò mai un rigo di una sonata di Mozart insieme a un pianista, se non varcherò mai una sala di concerti o non chiacchiererò anche solo a cena con un addetto ai lavori appassionato, non mi occuperò mai davvero di musica, non suonerò un bel niente, ma sarò solo un tecnico, un calcolatore di suoni senza vita. Un esercizio creativo ha bisogno di getti complementari, difficili da trovare in un deserto. Un libro è la fine di un lungo viaggio, spesso doloroso, dove di solito la sua pubblicazione è stato l'ultimo pensiero, l'accadimento accessorio o incidentale, rispetto al molto altro che include la sua strada e la sua storia. In un percorso narrativo avverto l'esigenza di un tessuto di piccoli moventi che lo rendano vivo perché contestualizzato. L'odore di un teatro, anche delle sue poltrone vuote, o delle briciole della sera prima.
Il problema di fondo è la mancata propensione per un ascolto che si discosti dal solo approccio giudicante e sentenzioso. Sento parlare anche persone giovani, molto capaci e dotate, parlare di scrittura, qualche volta anche con me, e mi accorgo sempre di più che parlare di merda di vacca e di razzatori con un allevatore, sarebbe, in confronto, molto più creativo, letterario ed edificante.
La mia visione continuerà a cambiare, ma quello che non voglio è che un qualsiasi procedimento creativo sia ridotto all'esecuzione solitaria e ossessiva di scale maggiori e minori, protratte all'infinito, e a un contesto in cui ci si accanisca sui gradi delle scale, come se la musica fosse solo lì.
Credo che a volte sia così.
Ma oggi è solo mercoledì...
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