sabato 27 novembre 2010

Sipario!

Rimango sempre molto scettico quando sento discutere di scrittura. A volte mi sembra così assurdo che esista un argomento che riguardi l'atto dello scrivere. Forse perché lo ritengo un atto profondo, istintivo, molto personale. Ed è per questo che dovrei evitare di parlarne, e invece in diverse occasioni ci ricasco. Ma solo quando sono al buio, come adesso, per esempio, con  la sala vuota. Scrivendo da soli, anche un semplice articolo in rete, non hai l'occhio e il viso che ti guarda e che ti pensa quando parli. Non hai l'espressione,  il sesso, la fiducia, l'antipatia, il profumo, di chi sta di fronte e sceglie di ascoltarti perché è successo, è capitato, o perché mi esprimo benino, avrò da raccontare un film, un luogo dove si mangia bene, la qualità di un vino Aglianico. Quando si scrive da soli, succede che non ho occhi, non ho sguardi che ti dirigono il filo del discorso; ho solo la gabbia della libertà assoluta di poter avere a che fare con qualsiasi persona, semmai la più lontana a recepire quello che sto scrivendo e a sopportare le tiepide raffiche su cosa sia letterario o meno, su cosa funzioni di più; o quanto sia difficile scrivere narrativa di genere, e quanto conta la punteggiatura e l'incipit e la lunghezza di un paragrafo e quanta luce ci sia nella mia stanza, e quanta musica suoni o quante noci della California ho buttato giù nel gozzo. Quando scrivo e non parlo, sono in mare aperto e senza freni, solo pinne nere di squali. Sono in gabbia e sono da solo.  
Conoscere il proprio interlocutore è un passaggio obbligato per circuire il raggio di azione di quello che dovrò dire, per ammortizzare il balzo del mio agguato. Essere controllato dalle sue reazioni immediate a quello che dico, che ho  appena detto, quando a volte sembra percepire il mio pensiero appena prima che sgorghi dalla voce, come se ne avesse avvertito l'odore di bruciato o di bosco, o aver visto il fantasma della sua figura sfumata di parole. Le parole dette hanno la cagna guida della vita reale, i colori di chi vi sta resistendo e deve tradurre lo start al cieco che attraversa la strada. A volte uno scrittore è un po' come il comico. È sera, il teatro è pieno, le battute sono tutte pronte, ma gli viene la strizza, non sa se saranno così efficaci da farli sbellicare tutti a sufficienza. Prima di cominciare sbircia, cerca di mettere a fuoco, ma non si vede niente, o sarà la paura. Non ci saranno di certo gli amici della prima sera,  e così nemmeno i parenti. Non vedo i visi, forse sarebbe meglio immaginarne uno, quello di mio nipote, di mia sorella, di mia moglie, del mio agente, di qualsiasi essere al mondo abbia appurato la mia grandezza, anche se lo avrà fatto per motivi che prescindono da quanto sia davvero grande come comico. E se invece io non fossi un comico? Se fosse tutto un grande equivoco, e tutti lo sanno, all'infuori di me? Come se qualcuno dovesse accontentarmi, e il ridere a una mia battuta o in altri casi il leggermi, diventa un piccolo atto di amore segreto o di compassione, e se questo non lo saprò mai?
Scrivere al buio, è un po' la stessa cosa. Non saprò mai se la battuta funzionerà, se dipenderà dal ritmo, dalla mia espressione o dalla mia voce rauca o dalla mia poca bravura se farò fiasco. Potrebbe dipendere da altro. Potrei essere uno davvero bravo che non fa ridere, perché forse è giusto così e non necessariamente per colpa della mia bravura. O potrebbe accadere tutto e il contrario di tutto, la certezza la darà soltanto l'esperienza pura e presente, dove tutto sarà così poco prevedibile. Se si avesse la certezza di ogni passaggio, il lavoro finirebbe dopo due sere. Sarebbe il comico il primo a piangere. 
Credo  che i comici e gli scrittori abbiano molti punti in comune. Uno scrittore ha bisogno di volti vivi, di maschere, di risposte, di espressioni affamate, attente, invasate, innamorate e non di commissioni e di giurie infallibili, per carità! Ha bisogno di pugni, di calci e e di baci davanti allo specchio di un lago notturno, tutti quelli che gli mancano, e che forse avrà immaginato in corso d'opera, ciascuno con la sua particolare stoccata di lusso o più sgraziata. E quante delle sue parole arriveranno davvero dove lui crede, o ritorneranno indietro, verso l'oscurità? Parlando di scrittura, invece, avviene una sorta di esorcismo, si fruga nei meccanismi di una tecnica, di una strategia, di un sistema; si cercano rassicurazioni, ricette, inganni, stratagemmi, intrugli magici, abili rimedi, balsami e sciroppi zuccherini per convincere gli editori, talismani contro le paure e i demoni delle pagine bianche, i trucchi diabolici degli altri più bravi e più pubblicati, così  a volte ci si spaventa di meno e si diventa addirittura sprezzanti, e più coraggiosi, ma la certezza del viso che ti legge e della sua risposta-risata, non avverrà mai. Nemmeno di quanto saranno veri quei visi e autentiche e di cuore quelle risate.
Il metodo per raggiungere certezze ed essere sicuri del proprio valore, del tipo di strada, se giusta o sbagliata, si trova solo in una direzione: mollando tutto. È l'unico metodo per avere una risposta razionale sullo scrivere, sul mistero dello scrivere. Se la si cerca non la si troverà mai. Credo fermamente che l'unica certezza che uno scrittore possa avere, riguardo al suo linguaggio e a tutto quello che gli ronza intorno di possibile o di potenziale, sia quello di lasciarlo morire. È meglio non farlo vivere, anziché sbeccuzzare qua e là quello che sia giusto e ortodosso, come fanno i passeri, al pomeriggio, davanti al balcone della mia cucina. Ma almeno quelli sbeccuzzano con il taglio del puma, se hanno una buona intenzione, sono anche capaci di imbucarsi nel secchio della pattumiera e sommozzare, quando hanno avvistato il movente del bersaglio, con tutta la lordura che incontreranno la limpidezza del loro volo rimarrà tersa e forse ancora più luminosa, perché la loro unica possibilità di vita.  È meglio che uno scrittore lasci perdere, più che elemosinare piccoli rintocchi o spinte strategiche e umilianti per dire di esserci, o cercare di ritrovare la propria strada o il proprio angolino dignitoso che giustifichi agli occhi di qualcuno che i suoi sforzi ormai sono stati finalizzati a qualcosa di buono o almeno di corretto e di tendenza per la moda del momento, che sia intellegibile, commestibile, ma mai dirigibile o sommergibile. Questo mai? Le altezze o gli abissi non interessano. Fanno paura, poca aria, pochi negozi. A volte attraverso il rinculo a suo favore di guizzi umorali e non sempre sinceri di pseudo amici, semplici appassionati o addetti maldestri o maledetti ai lavori, conviene optare per qualcos'altro: il jogging, l'allevamento dei canarini inglesi, una buona palestra di arti marziali. Scrivere solo per arrivare in un punto prefissato da un'ossessione, per sfornare libri e scomodare traduttori, o cercare quel particolare punto di arrivo, perché commisurato alla strada che avrà fatto qualcun altro, vuol dire rinunciare alla propria unicità, alla propria voce, al proprio respiro di scrittura. Questo significa chiedere e non dare. Soprattutto se non trovi il tempo per un biglietto di auguri a un amico o per rispondere a qualcuno che ti ha chiesto un parere sul suo breve testo, che hai dimenticato.
Un respiro e un movente di scrittura, se è autentico, non se ne frega di dove dovrà andare, ma gli interessa di rimanere assolutamente puro, nella lacca lunare delle sue origini. Il suo senso è quello. È raggiunto al primo sbocco, potrà vivere mille modifiche, ma non conoscerà altro se non il mio mood di quell'attimo iniziale, l' unico e disperato, che forse non ritornerà mai più. 
Esiste un personaggio di una mia storia a cui sono molto legato, che improvvisamente, decide di non scrivere più. Il titolo è "L'azzurro della notte", che è diventato quasi un romanzo breve, e comincia con questa grande rinuncia, plateale, con la distruzione di tutto quello che era stato scritto negli anni, tirato fuori con forza da un vecchio baule. Non mi sono mai sentito così bene quando ho dovuto scrivere di quella distruzione, mi sembrava di accendere un rogo di tutte le mie parole, buone o cattive, scritte o cancellate, un grande rogo liberatorio e purificatore, senza limiti, coordinate o definizioni. Solo fiamme sulla carta. Anche quella è una scelta, una strada; dipende dalla sensibilità e dalla coerenza di chi la fa; a volte pù rischiosa ma anche più logica di chi decide di scrivere qualcosa chiedendo ogni secondo che cosa piaccia, che cosa convenga inventare, che stile va più di moda, quanto sia stato chiaro o troppo involuto, come funziona la punteggiatura, e se le pieghe dei pantaloni sono a posto o se il giubbino ha sul davanti un alone di olio e come tirare dietro i capelli.
E sperando di indovinare un giorno i visi che rideranno alle sue battute, uno per uno, con incluse targhette sulla giacca con dati anagrafici, religione, nazionalità, professione e credo politico. 
Le luci si spengono, adesso non c'è quasi più nessuno. Sono da solo, sul piccolo palco dove hanno tenuto l'ultimo spettacolo. L'odore del legno e del sipario, il vociare della folla. poi arriva il silenzio. Non ricordo un viso, avrò sbagliato tutto, ma forse ho tirato su un solo sorriso, di un ragazzo con gli occhiali e la camicia a grossi quadri, molto magro e nervoso; quella camicia somiglia un mondo a quella di mio nonno, ma c'è rimasto così attento, come nemmeno un astrofilo al telescopio farebbe in una notte così stellata e tersa, come è quella di una rinuncia o di una possibile sconfitta. A volte momenti di grandissima tenerezza e libertà... sono quelli più dolorosi e i più incerti, non solo per chi scrive.
Per le risate quel ragazzo si era tolto anche gli occhiali, questo almeno me lo ricordo, anche se avevo le luci bianche e gialle negli occhi. Aveva le lenti doppie e appannate, ma non smetteva di guardarmi. E allora, ne sarà valsa la pena...comunque, anche se era l'unico ad aver comprato un biglietto quella sera e  non riuscivamo nemmeno a scorgerci bene, nessuno dei due, che forse non ci incontreremo mai. A volte è un peccato, davvero...
Sipario!
l.s.

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