Scrivere per dimostrare o condividere? È possibile marcare un confine, o cercare una terza strada? Ha un senso parlare di scrittura e di dinamiche inerenti a un'attività così strana, profondamente oscura e antica, in apparenza alla portata di tutti, immediata, e di colpo relegata ai pochi iniziati che abbiano compreso la formula magica o abbiano trovato la chiave per mettere d'accordo gli addetti ai lavori fino ai più semplici curiosi? Quando non mi farò più domande, è probabile che potrò ricominciare da zero. Una parola che nasca da una certezza, ma che forse sarà anche l'ultima. Scrivono in molti, si dice in troppi. Come, però? Ciascuno con i suoi moventi, i suoi talenti, i suoi vezzi, le sue maledizioni, le sue tare i suoi manierismi. Il magma continua, ci si nutre delle proprie pagine in riflusso come latte di capra, inzuppandosi i colletti della camicia e continuando all'infinito, ciascuno con la sua maledizione fino a inondare il lago di un atrio. Eppure mi accorgo sempre di più di provare un certo disagio e pudore nel parlare agli altri di questa mia strana attività segreta, che a volte mi impegna come se fosse una questione vitale, in altre mi sembra così grande da annientarmi, così divertente da spaccarmi la bocca dal ridere, così spaventosa da costringermi ad accendere tutte le luci nella casa. Insomma, se dovessi davvero dimostrare qualcosa, qualcosa che sia misurabile e quindi quantificabile, non troverei quella pace che mi assale quando mi stacco da una seduta di scrittura e spengo il mio mac. Sarò anche stanco, ma come uno che ha viaggiato e si è divertito. E poi non so dove possono portarmi le mie parole, credo verso la certezza di un grande equivoco, di un'inadeguatezza a qualche canone precostituito, forse alla mia fine o a un labirinto infinito di sbadigli. Ogni paragrafo di solito è un autobus senza numero, dove tento di salire e di prenotare qualche posto ancora libero per un ipotetico viaggiatore; un autobus di notte, che probabilmente porterà solo al deposito, o addirittura in un luogo oscuro e malfamato, pericoloso.
Scrivere per condividere? Forse si comincia a ragionare, ma nemmeno. E poi che cosa? Quali sarebbero queste grandi verità o certezze che costringano qualcuno a fare affidamento sui miei tortuosi e caleidoscopici giri nauseanti di giostra, col rischio di sbattere in un deposito buio di provincia e non ritrovare più la strada? D'altra parte la certezza quando si lancia un sasso piatto nell'acqua di un lago, che sia un romanzo, un racconto breve, un saggio, un articolo, un post, è che chiunque potrà guardarlo dalla sua direzione e il più delle volte tutto quello che verrà recepito, potrà essere molto diverso da quello che io avrei previsto o sentito di esprimere. L'espressione del mimo, sotto le luci del teatro, anche al più attento spettatore di prima fila, vivrà quella serie di varianti che lo stesso artista non aveva previsto e che creeranno cento spettacoli paralleli nella stessa sala, o forse di più. Sono ancora convinto che ciascuno abbia un suo modo unico e personale di vedere, di sentire, di percepire quello che gli accade davanti. Sarà la sua storia, la sua digestione, il suo ultimo bacio rubato, o il suo delitto a fare la differenza e a filtrargli il succo magico che gli viene somministrato al momento E non credo che si possano dimostrare tutte le sfumature e le divergenze, tra un osservatore e un altro, ma nemmeno quel numero perfetto e assoluto che un giorno metterà d'accordo tutti. Anche il prodotto artistico più perfetto troverà diversi modi e diversi occhiali paralleli nella sua rifrazione e la certezza, durante la sua preparazione faticata, di non arrivare quasi mai al segno.
Scriverò dunque per addomesticare il buio, dove ancora adesso brancolo? Probabile, assai più convincente. Non credo di aver trovato mai delle porte o delle uscite di sicurezza quando attacco un paragrafo. Quelli che un giorno avranno funzionato, saranno quegli stessi che hanno vacillato e scricchiolato, lasciandomi una risonanza di dubbi e di ripensamenti. Perché non ho mai chiaro il fattore dell'impatto, il senso della luce. Il miglior fotografo del mondo, potrebbe aver visto un rosso che non c'è. Scrivere è una questione di luci. Non penso ad altro che alla luce, qualsiasi cosa scrivo e in qualsiasi contesto o situazione. La luce di un viso, il suo allungarsi o contrarsi in direzione di un'ombra vicina, di un'esposizione a una finestra, all'ingresso luccicante di un night club o sotto il filo di luna di un eremo. Credo che tutto quello che ho scritto, di ridicolo, orrendo o accettabile, abbia visuto l'incubazione di un fotogramma, dei suoi contrasti in filigrana, da cui nascono in controluce le situazioni e anche le voci delle persone che solcheranno quella particolare scena. Non riesco a scrivere di un personaggio se non avverto dentro il tipo di voce, i suoi gusti in materia di donne, di musica classica o di cinema. Ma quella voce nascerà sempre dopo averlo immaginato con una certa luce. La luce è l'unico utero dal quale cerco di estrapolare i miei diabolici o malinconici tentativi di strutture e di portarli avanti fino a quando il cono di luce non si spezza. Eppure, nonostante il tutto rimbalzi a caso, senza certezze da dimostrare o particolari pensieri da condividere, tutto questo fattore impalpabile è così surreale, da diventare parte imprescindibile della mia vita e dell'amore irrazionale e sconfinato che provo per qualsiasi cosa mi capiti sotto il naso. Dal cane rognoso che solca l'ultimo tratto in salita di vico case puntellate, al tramonto che infiamma una darsena, allo sbadiglio sciatto di una cassiera. Qualsiasi cosa deve ritornarmi nel suo non senso ma nella sua assoluta indispensabilità perché possa scriverne, e perché ci sia ancora qualcosa da mostrare, ma mai da dimostrare. Credo che le due lettere in più o in meno, comportino lo squarcio di un abisso. La scrittura a cui dedico del tempo, dove spezzo un sogno o la punta di una matita, è legata a tutto questo. Forse all' ansiosa ricerca di un luogo perduto o sottratto senza un motivo, di un certo oggetto o di una certa casa o di un viso, di qualcuno che mi gridava qualcosa, intravisto di ritorno da un viaggio, da un finestrino appannato e forse ancora incagliato nella gola. Per questo strano dolore, impercettibile ma presente, io so di dovere continuare a farlo, comunque, perché scrivere per me è soltanto perdermi...
l.s.
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