mercoledì 24 novembre 2010

L'odore dell'aperto e il mio senso di scrittura

Quando si scrive, a volte, si tende a rendere sacro quello spazio e a conservare proprio in quel momento il meglio dei propri pensieri, delle proprie emozioni. Come se collocate in altre circostanze, che non riguardino direttamente l'affare della scrittura e del proprio possibile ingegno in perenne erezione, vadano sprecate, dissolte in luoghi che le depauperino del loro valore, almeno di quello che si ritiene essere il proprio eventuale valore.
Credo che  uno spazio espressivo non debba mai risparmiarsi troppo. L'avarizia è una certezza di povertà. Se ho qualcosa da dire e da dare, tutto questo non si esaurirà, ma si moltiplicherà con la mia generosità di concederlo quando lo sento e non quando credo sia più adeguato e giusto concederlo. L'importante è rodare la propria espressività, almeno quando le occasioni di tutti i giorni lo consentono, che forse è l'unico modo per affinarla. Se si seleziona troppo quello che si crede opportuno comunicare, relegandolo solo in luoghi eletti, si finirà con l'accumulare una letteratura di residuo, da quello che è l'odore di aperto e di vissuto di un'esperienza artistica. Credo che la scrittura sia un processo molto più ampio. Non vorrei relegarlo nella mera trascrizione di cose interessanti e migliori da dire o da saper dire, o come ginnastica  del linguaggio, ma nella capacità di sapere trasformare quello che sento e che vedo, che sperimento e  che vivo, in ogni momento,  e anche nel progetto di un testo. Ma non solo. Di trasformarlo senza un movente strategico, ma con la stessa dinamica con cui parlo a qualcuno, o lo saluto. Senza badare al luogo supremo dove questo saluto potrebbe avvenire o non avverrà mai. L'importante è che rimanga un luogo che abbia un buon odore di aperto e di imprevedibile. E che non sia mai la mia scrittura a dare un senso alla mia vita, ma che sia la mia vita a dare un senso alla mia scrittura. Concetto assolutamente banale quanto vero.
l.s.

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