venerdì 4 settembre 2009

"Appunti da un diario parigino" di Luigi Salerno






Ricordo soprattutto quella sua stanchezza, dipinta come in un filo sul viso, neppure scolpita, perché a scolpirsi avrebbe provato fatica. E la stanchezza strana dei suoi colori, che esprimevano l'ultima noia di giugno, quando noi alunni dovevamo ancora rinunciare a quella condivisione di ansie e di grandi emozioni. Quell'anno che non c'erano esami.
La signorina Fournier, l'insegnante di disegno, mai qualcuno che le ravvivasse la sua espressione di malinconia pura, di disincanto indifferente per ogni soffio vitale che la visitasse, anche se appena sfiorata, e dopo tanti anni ricordarla in un cinema,e sentirla parlare poco, nel fumo dell'intervallo, con un'amica sconosciuta.
Eppure tra tutti ho ricordato sempre solo lei, l'anonima Fournier, dagli occhiali appannati e viscosi di grandi profondità perdute, e i capelli appena rossi, e quell'incontro al corso Lumière, con Annie Dussièr, quando cercammo di intenerirla invano per l'interrogazione del giorno dopo.
Ma nemmeno ci vide arrivare e allontanarci.
La sua noia nascondeva qualcosa, anche quando mio padre d'improvviso se ne innamorò.
Fu quel giovedì che lo sentivo strano, che dopo essere stato a colloquio aveva cambiato espressione e aveva cominciato a cantare di meno durante le sue rasature del primo mattino e delle Domeniche più serene.
Non lo credevo. Spaccare una famiglia per abitare nella sua tristezza di velluto scambiato, senza odori né profumi, senza direzioni e dolori se non il solco di una rinuncia metodica al sorriso e che forse gli diceva di qualcosa di diverso e di sinistro che lo aveva costretto ad incantarsene.
Di quel pomeriggio che rimasi in casa, quando entrambi credevano fossi già fuori, e avvertivo la sua morte trasformarsi, come la seta frusciante dei suoi collant dei più neri, tra le dita aperte di mio padre, che fumava e la inchiodava nelle lacrime con la testa schiacciata accanto a una grande tela d'autore, in un coito violento e disperato, senza vedute né speranze.
Ma l'ascesa opaca della signorina Fournier nella sua vita continuò. Come continuarono a crescere i miei voti e i miei vuoti, dopo quei suoi pomeriggi proibiti, che riconsegnavano mio padre a casa, sempre più scambiato nei colori, come a rassomigliarla nei gesti, nella distesa improvvisa dei silenzi più cupi. E forse è per questo che non ho dimenticato, e che lo vedevo quasi un contagio, nel suo sguardo che diventava come il suo, quando scendeva la sera e non riuscivano a incontrarsi.
Mio padre nel periodo del loro incontro si faceva come più dolce e remissivo anche con mia madre, che in fondo una donna triste e annoiata non lo era mai stata, ma che qualche volta lo guardava e si rispecchiava nel suo lago nero improvviso, e provava paura.
Ma la sua strana metamorfosi forse era una scelta ancora più profonda, perché voleva dire accettare una condivisione e una visione della vita e delle percezioni, che se non fossero state vissute nelle stesse profondità, li avrebbero allontanati per sempre. Forse significava innamorarsi davvero, quel lasciarsi cullare da quella stanchezza opprimente dell'esistere che era la loro gioia più nascosta, il loro piccolo spleen, che conoscevo soltanto io.
Papà che si scuriva, più la frequentava e più gli abiti gli morivano dentro le ossa cave e appena più curve e le sue occhiaie si profumavano di grigiori e dirupi. Poi una sera tornai e ritrovai il suo ombrello, lo stesso che qualche volta le avevo visto portare a scuola, nelle giornate di tempo cattivo.
Ma ancora una volta lasciai tutto in sospeso, quasi a gustarmi lo spettacolo di quell'autunno lento che calava da una donna ad un uomo, come un veleno, o lo squarcio astronomico di un' eclissi estiva di luna.
Ma proprio dopo tanti anni, mi accorsi che quel loro stato era molto più vero di quanto sembrasse.
Quella maledetta domenica, che papà era rimasto a casa e soltanto io e la mamma ci avviammo lungo la piazza delle maestranze per la celebrazione in cattedrale. E quel dannato imprevisto, che la fece ritornare indietro, e io che le ero attaccato dietro, come una piattola tremante e che non capivo cosa cercasse per correre così tanto verso casa. Mia madre affannava e mi stringeva il polso. Forse aveva parlato con qualcuno.
Un salto nel tempo, adesso che rivedo le stesse stanze, la stessa inclinazione, il rumore delle chiavi dalle sue mani piccole e la porta del bagno aperta nella sua poca luce, mentre mio padre si radeva nelle lacrime di schiuma e la signorina Fournier si soffocava con la faccia sepolta nel suo pube scoperto, ancora confuso con i suoi capelli sciolti e bagnati.
Due sere dopo li rividi ancora vicini, in un giorno di pioggia e di piccoli lumi, alla stazione di Parigi, sul terzo binario, distesi e fermi come i manichini delle vetrine del corso Lumière, uno stesso strano sorriso, nel mistero di quel loro ultimo abbraccio, così uguale a tutti gli altri, poco prima che venissero a prenderli.
La loro accidia era morta con loro, con lo stesso fischio soffocato dalla frenata del treno diretto per Lille, nella stessa stanchezza impassibile di un ultimo ritardo.


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