Parlando senza un ascolto.
Che cosa si forma nel linguaggio quando la voce è isolata? È libera nella sua vibrazione, ma incontra il vuoto? La formazione del pensiero che poi si fa parola, quindi forma più o meno compiuta, potrà mai essenziarsi di questo vuoto con cui dovrà fare i conti? Di questa mancanza che la corona? La mancanza potrebbe essenziarsi del paesaggio di una parola, come di quella successiva, anche la prima frase, un'altra, più lunga, ma adesso sarà quasi un periodo, un paragrafo, un intero capitolo, siamo a ventinove pagine, quasi a trenta, immolate nel vuoto! È come parlare, ma senza essere ascoltati.
Quando questo avviene, incontrando qualcuno un po' distratto, o nelle consuetudini di una relazione, di quelle quotidiane, quando non si è ascoltati lo si vede, e spesso lo si dice: "Mi stai ascoltando?", come se fosse riconosciuto come diritto, il diritto che ogni parola di quel momento, in quell'istante e con quella persona necessiti di attenzione, del dovere dell'attenzione. In quel caso vi sono occhi, corpi che si confrontano, che si scrutano. La parola scritta, quando non è diretta e funzionale a un compito, a una certa meccanica di una relazione, non ha il diritto di ascolto, ma contempla quello di esistere. Io posso scrivere, ma non posso chiedere un ascolto, quando la mia scrittura non è impiantata in una qualsiasi minima relazione con il mio interlocutore.
In metropolitana, qualche settimana fa, ero con un amico quando un signore sconosciuto cominciò a parlarci. Prima a entrambi, poi si rivolgeva solo al mio amico: così le sue parole, e il suo sguardo, senza un nesso, un senso compiuto. Bastò poco a capire che quella persona non stava bene. Non ci conosceva. Non trattava argomenti logici, connessi a una loro precisa funzione, relativa alla nostra presenza occasionale di interlocutori passivi e sconosciuti. In quel momento la parola della persona non perfettamente normale, violava un duplice territorio: 1) quello del parlare di punto in bianco con persone che non si conoscono, 2) e anche del parlare di cose assurde.
In metropolitana, qualche settimana fa, ero con un amico quando un signore sconosciuto cominciò a parlarci. Prima a entrambi, poi si rivolgeva solo al mio amico: così le sue parole, e il suo sguardo, senza un nesso, un senso compiuto. Bastò poco a capire che quella persona non stava bene. Non ci conosceva. Non trattava argomenti logici, connessi a una loro precisa funzione, relativa alla nostra presenza occasionale di interlocutori passivi e sconosciuti. In quel momento la parola della persona non perfettamente normale, violava un duplice territorio: 1) quello del parlare di punto in bianco con persone che non si conoscono, 2) e anche del parlare di cose assurde.
Ma intanto lo si ascoltava lo stesso. Per una forma di rispetto, perché forse la nostra fermata era vicina, o anche non essendo facile dirgli di tacere, a qualcuno che forse era infelice e che poteva sentirsi meno giù attraverso le sue parole valorizzate da un ascolto. Quando qualcuno ti parla, con interesse, anche chi ascolta si sente ascoltato. È come se fosse stato scelto, iniziato a una comunicazione, non logica e funzionale, ma in ogni caso con del nutrimento dentro. Una volta scesi alla nostra fermata, le parole del tipo stravagante sono sfumate nel nulla, come tantissime altre che avranno avuto anche una minima funzione, una reale utilità, – anche quelle, purtroppo, sfumano nel nulla.
Le parole non resistono mai da sole. Sia quelle dette che quelle scritte hanno bisogno in ogni caso di una familiarità di intenti, di un territorio dove il diritto di parola coniughi una fonte stimolante che in qualche modo la ravvivi e la responsabilizzi nell'esercitarsi. Il tutto, molte volte, può davvero confondersi con il parlarsi addosso, il parlare da soli mentre si parla agli altri – cosa molto comune – o con il confondere il proprio diritto di esprimersi con il dovere di avere un ascolto.
Anche la parola scritta potrebbe diventare una voce impazzita in metropolitana, o quella nenia ricorrente di un familiare, che si ascolta senza sentirla, che diventa a volte vibrazione, senza forma. Dove sarà allora la differenza? La colpa sarà della parola imprecisa dell'avente diritto o dell'ascolto inadeguato del non avente dovere, ma avente nello stesso tempo il diritto di non ascoltare, di non leggere?
Quanto conta allora questo esercizio assurdo di volontà? – se non anche di voluttà, esercitando a oltranza il diritto di parola confondendolo con un dovere di ascolto?
Credo che conti quel fattore che ho accennato prima, quando raccontavo dell'espisodio in metropolitana. Ossia: il far sentire ascoltato chi ascolta, quindi letto chi legge. Coinvolgere, in una cooperazione di intenti creativa, quella persona che incontra la mia voce. Renderla assolutamente indispensabile, in quel momento e anche oltre, quanto le parole dette da quella voce, se non di più. Farla parte esclusiva del moto espressivo e questo passaggio, in diversi casi, comporta un vero e proprio balzo quantico in un linguaggio, davvero un salto in un abisso.
Quando ascolto o leggo e mi sento così, quella possibilità di ascolto diventa un privilegio allo stesso modo di come lo sarebbe stato se la stessi esercitando dall'altra parte, da quella di chi scrive, di chi dedica la propria voce, se non la propria vita in quella voce.
Questo esercizio avverà sempre al buio, nell'ignoto. Ma necessita di questa caratteristica, a mio parere essenziale: l'annullamento di una rigida giurisdizione tra scrittore-lettore e la fusione in un'incantevole anarchia, dove i ruoli si infrangono e le parole diventano di entrambi. Credo:
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