Il grosso di quello che si cerca esprimendosi, la parte più preziosa del suo meglio, si conserva e si macera nelle attese. Attese eterne, cristalline, infinite. Ma di cosa? Anche l'apertura del portatile, il collegamento, è fatto di attese. Di un suono, riconoscibile, che arrivi solo da un certo luogo, da una fonte eletta, primaria, a consolare. Di un messaggio importante, che non sia una seccatura. Di una bella notizia, di un commento a un post, come di un articolo interessante o di una cavolata.
Non credo che si sarà mai davvero sazi, oltre questa sospensione che da un fare, da un proporre, da un lanciarsi, attende la curva possibile di un'eco, l'inizio anche spezzato di una risposta.
Sono abituato al silenzio. Forse il silenzio è una parte matura del mio pormi, del mio sentire e accomodarmi nelle cose; o forse la conseguenza di antiche ritrosie, ripensamenti, inabilità, torti e offese mortali. Eppure, gran parte dei miei percorsi, delle cose in cui credo e che tento di portare avanti e di condividere, sono fatte di queste costellazioni struggenti di attese, di questa luminescenza insidiosa di spazi vuoti, dove potrebbe insinuarsi sempre qualcosa, che però si prende sempre tempo e rimane dentro il suo altrove, come un uccello caldo di febbre sulle sue uova. Il fuso dell'attesa credo che sia una condizione, uno stato specifico dell'essere, non più uno stadio. Uno stadio avanza, matura, ha le sue possibili dinamiche, diramazioni e reazioni; uno stato invece è spesso qualcosa di genetico, di compiuto se non di innato. Di fermo e di incastonato nella sua essenza elettiva. Per cui immagino cosa potrebbe mai accadermi se tutte le attese in cui mi macero rimanessero così – come quasi sempre avviene –, intatte, con il loro vuoto genetico, la loro perfezione silenziosa e abbagliante, la loro matematica e simmetria. Quanto di quello che potrei ancora proporre, organizzare, inventare, sarà condizionato dalla dilatazione di questo spazio regale di assenza, di inesistenza, dove sembra che si sfumi nello stesso istante di apparire; che si concluda qualcosa nello stesso istante della sua schiusa e che mi si confermi ancora una volta spasmo d'ombra nel buio contento e disciplinato di sempre, voluta nuda di fumo. Favorendo nel tempo un processo irreversibile, quello ove si forma in embrione un primo corrosivo bilancio, una prima flebile linea risentimentale, verso quello che non mi è accaduto, che non è stato favorito, incoraggiato, amato, nonostante. Ma è dentro questo nonostante che comincia un'altra attesa. Perché mai non dovrei aspettare? Per quale motivo qualcosa che non è ancora stato, dovrebbe già esserci e saziarmi?
Tra l'altro, mi chiedo spesso che cosa potrei mai trovare oltre questo spazio aperto di cose più o meno attese, che poi non accadono; di gesti creativi erompenti e sinceri che non si compiono, ma che rimangono fermi in un flusso caotico e immane, fatto di cose inventate, proposte, amate ma poi non più state. Forse un deserto ancora più grande, di cose successe e di attese laceranti e interrotte. L'assenza di un'attesa, potrei raccontarmi, potrebbe essere un cratere ancora più grande, la fine ufficiale del mio demanio. L'inizio della noia, dell'insonnia e della nostalgia.
Ma dentro quest'attesa, mi dico ancora, proprio adesso mentre scrivo (scrivo e dico di me, cose che forse non avrei mai dette se non scritte) esiste comunque un senso, un certo compimento di quello che sono e non sono mentre lo faccio, mentre lo spero e lo sogno. Una funzione misteriosa, come la stessa resistenza a sentirmi rettile di me stesso, nella pietra di questo tempo assolato che lascia attendere, ma che poi ha sempre troppa fretta. Ritrovarsi sempre nello stesso scorcio, con le stesse luci, le stesse ombre, le stesse curve, le stesse visuali e inclinazioni di sempre, nonostante apra le fauci a qualcosa che sento nuovo e possibile.
Eppure rimango vivo e in guardia, con il polso astuto che cattura quello che spargo di me, giusto il tempo per fissarlo e per esercitarmi alla sconfitta di tanto aspettare così maldestro, disperando che qualcosa in qualche modo si stanchi di me e mi renda paziente e forse, solo attraverso questa pazienza infinita, migliore, di come non sarei mai stato.
Sarà questo, immagino, il senso di tutto, la mia possibile consolazione. Non tanto che qualcosa in qualche modo avvenga; ma, che solo nella pazienza e destrezza del suo non accadere e trasformarmi, si accorga un bel giorno di me e mi rapini.
2 commenti:
Magnifica riflessione, scritta e dipinta con la maestria di sempre.
Eletta Senso
Ciao e grazie della visita.
Ho scritto e detto, un po' per ingannare il tempo delle attese e intanto, grazie al tuo commento, si è rotto anche il loro silenzio.
In gamba e una buona serata.
l.s.
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