mercoledì 30 settembre 2015

Giorgio Saviane. Una prima edizione autografata





È nella stessa casa delle vacanze, quella dove incontrai Ceronetti con i suoi "Pensieri del tè", che ho scoperto di essere in possesso, immagino tramite un omaggio di mio nonno a mio padre, di una prima edizione Rizzoli autografata, del 1989, del libro di Giorgio Saviane "Diario intimo di un cattivo". Il prezzo dell'epoca era di L.25.000.
Questo libro, una raccolta mirabile di racconti, è dedicato dallo scrittore a una persona che non conosco,  che immagino avrà attraversato in qualche modo la scia di vita di qualche mio familiare, per ritrovarsi da tempo in quella casa, sempre la stessa, ma non più fredda quando vi ho letto l'intera raccolta – questo meno di due mesi fa.
Ecco la pagina interessata dalla dedica originale dell'autore:





















martedì 29 settembre 2015

Al sole delle cinque passate


Il sole ancora slitta sulla tangenziale. Il sole delle cinque del pomeriggio passate, che sa di bruciato e d'autunno. E dentro questo scintillio ripenso al bisbiglio, dove è barricato il mio vedere, il mio serbare di polvere e poi il confidare, come ogni tanto accade in questo blog.
Mi dico sempre: dici poco, ma quello che conta. Quello che credi possa servire. Così come mi dicevo: compra poco, quando si trattava di dischi in vinile, di cose che mi appassionavano o di uccellini.
E intanto si ricade sempre nella trappola. Basta quello scintillio d'autunno, sulla tangenziale, che comincia a girare questa ruota, che alla fine porta solo a un intruglio, una serie di piccoli frammenti di vero o solo di una verità pensata, contraddetta, sfiorata, e quindi alterata, ma che in questo momento è parte della mia vita, come quell'ultimo slancio di sole, che quando metterò il punto a questo post, probabile che sarà già svanito. Eppure riaccade la finzione, anche nel getto spontaneo, di considerare urgente l'impulso, la scossa che porta ad aprire una frase, a coordinarla ed elaborarla verso un senso, che forse non ha e che non avrà mai: eppure, in questo momento, questo gioco di frasi è la mia vita. Perché negarla. Forse, potrebbe avere una confezione diversa, per gli assaggiatori di caffè, che hanno bisogno di quell'aroma, della speciale canna da zucchero per accostarsi ad una tazzina.
Il mio intruglio non avrà mai standard e nemmeno volontà di piacere. Non credo che dietro il gesto vi sia soltanto la volontà di essere degustati. Sarebbe un suicidio. Immaginarsi in gara con tutti gli aromi e i gusti del mondo. Quelli più variegati, ma anche quelli meglio controllati, elaborati, confezionati. Che senso avrebbe esprimersi per raggiungere e tentare un approdo diretto e semmai strategico con un mondo ricettivo unico, standardizzato? Il mio gesto di questo attimo, la mia costruzione di questo momento, è già la mia vita che parla e che passa, e questo ormai mi basta. Non me lo faccio bastare, ma mi basta. Mi basta questo silenzio, che solo le mie dita riescono a infrangere, forse in competizione con una macchina per cucire, che lavora giusto sopra la mia testa, dal piano di sopra. Credo che l'operazione di chi sta utilizzando la macchina per cucire, in questo momento, sia molto più sensata del mio intruglio di frasi e di pensieri. Avrà certo una funzione, che al momento questo mio tempo, impiegato e dedicato con tutta la mia concentrazione disponibile, non credo che mi ripagherà mai. Ma anche in questo non essere ripagati,  vi ritrovo lo stesso una parte preziosa della mia vita. Quella di quest'attimo, per esempio. L'unica consolazione è che adesso, che sto concludendo, è rimasto ancora del sole sulla tangenziale. Lo stesso scintillio dell'inizio. Quello delle cinque passate, che sa di bruciato e di autunno, quanto lo scherzaccio di questi miei pensieri, barricati nel bisbiglio a cui ripenso ancora, mentre cucio a mano il mio vedere, il mio serbare o confidare nel pomeriggio, come ogni tanto accade in questo blog.


















Scoprendo i pensieri del tè




Ho scoperto Guido Ceronetti con questo testo del 1987, che reputo davvero affascinante, quanto misterioso: "Pensieri del tè".
Lo trovai per caso, diversi anni fa, in una casa fredda, quella delle vacanze, ma in un periodo dove non c'erano le vacanze. E dentro quel freddo cominciai a scoprire quella complessità, quei nessi duttili e controversi che avvolgevano e distanziavano le situazioni, le persone, la Storia, le cose e le ombre delle cose, in un solo flusso aforismatico e irresistibile, dove ogni tanto sento il bisogno di riaffondare, per gustare lo stesso tepore di quel primo giorno di precipizio, in quella casa fredda fuori stagione. Per destarmi e impigliarmi dentro la manica di quell'incontro. Nel gelo virtuoso di quel primo approdo.

Qualche passaggio, ma giusto un paio di graffi:

"Le foglie stanno volando via dal mondo e sopra c'erano dei messaggi, degli enigmi che non abbiamo decifrato. Anche le mani: lette poco; anche le rughe, i lobi...Non abbiamo letto che dei libri".

"Massima teresiana per vivere bene: Mal dormir, todo trabajo, todo cruz. Ci si sente subito meglio".

"Un vecchio che non prega è un puro e semplice rottame muto".






























sabato 26 settembre 2015

Verso l'Irpinia


Questa mattina, tra meno di un'ora, partirò, insieme a Fabrizio Fiore e Maddelisa Polizzi, collaboratori e amici di Nocte film, per raggiungere un paesino dell'alta Irpinia: Conza della Campania, dove saremo ospiti della presidente della Pro Loco Compsa, Antonia Petrozzino. 
Il senso di questa prima andata e sopralluogo rappresenta un primo passo importante per un nuovo progetto che ho scritto da qualche mese, – dopo una profonda incubazione di molti anni – e che ho in animo di sviluppare e di realizzare. Il progetto è incentrato  e strutturato esattamente su quel territorio, sulla sua anima profonda e sulla sua storia. Il suo titolo è "L'ultimo lume".



























venerdì 25 settembre 2015

"Bang" in rassegna stampa Ortigia Film Festival 2015
































L'aria della costruzione di un discorso


L'aria della costruzione di un discorso, mi risuona  quasi sempre sismica. Dal cielo pesante, dalle tinte forti, sferzanti di lampeggi continui. Verso sera quel rosso pare attenuarsi e svilire nel temporalesco. Un costante gelo che spezza il braccio. Il braccio spezzato continua a costruire un discorso. Se non fosse spezzato quel braccio, non avrei mai un discorso integro, organico o quanto meno rappresentativo del mio sguardo, del mio orientamento naturale sulle cose.
Quando entro in un discorso, in un progetto, che rimane sempre un discorso aperto o suo frammento, avverto questo clima costante di presagio e di pericolo, che in fondo rimane la mia unica ricchezza; in diversi casi il bagliore di una mia identità, il mio unico calco, la mia essenza o stesura. Nella costruzione e dentro quest'impeto che si divincola nelle sue difficili atmosfere, riconosco il senso e la freschezza del viaggio. La sua parte più autentica e franca, quella che non sarà mai condizionata da un dissenso o da un assenso. Da una forma di ascolto raffinata e intensa, o dalla più totale – e così familiare – indifferenza. Il percorso profondo e tremendo della costruzione, semmai anche sofferta, di un certo discorso, è tutto quello che conta. L'inadeguatezza, la soddisfazione, le paure e le consolazioni improvvise, il disorientamento e l'improvvisa svolta verso casa, – che invece è solo la porta socchiusa verso un bosco stregato – in fondo sono la reale vita che mi accade, quella preziosa e indimenticabile di quei momenti. Tutto quello che ho e che mi racconta.
È anche per questo che l'aria sismica della costruzione di un discorso, nella quale mi adopero e mi spezzo le spalle e il braccio della mano che scrive, (combattendo con i suoi raggiri, i suoi stipiti ventilati, le sue trappole segrete), rimane il centro tonale del discorso, il suo unico cuore. La parte centrale e battente, quella del cantiere aperto, in fondo, l'epicentro di tutto il mio moto; attraverso ogni passo silenzioso e duro nei meandri di questa misteriosa costruzione aperta, dove in quel momento convoglia e si ripone tutto il mio sentito, come il mio empirismo d'ignoto.













mercoledì 23 settembre 2015

"Paese" di Alfonso Gatto




In questo suggestivo "Paese", estratto dalla raccolta "Isola"(1929-1932), si addensano nei tratti parti sensibili e acute del mistero e delle prime sonorità della poetica di Gatto. Delle pennellate morbide, senza la necessità del verso, ripongono ogni quadro estetico nella sua piccola anfora, dritte al proprio rogo sentimentale di appartenenza, verso una comune luce e verità poetica. Tutto un fluire armonico di sensazioni, bagliori, palpiti, massaggi, profumi e abbondanze, che si dipingono e si riversano da soli nella continuità di un'incessante policromia. Ma da notare anche quanto tutto sia chiaro, stabile, rotondo. Le parole si succedono in una limpidezza elementare e inebriante.

Paese

Nella notte d'inverno i bambini piangono, cacciati nelle tasche dei briganti. In un magazzino fumoso i cuochi allegri battono i mestoli sulle caldaie, ed i parrucchieri arruffano di crema il volto alle smorfiose. Nella caserma rotolano le botti. Il maresciallo bacia sul volto i carrettieri allibiti. Le donne si calano nelle brache enormi e s'addormentano sazie tra le mammelle.

Alfonso Gatto da "Isola" (1929-1932)


















martedì 22 settembre 2015

Ricordandomi di Azzurra


Qualche anno fa, mentre correvo in un parco, mi accorsi di un uccellino domestico che era fuggito da qualche gabbia dei paraggi e si slanciava in diverse pose tra i rami più alti degli alberi. Uno spruzzo, che ogni tanto esplodeva dal verde, poi riaffondava in qualche zona d'ombra, poi, al prossimo giro, si riaffacciava. Un uccellino variopinto e caparbio. Un piumaggio dal fondo bianco gessato ma dalle screziature azzurrine, molto probabile un pappagallino ondulato, una specie alata domestica molto comune e apprezzata per i colori del piumaggio, oltre che per il perfetto adattamento alla vita in gabbia come uccelletto ornamentale. Una specie comunque estranea ai frequentatori volatili autoctoni del parco, che brindava a quella sua avventura con il suo volo sgargiante, come una fiammata da un ultimo ciocco. Eppure, in quel mattino nel parco, quella sua voragine di libertà era un suo colore aggiunto, un nuovo ornamento d'impeto al suo sfondo così composto e pulito; una nota vitale di buon disordine. Era molto tenace l'uccellino australiano, pur non essendo menzionato dagli esperti come un gran volatore, e cercava di godersi quella strana pace, che probabilmente,  – se si fosse stancato e qualche essere umano non lo avesse accudito prima dell'arrivo di un gatto – sarebbe stata eterna. Eppure in quell'inconsapevolezza di quello che mai sarebbe stato o non stato, il volo da stordimento di quell'uccellino senza direzioni e criteri, spalancava un abisso di vita nel parco, che prima di quel mattino non avevo mai percepito così sferzante. Adesso vedevo i contorni degli alberi e delle cose intorno, in modo più concreto e pulsante, solo per la presenza di un piccolo evaso, che ne coglieva, con il suo capriccio esotico e clandestino, la ragione di eternità, la geometria di un abisso insondabile, mai provato o solo immaginato, se non forse in un sogno dalle sue vecchie grate. 
Non ho più saputo nulla di cosa sarà mai stato di quell'uccellino. Era troppo in alto per essere recuperato. Intanto quel suo pugno vitale di bianco illegittimo sparso di azzurro mi è rimasto nel cuore. Tra l'altro mi ricordava gli stessi colori di una pappagallina, che ha accompagnato molti anni della mia vita, fin dalla mia infanzia. Si chiamava Azzurra, appunto per una strisciolina di azzurro al centro del petto, contro un piumaggio immacolato e perfetto, intatto. L'abbiamo allevata per moltissimi anni; anche lei era evasa da un'altra gabbia di chissà dove e capitata un bel mattino nel nostro balcone. E forse, quella sorta di spettro che fece capolino dai rami fitti degli alberi del parco quel mattino, era una sorta di scherzo, forse la follia di un suo ritorno improvviso, a dirmi in qualche modo che la vita, anche solo quel suo attimo, può avere un senso, una ragione, una continuità e un suo nesso armonico pur nella dissonanza e nell'incompatibilità del tempo passato e dei suoi dolori. Proprio come quel ricordo, quello che l'uccellino fuggito evocò dell'altro, e anche questo stesso, che mi ha impegnato nello scrivere questo post, titolandolo tra l'altro come omaggio a un uccellino della mia infanzia e al suo inatteso e misterioso arrivo e ritorno, combinato per una semplice corsa in un parco alberato, nella mia vita.















venerdì 18 settembre 2015

Luci dalla notte


"Chiunque vorrà imparare l'amore, rimarrà sempre uno scolaro".
Thomas Bernhard































martedì 15 settembre 2015

Webern - Passacaglia

































lunedì 14 settembre 2015

"La città vuota - Out of the blue". Il nuovo sito del progetto


Ecco il nuovo assetto de "La città vuota (Out of the blue)", progetto che dopo un lungo periodo di sospensione ritorna a vivere.
"La città vuota", che nasce da un'idea e da un sogno di Fabrizio Fiore, da qualche giorno ha già il suo nuovo sito ufficiale, dove si concentreranno tutte le più significative dinamiche di questa interessante ripresa.
Al suo interno si potranno esplorare i volti e i nomi degli attuali componenti del cast tecnico e artistico, ancora in formazione. Tastare il polso a tutti i piccoli e sostanziali mutamenti che attraverseranno le tappe delicate di questo viaggio.
"La città vuota" stavolta vive e si sviluppa sotto l'etichetta di cinema indipendente Nocte film




























sabato 12 settembre 2015

Scorrendo nel buio


Lasciando scorrere i pensieri nel buio. La rotazione della roulette, fino a quando non si rallenta verso un numero e quel colore preciso, segnato dalla pallina nel suo nido. Così una parola si posa, una dopo l'altra, verso un pensiero, che porta verso un luogo vicino, familiare, che di colpo si fa lontano, misterioso, ignoto.
A quest'ora la campagna è al buio. Potrei coglierne ogni fruscio se solo mi spostassi verso la finestra aperta; ma ne rimango distante, caparbio e prudente in questo calarmi nella mia roulette. Un  altro lancio, un altro numero, un altro colore diverso. E scorre con il pensare parole la vita con il suo tempo esploso, che mai definisce e rincuora o verifica, ma segna distanze, confini, battiti, scadenze. Il mare di quello che si ha da dire, la sua profondità alla quale si soccombe.
Scrivere dove non si tocca. In un largo azzurro di acciaio, gelido, dove il viola di un cielo indiano si restringe e si abbassa sempre di più sulle acque di questa notte, come un soffitto truccato di una casa dei fantasmi. Intanto l'occupazione di questo tempo si fa più incerta, insensata, atonale. Trovare un senso preciso, durante il corso di un pensiero fantasma, diventa sempre più difficile, complesso. In questo strano ufficio espressivo, la problematica fondamentale riguarda il ruolo dei pensieri in una certa orbita tonale, ancora sconosciuta alla mia vita di questo momento. Il loro ordine, la loro funzione. Non posso gestire in partenza un'economia mentre fisso sulla carta l'immagine del mio spettro. Come questo abbiare insistente, che da più di un minuto sta accompagnando il mio scrivere. Un abbaiare insonne, doloroso, che delimita gli spazi come una scala pentatonica. Lo vedo, adesso, questo abbiare. Lo avverto così pensante, ingegnoso di un suo dolore di caccia, fremito o tormento di fronda: da una gola umana potrebbe uscire qualcosa di simile, un graffio. Così dal fruscio di questo pensare strisciante, che conduce e non concede limiti, spazi, rivalse. Scrivendo questo flusso avviluppa e disertano le volontà primarie. Da lontano, adesso che l'abbiare ha smesso, si staglia un televisore. Poi qualcosa di lontano. Un silenzio. Un silenzio è sempre qualcosa di molto lontano e inesploso. Il pensiero molte volte rompe il silenzio, come un ordigno ma poi, a volte, lo diventa. Il silenzio ha sempre una dinamica spaziale che verifica la quantità d'aria per tacere. Un tacere profondo ha bisogno di spazio, di uno spazio sovrumano, sconfinato. Immenso, il tacere. Il tacere scrivendo parole o pensieri, o frasi che non abbiano a che vedere con parole o con pensieri. Esistono cose scritte che hanno un'origine diversa da altre. Alcuni scritti sono così perfetti, fliuidi e silenziosi da non sapere più di parole, ma di altro. Di luci, per esempio. Le luci di una sera, durante una passeggiata, semmai una passeggiata in pochi, insomma queste luci possono essere molto più importanti di qualsiasi linguaggio cifrato, scritto o parlato. Le luci hanno una grammatica profonda delle atmosfere. Rodono  la materia e consentono squarci di freddo, di un gelo infinito di perfezione, abbagliante e invernale. Le luci possono sorprendere l'analfabeta allo stesso modo della persona istruita. Le parole lo possono in modo diverso, più tortuoso e incerto. Anche il silenzio, come le luci, consente una grammatica profonda delle atmosfere come delle tenebre. Il silenzio stuzzica e addomestica masse, abbracciando nell'abisso del suo effetto sia l'analfabeta che la persona istruita. Le parole si muovono in modo diverso, nella logica contorta dell'ordigno e del peso che incamerano. Dovrebbero orientarsi nella loro estensione, allo stesso modo di come le luci  e il silenzio riescono nell'opera profonda di incantamento, durante la loro presenza in uno spazio vitale. Le parole possono molto durante la loro assenza. Un attimo dopo la loro sparizione, si dicono meglio nel loro sfumare. Hanno bisogno di un'eco, di un riflesso che le giustichi, rendendole più universalmente silenziose di luci o luminose di silenzio. La strumentazione giusta per organizzare una buona comunicazione, sono convinto che debba travalicare e trasgredire i confini imposti dalle scuole di turno. La parola deve morire, sfumare; farsi luce, suono e assenza di suono. Il silenzio è perfetto. La parola non ha ancora la perfezione del silenzio. Il silenzio è legato alle campagne aperte, la parola stuzzica il boato industriale. Quando si muove e si riaccorda, a volte scuote di sbarre, di crepuscoli in fiamme, troppo suono ancora. Il volume e l'intensità. Una parola che possa raccordarsi ad un nesso che sia limpido, coerente, intimo, dovrebbe prediligere l'intensità al volume. Abbassare sempre la voce, scrivendo. Ma anche la luce. Una candela, ogni parola. Una candela nella notte. Nel silenzio. Questo punto è una porta sul buio. Ogni punto, ogni cesura, è una porta chiusa. Poi anche a chiave. Lo scatto fobico della serratura. E intanto continuo a non pensare a quello che scrivo e a vedere il risultato di questo mio non pensiero sfociato in parole. Quale la distinzione, nell'effetto, delle parole scritte da pensate a quelle scritte senza pensarle? O forse senza sapere di averle pensate. Nessuna parola sarà mai esente dal processo pensieroso, dal suo rumore tipico. Solo una luce può rimanerne esente. Il silenzio sarà sempre la schiena nuda del suono. La parola, invece, la schiena rotta del silenzio. E dentro il silenzio, a cui la parola spezza le spalle, di continuo, vorrei ricomporre tutto questo flusso, da capo, per sondarne l'effetto, la sua notte.
Ma si sta facendo tardi. Adesso i miei pensieri cambiano clima e latitudine. Sono sintonizzati al rumore delle auto, che si allontanano. L'altra notte, invece,  al vociare di una processione, di un gruppo di fedeli appassionati che percorrevano una strada a piedi verso la montagna, con lentezza. Li sentivo, nella notte, proseguire e cantare qualcosa tra i denti. Avrei voluto uscire fuori a guardare, ma sono rimasto fermo, intorpidito dentro le lenzuola, nel mio letto. Qualche istante di paura; di lieve disperazione. Aspettando che quei suoni delicati e profondi si facessero sempre più lontani, fino a svanire, come ultime luci sull'acqua alta. Come quest'ultimo pensiero, che sono costretto a spezzare con un punto, con una porta sul buio, da chiudere a chiave. Così.
































giovedì 10 settembre 2015

Un fulgore che acceca




Proprio come questo libro, da cui condivido un estratto: "Emily L." di Marguerite Duras.
Un lavoro di una bellezza esemplare, limpido, poetico, tagliente. Pervaso da una linearità che si avverte ma che non si vede troppo, che è fatta di aria e non sa mai di peso. Non costringe il periodare, ma lo libera nella sua luce.
Ne condivido un minimo tratto, che basta comunque a testimoniarlo, da un suo frammento all'armonia e alla spaziosità del suo insieme:

–  Essere uno scrittore significa non saperlo.

– No, non basta, ma si dice così spesso che ci dev'essere qualcosa di vero. Scrivere, è anche non sapere quello che si fa, essere incapaci di giudicarlo, sì, vi è certamente un po' di questo nello scrittore, un fulgore che acceca. E poi c'è anche il fatto che è un lavoro che richiede molto tempo, molta fatica, anche questo è affascinante. È una delle pochissime occupazioni ancora interessanti. E potremmo fermarci qui.















venerdì 4 settembre 2015

Attese


Il grosso di quello che si cerca esprimendosi, la parte più preziosa del suo meglio, si conserva e si macera nelle attese. Attese eterne, cristalline, infinite. Ma di cosa? Anche l'apertura del portatile, il collegamento, è fatto di attese. Di un suono, riconoscibile, che arrivi solo da un certo luogo, da una fonte eletta, primaria, a consolare. Di un messaggio importante, che non sia una seccatura. Di una bella notizia, di un commento a un post, come di un articolo interessante o di una cavolata.
Non credo che si sarà mai davvero sazi, oltre questa sospensione che da un fare, da un proporre, da un lanciarsi, attende la curva possibile di un'eco, l'inizio anche spezzato di una risposta.
Sono abituato al silenzio. Forse il silenzio è una parte matura del mio pormi, del mio sentire e accomodarmi nelle cose; o forse la conseguenza di antiche ritrosie, ripensamenti, inabilità, torti e offese mortali. Eppure, gran parte dei miei percorsi, delle cose in cui credo e che tento di portare avanti e di condividere, sono fatte di queste costellazioni struggenti di attese, di questa luminescenza insidiosa di spazi vuoti, dove potrebbe insinuarsi sempre qualcosa, che però si prende sempre tempo e rimane dentro il suo altrove, come un uccello caldo di febbre sulle sue uova. Il fuso dell'attesa credo che sia una condizione, uno stato specifico dell'essere, non più uno stadio. Uno stadio avanza, matura, ha le sue possibili dinamiche, diramazioni e reazioni; uno stato invece è spesso qualcosa di genetico, di compiuto se non di innato. Di fermo e di incastonato nella sua essenza elettiva. Per cui immagino cosa potrebbe mai accadermi se tutte le attese in cui mi macero rimanessero così – come quasi sempre avviene –, intatte, con il loro vuoto genetico, la loro perfezione silenziosa e abbagliante, la loro matematica e simmetria. Quanto di quello che potrei ancora proporre, organizzare, inventare, sarà condizionato dalla dilatazione di questo spazio regale di assenza, di inesistenza, dove sembra che si sfumi nello stesso istante di apparire; che si concluda qualcosa nello stesso istante della sua schiusa e che mi si confermi ancora una volta spasmo d'ombra nel buio contento e disciplinato di sempre, voluta nuda di fumo. Favorendo nel tempo un processo irreversibile, quello ove si forma in embrione un primo corrosivo bilancio, una prima flebile linea risentimentale, verso quello che non mi è accaduto, che non è stato favorito, incoraggiato, amato, nonostante. Ma è dentro questo nonostante che comincia un'altra attesa. Perché mai non dovrei aspettare? Per quale motivo qualcosa che non è ancora stato, dovrebbe già esserci e saziarmi? 
Tra l'altro, mi chiedo spesso che cosa potrei mai trovare oltre questo spazio aperto di cose  più o meno attese, che poi non accadono; di gesti creativi erompenti e sinceri che non si compiono, ma che rimangono fermi in un flusso caotico e immane, fatto di cose inventate, proposte, amate ma poi non più state. Forse un deserto ancora più grande, di cose successe e di attese laceranti e interrotte. L'assenza di un'attesa, potrei raccontarmi, potrebbe essere un cratere ancora più grande, la fine ufficiale del mio demanio. L'inizio della noia, dell'insonnia e della nostalgia.
Ma dentro quest'attesa, mi dico ancora, proprio adesso mentre scrivo (scrivo e dico di me, cose che forse non avrei mai dette se non scritte) esiste comunque un senso, un certo compimento di quello che sono e non sono mentre lo faccio, mentre lo spero e lo sogno. Una funzione misteriosa, come la stessa resistenza a sentirmi rettile di me stesso, nella pietra di questo tempo assolato che lascia attendere, ma che poi ha sempre troppa fretta. Ritrovarsi sempre nello stesso scorcio, con le stesse luci, le stesse ombre, le stesse curve, le stesse visuali e inclinazioni di sempre, nonostante apra le fauci a qualcosa che sento nuovo e possibile.
Eppure rimango vivo e in guardia, con il polso astuto che cattura quello che spargo di me, giusto il tempo per fissarlo e per esercitarmi alla sconfitta di tanto aspettare così maldestro, disperando che qualcosa in qualche modo si stanchi di me e mi renda paziente e forse, solo attraverso questa pazienza infinita, migliore, di come non sarei mai stato.
Sarà questo, immagino, il senso di tutto, la mia possibile consolazione. Non tanto che qualcosa in qualche modo avvenga; ma, che solo nella pazienza e destrezza del suo non accadere e trasformarmi, si accorga un bel giorno di me e mi rapini.
































martedì 1 settembre 2015

Bang! ad Arterie: rassegna di ipotesi espressive 2015



Cominciando il mese di settembre con una data e una rassegna molto particolare: un altro appuntamento importante quanto suggestivo per il progetto "Bang!"
Si tratta dell'edizione 2015 della rassegna Arterie, organizzata nel centro storico di Cantalupo in Sabina. All'interno della rassegna il nostro film sarà in proiezione nel Percorso Cinema, sabato 5 settembre, dalle ore 21.00.
Una magnifica opportunità di condivisione e di arricchimento, che ancora una volta ci onora e ci gratifica moltissimo.