Nell'esplorazione di un proprio personale linguaggio, che sia depositario di uno spasmo espressivo, incontenibile, si nasconde in diversi casi la tenia di un certo compiacimento al dire per il solo dire e quindi tradire lo stimolo originario e puro di quell'espressione, relegandolo a solo atto autoreferenziale, spesso smosso da impulsi fiacchi, pretestuosi, vacillanti, meccanici e celebrativi se non competitivi.
Il modo di dire, o meglio il nodo e lo snodo catatonico di dire ancora, dovrebbe convivere con la possibilità di questo costante tradirsi e tradire, spesso un tradimento senza architetture, ma sragionato e originato dalla stessa patina di fedeltà a un proprio falso arsenale-ideale espressivo, al quale si è relati per noia mortale o per semplice vezzo metaadolescenziale, orchestrato come gesto ribelle e dispettoso a una saggia poetica del silenzio.
Dire sarà ancora tradire, lo avverto, quando rileggo le dinamiche che mi portano a scegliere una certa strada. Quanto sia davvero indispensabile quel certo percorso, forse utopico, rispetto a tanto altro che ho accantonato? La tenia disturba la pace instabile del flusso, spesso con riflessi variegati, in altri casi smuovendo l'acqua con un polso tenace che cerca e succhia il liscio dei sassi, nel letto del fiumiciattolo, spaventando a morte la povera trota.
La strada maestra è intrisa di infinite solitudini, di pazzia e di inesattezza. Non sarò mai così esatto, se il mio linguaggio fasullo spesso diventa un vestito nero cortissimo, un richiamo, la coda del pavone, il rosso della Ferrari o del mestruo, il culo morbido che sconfina e zampilla da un pantaloncino corto, la gentilezza fascista del rasoio, la mollica dura del pugnale, la voracità di un topo bianco, che divora un cuore e lo smozzica dalle sbarre azzurre di uno sterno umano. L'esattezza opaca di un procedimento non risponde a calcoli troppo ortodossi, ma si evolve in un fluire ammaliato di regolette diverse e di medicine, che diventano armoniche nella loro purezza di regime e fanciullezza anarchica. Esiste un'etica sobria del dire e dell'esprimersi a patto che si abbandoni la certezza della propria voce bianca, il tono lupo del canto noto o cantus firmus, su cui disciplinare, come piccoli chimici, il paradiso perduto di un cataclisma artefatto, dove nemmeno il fumo ha più un odore, ma è solo patina di un disegno sbiadito, successione barocca di cluster e di tritoni ostinati, diabolici e infetti, intrisi di muco e di miele di castagno.
Se invece avverto disgusto, un disgusto raggelante e diffuso per tutto quello che cedo e che vedo, che sento, che incontro, ho già tradito, non appena occupo uno spazio bianco dove cominciare a dire qualcosa, ho già tradito, ancora prima di tracciare con la punta di un dito o di un cucchiaino la mia sola intenzione e costruzione di parola, che è già incubata e originata disonesta. Quel profondo disgusto sarà edulcorato da una mia certa costrizione contratta, che non potrà mai raggiungere la schiuma vorace dello sputo, la rogna sarcoptica tra i brandelli sparsi di questo tempo claustrovisivo, ostile e arido di clausure, di gabbie zincate, di sordità, ma solo una sua lieve penombra mediterranea, costellata da tumuli di sdraio a righe colorate e musiche atroci da film.
Una dedizione della parola scritta, è forse la possibilità di elidere o eludere la sorveglianza del tradire nel dire, perché in una dedica cerchi di recuperare la generosità del gesto, contro la logica asettica del mero compiacimento, o flutter atriale del solo getto infiammato e contento. Scrivere per qualcuno che me lo chiede, per esempio, come qualcuno a cui viene chiesta la cortesia di una commissione, e che ritorna con una busta colma di pane, che morde a sbafo dalla punta dorata, poco prima di salire le scale bagnate, senza ritegno, contegno né appetito.
Per dire qualcosa di mio, dovrei solo dimenticarlo, ucciderlo, scalfirlo e sacrificarlo, quindi dedicarlo. Ma non tradirlo nel dirlo.
Tacerlo, forse. Sarebbe l'unico svincolo di purezza. Per il suo bene, mai per il suo meglio.
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