Ogni nuovo passo avverto di essere artefice felice di una rovina. Non sempre identificabile in un piano preciso, se sia lessicale, di struttura o legata ad altri aspetti del mio linguaggio, ma avverto che esiste qualcuno che nel momento in cui scrivo starà torcendo già il muso, posando gli occhiali sul tavolo e passandosi le due mani sugli occhi, come quando lava il viso al mattino. Potrei essere anche io.
Avverto che il testimone fantasma e purificante della mia rovina è parte stessa e attiva della rovina, della stessa voglia di creare nelle macerie di quello che starò distruggendo, contro l'esplosione dei vetri in ogni stanza appena affrescata, delle fiammate che dal camino mangiano la mia vita; questo negli occhi di questa testimonianza silente quanto invasiva in cui rimango vivo e illeso, quanto in eterna disillusione discussione con me stesso.
Ma sono anche certo che se scrivessi come lui vorrebbe e come forse non so, – perché è raro e difficile che mi venga detto quello che si vorrebbe, ma solo dell'effetto gravoso della mia rovina –, sarebbe ancora lo stesso, una rovina diversa, con altri calcinacci, altri feriti, ma lo stesso sconcerto, forse con lo stesso testimone o con un altro di turno.
Bisogna spegnersi per accontentare e accontentarsi, spegnere la luce, sorridere e addormentarsi con lo stesso sorriso felice di chi si cullerà del mio silenzio, della mia rinuncia a rovinare e a non fare come forse non si deve. La testimonianza della mia rovina è l'unico movente per riprendere il fiato e il capo del filo, già domattina, e continuare a sbaragliare e fare polvere, sicuro che qualsiasi cosa in certi contesti fa polvere, che sia marmo, talco, o farina, sarebbe lo stesso.
Raccontare di qualcosa che preme e che sento vuol dire creare e sperdermi in un divertimento feroce, una manata di crema sulla natica di chi si affaccia e non mi vede; in senso stretto e letterale è anche uno scavo tragico e non proprio qualcosa di tanto ilare. E dentro lo squarcio del crollo persisto e sorrido.
Da solo.
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