I
Stanza nuda. Poca luce da un finestrino. Un uomo è su di una sedia, ben distante dal tavolo. La donna poco più indietro, ma in piedi. È più vicina al tavolo. La donna è sua sorella.
Stanza nuda. Poca luce da un finestrino. Un uomo è su di una sedia, ben distante dal tavolo. La donna poco più indietro, ma in piedi. È più vicina al tavolo. La donna è sua sorella.
"Sei ritornato ieri sera, e ancora non dici niente".
L'uomo, fratello della donna, non fa che fissare lo stesso punto del tavolo. Un punto centrale, dove stacca un grappolo di frutta finta sulla distesa del marmo grigio. Ci sono mele, arance, ciliege e fichi.
I fichi finti sono quelli viola, quasi neri. Hanno poco di verde. Sono di un livido notturno e di gas. Lo stesso sguardo dell'uomo. Il suo nome è Paul. Il suo viso ha le stesse tinte del tavolo e sotto gli occhi delle lunghe borse profonde, della stessa cromìa dei fichi finti. Sono fatti così bene quei fichi finti. Sembrano veri e viola, come i fichi veri e come il dolore che nutre il suo sguardo basso e quel loro incontro. Quello di Paul. Sua sorella sposta gli occhi alla frutta, come per rincorrere e accalappiare qualcosa, da quell'istante gravoso di silenzio al suo vuoto d'aria.
Quel silenzio pesa, più della penombra, più del suo divorzio, del suo primo aborto, della sua solitudine, ancora così giovane ma già così vorace. Il suo grande rampicante, la sua solitudine. Quella che stacca sui muri e di solito, come l'edera, attira i topi, anche quelli snelli, con le loro acrobazie. La sorella si chiama Olivia, come l'attrice di Grease. Guarda la frutta e segue gli occhi e il buio di Paul. Poi ritorna sopra, alle sue borse e alle sue occhiaie.
"Non mi dici ancora niente. Così mi fai stare male. Abbiamo mangiato e bevuto, hai avuto tutto il tempo per stare un po' per conto tuo. Nemmeno un bacio. Tu sei mio fratello Paul. Mi dici che cosa ti succede?".
Lo sguardo dell'uomo è impassibile. Non ha molti anni più di Olivia, ma in quel momento sembra suo padre.
"Che cosa hanno detto papà e mamma? Hai cercato di spiegare quello che mi è successo? Perché non sono più andata da loro? Ti avevo pregato di dire tutto quello che non sapevano, che forse tu eri l'unico che potevi farlo, con la dovuta obiettività, perché sono certa che tu lo abbia fatto, Paul, non è vero che lo hai fatto? Almeno muovendo la testa, dimmi solo se hai cominciato a parlare con la mamma. Almeno questo. Non riesci nemmeno a fare un sì oppure un no con la testa?".
L'uomo rimane fermo. La sorella Olivia è disperata. Fuori comincia a piovere. La pioggia scende all'improvviso, fitta come un bosco di spilli argentati.
II
Passa il tempo e scende la pioggia. Rimangono ad ascoltarla, come se forse li calmasse o come se fosse fatta di parole umane. A volte la pioggia è fatta delle parole umane troppo sottili o pericolose da doversi dire. È un filtro, una balia. Ma parla.
Paul si alza e si avvicina al flebile punto del finestrino dove filtra la luce. L'unico punto di luce nell'antro. Cerca di guardare fuori, ma si scorge ancora molto poco. Tutto molto opaco, come il loro incontro. Olivia si spegne, sul tavolo. Prende una mela finta e la stringe nella mano, giocandoci.
Paul a quel punto comincia a parlare.
"Sono arrivato di sera tardi. Mi avevano anche aspettato per la cena. Non lo credevo. C'era il mio posto, tra loro due. Ero al posto di papà: a capotavola. Non mi è mai piaciuto stare a capotavola. Mi sembra di dover incarnare un ruolo, una posizione gerarchica sul cibo, sulle bocche, sui pensieri dei commensali. È un posto violento. Il terrritorio della tavola è violento. I bambini quando giocano a tavola sono violenti. Come lo eri anche tu, quando arrivavi trafelata e mangiavi senza guardarli e già covavi il tuo odio per loro due. Il tuo odio contro il loro amore. Che lotta impari. Ti illuminavi dentro quell'odio, come una stella. Sei stata una regina che brillava, quando eri con loro due e potevi odiarli a sazietà, al massimo delle tue possibilità. Non è stato il tempo a renderti meno bella, ma il fatto che si fosse raffreddata quella grossa sacca di odio per i nostri genitori.
Mi hanno aspettato, come due ragazzini. Si fanno sempre più piccoli, tutti e due. Fanno a gara a chi perde spazio e corpo sul mondo. Perdono gli oggetti dalle mani. Mamma è inciampata due volte, davanti a me e si arrabbia se la voglio aiutare. Dice che è colpa dei pavimenti, che è da una vita che si dovevano cambiare. Non hanno nemmeno più un buon odore, nessuno dei due. Così la loro casa è impregnata di loro, dei loro acciacchi, delle loro cattive essenze, della loro paura; di morire, per esempio. Di morire presto o prima di una grande gioia o di un diversivo. Di morire prima che la morte sia una perdita di qualcosa di vivo e di bello, e non una semplice voltata di grigi anonimi, di due giornate uguali. Cercano qualcosa di importante da perdere. Non da ricordare. Qualcosa che giustifichi il dolore di una fine. Noi due non valiamo ancora tanto, Olivia.
Il papà, soprattutto lui, si trascura parecchio. Pensa, che aveva messo anche la cravatta, con un nodo tremendo, tutto sbagliato e i bottoni della camicia erano sbagliati. Gli tremano le mani, quando prende le pillole e il bicchiere o solleva una posata. E poi quella cravatta aveva una macchia, molto visibile, almeno per i miei occhi, ma non per i loro. Anche la mamma, che un tempo era così precisa e ci teneva così tanto alla precisione, all'ordine alla pulizia, e lo tormentava, a papà, ti ricordi? Adesso è così cambiata. Aveva un vestitino molto più largo, dove si perdeva. Sembrava una bambina. Sembravi tu, Olivia, tu da piccolina. Tu, il primo giorno di scuola. Hanno preso le foto e ti ho visto. Avevo una sorellina molto ma molto carina.
Ci hai fatto sorridere quando sei comparsa tutta spaventata sul loro tavolo, come ci facesti sorridere quando venisti al mondo e io ricordavo con loro che stavo in classe, nel turno del pomeriggio, e quando arrivò in direzione la telefonata con la notizia del tuo arrivo, la maestra procurò un cartoncino rosso con una bustina, dove scrissero un messaggio di benvenuto con tutte le loro firme. In quel momento sentìi che cosa significava la felicità. Me ne accorsi nelle lacrime, senza ridere. Mi misi a ridere alla fine, quando mi presero in giro per l'emozione provata, e mi fecero l'applauso e io con la risata piangevo ancora di più. Perché sapevo che quella felicità era troppo grande e troppo breve per il mio cuore affamato di allora. Non ci si può consolare dalla felicità che finisce. Dal dolore è possibile, ma dal dolore dell'essere felici per poco, non c'è rimedio.
Con loro due ho parlato così poco di me, direi quasi niente. Sapevano che avevo fatto tutta quella strada per te, ed era vero. Ritornare in Italia, con un altro volto, altri occhi, con la barba incolta e le scarpe nuove, solo per te. Per parlare di te, e non di me. Con loro due non avevo e non ho mai avuto nulla da chiarire. È sempre stato tutto molto disteso, molto liscio e impeccabile. Troppo, forse. Li ho semplicemente ignorati, fingendo di amarli. Li ho accontentati, a mio modo. Almeno non ho dato adito a questioni, a rimorsi. È rimasto tutto insonorizzato, molto composto. Le giuste carezze alla mamma, di sera, quando le spegnevo la radio e le chiudevo gli occhiali. A tavola cercavo di distrarre papà e poi le menzogne, sempre così ben congegnate. Il fatto di aver trovato un amore così lontano, e di non poterlo portare lì da loro, perché lavorava e non poteva lasciare la città, mi giustificava. Il fatto di promettere loro dei nipoti, quando intanto erano concentrati sulla tua gravidanza, e io ero passato già nell'ombra, come adesso, che non sono nemmeno un figlio ma un semplice messo che porta le buone nuove e le novelle più varie, mi giustificava ancora di più.
Così ero seduto a capotavola, e riavvolgevo il nastro della nostra vita con loro, ma dentro di me, prima di scovare il modo per parlargli. Non sapevo come cominciare. Il fatto che tu avessi portato avanti la gravidanza, li aveva tranquillizzati. Ormai si aspettavano le foto, e non vedevano l'ora che le tirassi fuori. Sapessi quanto è stato difficile, almeno all'inizio. Sviare e parlare di altro, tentando di far dimenticare o di trovare il sistema per dire tutto, fino in fondo, come tu avresti voluto".
Mi hanno aspettato, come due ragazzini. Si fanno sempre più piccoli, tutti e due. Fanno a gara a chi perde spazio e corpo sul mondo. Perdono gli oggetti dalle mani. Mamma è inciampata due volte, davanti a me e si arrabbia se la voglio aiutare. Dice che è colpa dei pavimenti, che è da una vita che si dovevano cambiare. Non hanno nemmeno più un buon odore, nessuno dei due. Così la loro casa è impregnata di loro, dei loro acciacchi, delle loro cattive essenze, della loro paura; di morire, per esempio. Di morire presto o prima di una grande gioia o di un diversivo. Di morire prima che la morte sia una perdita di qualcosa di vivo e di bello, e non una semplice voltata di grigi anonimi, di due giornate uguali. Cercano qualcosa di importante da perdere. Non da ricordare. Qualcosa che giustifichi il dolore di una fine. Noi due non valiamo ancora tanto, Olivia.
Il papà, soprattutto lui, si trascura parecchio. Pensa, che aveva messo anche la cravatta, con un nodo tremendo, tutto sbagliato e i bottoni della camicia erano sbagliati. Gli tremano le mani, quando prende le pillole e il bicchiere o solleva una posata. E poi quella cravatta aveva una macchia, molto visibile, almeno per i miei occhi, ma non per i loro. Anche la mamma, che un tempo era così precisa e ci teneva così tanto alla precisione, all'ordine alla pulizia, e lo tormentava, a papà, ti ricordi? Adesso è così cambiata. Aveva un vestitino molto più largo, dove si perdeva. Sembrava una bambina. Sembravi tu, Olivia, tu da piccolina. Tu, il primo giorno di scuola. Hanno preso le foto e ti ho visto. Avevo una sorellina molto ma molto carina.
Ci hai fatto sorridere quando sei comparsa tutta spaventata sul loro tavolo, come ci facesti sorridere quando venisti al mondo e io ricordavo con loro che stavo in classe, nel turno del pomeriggio, e quando arrivò in direzione la telefonata con la notizia del tuo arrivo, la maestra procurò un cartoncino rosso con una bustina, dove scrissero un messaggio di benvenuto con tutte le loro firme. In quel momento sentìi che cosa significava la felicità. Me ne accorsi nelle lacrime, senza ridere. Mi misi a ridere alla fine, quando mi presero in giro per l'emozione provata, e mi fecero l'applauso e io con la risata piangevo ancora di più. Perché sapevo che quella felicità era troppo grande e troppo breve per il mio cuore affamato di allora. Non ci si può consolare dalla felicità che finisce. Dal dolore è possibile, ma dal dolore dell'essere felici per poco, non c'è rimedio.
Con loro due ho parlato così poco di me, direi quasi niente. Sapevano che avevo fatto tutta quella strada per te, ed era vero. Ritornare in Italia, con un altro volto, altri occhi, con la barba incolta e le scarpe nuove, solo per te. Per parlare di te, e non di me. Con loro due non avevo e non ho mai avuto nulla da chiarire. È sempre stato tutto molto disteso, molto liscio e impeccabile. Troppo, forse. Li ho semplicemente ignorati, fingendo di amarli. Li ho accontentati, a mio modo. Almeno non ho dato adito a questioni, a rimorsi. È rimasto tutto insonorizzato, molto composto. Le giuste carezze alla mamma, di sera, quando le spegnevo la radio e le chiudevo gli occhiali. A tavola cercavo di distrarre papà e poi le menzogne, sempre così ben congegnate. Il fatto di aver trovato un amore così lontano, e di non poterlo portare lì da loro, perché lavorava e non poteva lasciare la città, mi giustificava. Il fatto di promettere loro dei nipoti, quando intanto erano concentrati sulla tua gravidanza, e io ero passato già nell'ombra, come adesso, che non sono nemmeno un figlio ma un semplice messo che porta le buone nuove e le novelle più varie, mi giustificava ancora di più.
Così ero seduto a capotavola, e riavvolgevo il nastro della nostra vita con loro, ma dentro di me, prima di scovare il modo per parlargli. Non sapevo come cominciare. Il fatto che tu avessi portato avanti la gravidanza, li aveva tranquillizzati. Ormai si aspettavano le foto, e non vedevano l'ora che le tirassi fuori. Sapessi quanto è stato difficile, almeno all'inizio. Sviare e parlare di altro, tentando di far dimenticare o di trovare il sistema per dire tutto, fino in fondo, come tu avresti voluto".
Olivia non lo ha interrotto nemmeno per un istante. All'inizio, quando ha cominciato a parlare, si è voltata di scatto, per guardargli gli occhi e la bocca che si muovevano insieme, dopo tanto tempo. Poi continuando ad ascoltarlo, ma guardando la frutta. I fichi violetti e cupi, soprattutto quelli. Sembravano veri.
"Continua, Paul. Non ti guardo ma ti sento. Continua".
Paul prende una sedia, la scosta e se la sistema vicino ad Olivia.
"Tu come stai, adesso?".
"Non lo so. Voglio che tu continui. Ti sto ascoltando".
l.s.
l.s.
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