Conoscevo da poco il surfcasting. Era stato un caso, forse nemmeno una precisa passione perché cominciassi a praticarlo. Un regalo di compleanno, da un cugino. Un compleanno vicino all'estate potrebbe riservare regali di quel tipo, ma in fondo era la prima volta. Una canna da surfcasting. In carbonio, grigia come un cielo dublinese.
Mi esercitai diversi pomeriggi di luglio, in solitudine e senza esca, solo per imparare la direzione, il gioco del mulinello, l'arcata del braccio. Improvvisavo. Avevo acquistato anche un libro, ma inventavo i lanci di sana pianta, come figure immaginarie.
La prima volta che la inaugurai sul serio, con un'esca viva, vera e propria, fu di notte. I miei dormivano. Mia moglie si coricava presto con Valeria, stessa stanza, stesso letto. Io ero reclutato nel soggiorno.
A mia moglie piaceva scendere presto sulla spiaggia. Io fumavo sul balcone, fermo. A guardare il cielo, a pensare all'esca americana che avevo nascosto in frigo. Mia moglie Silvia non avrebbe mai tollerato dei vermi rossi e vivi, accanto alla frutta del mercato, anche se rinchiusi in un contenitore di plastica. Dovevo nasconderli per bene, altrimenti me li avrebbe buttati.
Fumavo e guardavo il cielo. La luna crescente, nel sereno notturno; il vociare dei villeggianti da un residence vicino. Si cenava all'aperto, e dalla mia casa era già tutto spento. Nel giardino di fronte si accendeva il barbecue, e i bambini correvano. Ma noi non avevamo amici. La bambina faceva vita di vacanza con la madre, senza concedersi ai coetanei. Sembravano due donne adulte. La stessa crema solare, gli stessi occhiali, gli stessi gesti, quando si pettinavano vicine e mi salutavano in coro, senza nemmeno voltarsi. Andavo a letto tardi e dormivo tutta l'estate in un'altra stanza. Nel piccolo soggiorno.
Per la mia insonnia preferivo vedere dei film fino a tardi, così mi faceva anche comodo. A volte qualche western. Poi fumavo e non chiudevo mai gli occhi prima delle due. A volte la radio nelle cuffie.
Quella notte non mi andava di andare a provare la canna di surfcasting. Ma avevo comprato l'esca; non avrei potuto nasconderla ancora per molto. Si sarebbe guastata e domani avremmo avuto ospiti. Silvia avrebbe trafficato parecchio nel frigo, dopo la spesa. Prendo la canna, l'esca, le sigarette, un golf arancione e le chiavi dell'auto.
Mi esercitai diversi pomeriggi di luglio, in solitudine e senza esca, solo per imparare la direzione, il gioco del mulinello, l'arcata del braccio. Improvvisavo. Avevo acquistato anche un libro, ma inventavo i lanci di sana pianta, come figure immaginarie.
La prima volta che la inaugurai sul serio, con un'esca viva, vera e propria, fu di notte. I miei dormivano. Mia moglie si coricava presto con Valeria, stessa stanza, stesso letto. Io ero reclutato nel soggiorno.
A mia moglie piaceva scendere presto sulla spiaggia. Io fumavo sul balcone, fermo. A guardare il cielo, a pensare all'esca americana che avevo nascosto in frigo. Mia moglie Silvia non avrebbe mai tollerato dei vermi rossi e vivi, accanto alla frutta del mercato, anche se rinchiusi in un contenitore di plastica. Dovevo nasconderli per bene, altrimenti me li avrebbe buttati.
Fumavo e guardavo il cielo. La luna crescente, nel sereno notturno; il vociare dei villeggianti da un residence vicino. Si cenava all'aperto, e dalla mia casa era già tutto spento. Nel giardino di fronte si accendeva il barbecue, e i bambini correvano. Ma noi non avevamo amici. La bambina faceva vita di vacanza con la madre, senza concedersi ai coetanei. Sembravano due donne adulte. La stessa crema solare, gli stessi occhiali, gli stessi gesti, quando si pettinavano vicine e mi salutavano in coro, senza nemmeno voltarsi. Andavo a letto tardi e dormivo tutta l'estate in un'altra stanza. Nel piccolo soggiorno.
Per la mia insonnia preferivo vedere dei film fino a tardi, così mi faceva anche comodo. A volte qualche western. Poi fumavo e non chiudevo mai gli occhi prima delle due. A volte la radio nelle cuffie.
Quella notte non mi andava di andare a provare la canna di surfcasting. Ma avevo comprato l'esca; non avrei potuto nasconderla ancora per molto. Si sarebbe guastata e domani avremmo avuto ospiti. Silvia avrebbe trafficato parecchio nel frigo, dopo la spesa. Prendo la canna, l'esca, le sigarette, un golf arancione e le chiavi dell'auto.
Raggiungo la spiaggia in breve tempo. La vita del paese sta cominciando appena, a quell'ora. Non ci sono altri pescatori; posso preparare tutto con calma. Ho portato tutto l'occorente. La torcia, la struttura di sostegno per la canna, un secchio celeste e anche una piccola sedia pieghevole. I primi lanci sono disastrosi, così come l'inserimento del grosso verme americano sull'amo. Le mani me le insanguino, sono appiciccate dal verme schiacciato. Poi, dopo il primo lancio più o meno riuscito, lascio la canna nella forchetta del suo sostegno. Attendo la toccata accendendo un'altra sigaretta. Mi siedo e chiudo un po' gli occhi. Mi sento il sonno che mi cammina addosso. Ho portato il telefono. Lo accendo. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Una foto di Valeria, che mi stringe forte la faccia e mi sorride. I capelli corti e bagnati, da una piscina azzurra dell'anno scorso. Poi dei passi leggeri, alle mie spalle.
Qualcuno nel buio, che cammina. A braccia conserte, i capelli raccolti all'indietro, un golf bianco sulle spalle, annodato all'altezza del torace. Cammina ancora e forse mi guarda. Poi abbassa gli occhi nel secchio, ma non si vede niente perché è lontano dalla luce della torcia.
Fingo di non accorgermene. Ha una sigaretta spenta in una mano. Controllo la canna, quando mi chiede di accendere. Si avvicina. La faccio accendere e parliamo. Si accovaccia a terra mentre io aspetto la toccata lei aspetta le mie parole, come pesci. Non voglio armeggiare in sua presenza la canna di surfcasting; sono troppo inesperto. Lascio la canna con l'esca al suo destino. Tiro di fumo. La guardo alzare la testa all'indietro, e cacciare tutto il suo fumo fuori, verso le stelle.
"Sei da molto qui?".
"Sono arrivata stasera".
"Non ti ho mai visto".
"È il primo anno qui. Non conosco ancora nessuno".
"Non ti ho mai visto".
"È il primo anno qui. Non conosco ancora nessuno".
"Io vengo qui da molti anni, invece. Conosco tutti, ma non vedo più nessuno".
"Sei qui da solo in vacanza, o solo per pescare?".
Non so che cosa risponderle. Penso a Valeria che dorme accanto a mia moglie e le dico la verità.
"Sono con mia moglie e con mia figlia, in vacanza. Sono a casa. Non amano la pesca. Nemmeno io sono qui per pescare. La canna è stata un regalo di compleanno".
Non mi risponde. Continua a gustarsi il fumo.
"Hai preso qualcosa?".
"No, non ancora. Sono qui da poco".
"Mi fai provare un lancio? Uno solo, però. Quando vuoi".
Non so nemmeno lanciare. Come avrei potuto insegnarle qualcosa che non sapevo fare nemmeno io? Così non le rispondo.
"È il primo anno. I miei hanno comprato da poco. Dicono un affare".
Il pesce non attacca. Nessun pesce di quel mare decide per la mia canna. L'unica canna da lancio per quella notte. La canna non si muove, né io mi azzardo a smuoverla. La ragazza dimentica di chiedermi un lancio, ma parla con me, fino al mattino. Con un filo di voce, come una lenza che ronza e che ritorna sull'acqua, mi dice cose indimenticabili e mai sentite, ma che per paura ho scordato. Anche io rispondo con parole indimenticabili, che forse non avrà mai sentito. Ci spaventiamo entrambi, allo stesso modo. Dimentichiamo. Ci scambiamo soltanto i golf, almeno fino a quando fa chiaro. Lei l' anonimo arancione da uomo, io il suo bianco lacoste.
Aspettiamo l'alba. Accanto ai vermi rossi, ancora vivi nel contenitore. Mi chiede di vederli, prima di andare. Si abbassa sui calcagni e li sfiora con un dito. Lo ritrae e poi lo avvicina ancora.
Aspettiamo l'alba. Accanto ai vermi rossi, ancora vivi nel contenitore. Mi chiede di vederli, prima di andare. Si abbassa sui calcagni e li sfiora con un dito. Lo ritrae e poi lo avvicina ancora.
"Domani, o meglio...oggi che fai? Ritorni qui?, mi chiede, continuando a guardare nel contenitore.
"Ci ritorna mia moglie con mia figlia. Io scendo sul tardi. Saranno qui tra qualche ora, credo".
Non mi risponde. Poi si alza e si scrolla la sabbia dai pantaloni, guardando ancora verso la mia esca americana.
"Che cosa ci farai con questi vermi?".
"Non ne ho idea, penso di buttarli, ormai...".
"Domani notte nemmeno ci ritorni?".
"Non penso, ho già fatto molto tardi stanotte. Poi ci saranno ospiti, domani".
Ci salutiamo. La ragazza mi chiede di conservare lei i vermi, se ho deciso di buttarli. Acconsento. Le chiedo dove posso incontrarla. Lei mi dice che non ha senso.
Ci salutiamo. La ragazza mi chiede di conservare lei i vermi, se ho deciso di buttarli. Acconsento. Le chiedo dove posso incontrarla. Lei mi dice che non ha senso.
Spunta il giorno. Mi saluta con un bacio, poi lo sposta e mi apre la bocca con la sua bocca. Mi cade la torcia ancora accesa. A lei il mio golf arancione. La canna in quel momento vibra. Trema, dell'impennata di un pesciolino mattiniero, improvviso. Un uomo giovane e un altro più vecchio, stanno scendendo proprio in quel momento con le scarpette di gomma, per cominciare una corsa verso la riva ancora sanguinante di luci. Hanno una tuta rossa, entrambi molto vicini. Lo stesso colore della mia esca americana.
l.s.
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