Mi avvicino con circospezione alla canzone libera leopardiana. Molte volte con pudore, o per una serie di circostanze che mi portano a riflettere sulle profonde possibilità del linguaggio, del suo fluire, della sua musica. La musica di Leopardi, al di fuori del sistema filosofico, è quella costante che avvolge ogni approccio, anche quello di semplice consultazione alla sua poesia. Ma anche una semplice consultazione, la ricerca di un certo passaggio, non riesce mai a rimanere soltanto superficiale. Ti costringe comunque all'ascolto, alla ricerca della voce sotterranea che scrive e che dice, quella del momento e dell'istante ispirante, a parer mio poco metodico, meno di quanto si pensi o si senta. Almeno nelle raffigurazioni dolci e strazianti del satellite, mai toccato, nemmeno con gli occhi, sfiorato nel suo manto desertico come un paesaggio lontano ancora inviolato e sperduto. Ne "il tramonto della luna" avviene l'incanto, l'osservazione delle luci forse in quella stessa Villa Ferrigni, presso Torre del greco, dove sarebbe nata "La ginestra". L'anno è il 1836, e la luna di una terra così vicina alla mia terra mi incuriosice -ogni luogo o accaduto lunare, sarà il figlio legittimo del luogo dal quale si avverte proprio e si osserva, si ama o si teme - e forse mi disturba, come ogni grande opera, non penso mai al senso di una pace profonda, ma di un turbinio obbligato di sensi, in ogni opera che si protragga nel tempo di posa di una sua molestia. Anche se mi avvicino al testo, e forse per caso, o per controllare le varianti di una vecchia edizione in mio possesso, (Felici e Trevi, da me acquistate, e non quelle ereditate dalla biblioteca paterna - rispetto a quelle sbirciate in libreria questo stesso mattino, perché non ancora acquistate e possedute, di un buon testo dell'Einaudi (Gallo-Garboli.)
La circostanza fortuita è spesso lo stesso nodo destinato della poesia che ti accade, senza che tu la stia cercando, come nella vita, a volte gli istanti migliori sono autonomi da ogni pianificazione rigida e vorace. L'istante, che mi porta a cadere di peso sui versi 27 e 28, due dei sessantotto versi complessivi, ma tra quelli più solitari e senza note. Profondo, illuminante, notturno. Assolutamente leopardiano:
"Abbandonata oscura,
resta la vita".
Un fulmine, anche non corredato da un richiamo testuale, e non sarà un caso, che dal bianco lunare emerga come cuore vivo di questa canzone libera di sette strofe, giusto nella seconda, questo manto così raccolto e disteso, dai tratti femminili neri e inquietanti: la vita, abbandonata, oscura, personificata?
E ancora una volta sono insidiato dalla curiosità di scorgere la logica di interpretazione nel dettaglio dei singoli versi delle stofe. Controllare, per esempio, se i versi 27 e 28, siano annotati nella versione di Gallo e di Garboli. Un motivo in più per ossessionarmi a prenderne ancora un altra, - lo farò? - per un confronto o per il desiderio di scoprire un altro ulteriore lato, degli infiniti e flessibili dello stesso prisma.
l.s.
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