"Giuseppe in Egitto", di Thomas Mann, si distende nelle luci di un grande affresco, le sue radici bibliche e le spezie e le grandi spianate di paesaggi minuziosi e di grandi confini di umanità perenni, indissolubili ai tempi e ai mutamenti. Durante il lungo, frastagliato o a volte sabbioso percorso di lettura (una bellissima edizione della Mondadori del 1963, tradotta da Bruno Arzeni), ogni tanto dei lampi di pensiero, perle sapienziali di filosofia o di saggezze sepolte, nell'inconfondibile limpidezza cristallina dello stile; una come queste:
"Se da un punto di vista puramente aritmetico il risultato zero è nulla, in pratica però esso è la saggezza di una conciliazione degli opposti, di una perfezione media, di fronte alla quale sono fuor di luogo tanto il giubilo quanto la maledizione, ma unicamente si addice una tranquilla contentezza. La perfezione non consiste in un accumularsi unilaterale di vantaggi: mentre, se ci fossero solo svantaggi, la vita diventerebbe impossibile. Essa consiste nel reciproco elidersi fino ad annullarsi di vantaggi e svantaggi, e questo "nulla" si chiama poi contentezza".
Thomas Mann
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