venerdì 19 maggio 2017

Chiaroscuri


Avverto sempre di più, nella mia scorsa, che la mia scrittura a volte è una scrittura aperta, in altri casi è una scrittura chiusa. Capita che mettermi a scrivere a lungo, di buon ora, comporti entrare, chiudere, murare, anziché fendere e cercare spazi. Pensare all'aperto come a una porta scolpita nel chiuso. È difficile combattere questo stadio in cui la sensazione della chiusura si accompagna al desiderio di precisione. Anche alla zona di esplorazione, dove comincio il mio viaggio. Ma esiste anche una scrittura aperta, legata a condizioni che non controllo, ma che trasformano l'aria intorno a me, non solo quella che attraversa le mie parole, ma anche quella che mi sento sul viso, negli occhi, nelle narici, come qualcosa di nuovo, di mai stato prima. Un'aria di neve, di metà aprile o anche solo di freddo, ma fatta di molta vita e anche di molta impenetrabilità. Nella scrittura chiara, quella più ariosa, e anche quella più aperta, non conta solo la precisione e l'ispirazione a quella precisione, ma altri elementi, che non sempre possono essere controllati. Intanto, quando la mia scrittura diventa aperta, io mi avverto come la vittima di un ritorno. La sensazione delle mie parole, quando la mia scrittura è aperta, crea un'aria molto diversa intorno al luogo dove lavoro e allo stesso modo lo stesso luogo dove lavoro opera in modo che l'aria della mia scrittura e delle mie parole risulti più aperta e nervosa, semmai anche più vera dell'altra. Nella scrittura chiara opero un ritorno a casa complesso, avvenuto dopo un viaggio strano, senza mete. Non credo che possa mai essere in grado di decidere quando optare per una forma chiara e aperta, nei registri della mia scrittura e quando invece affossarmi in quella più chiusa. Entrambe avranno la loro forza, nel loro tormento troveranno il loro (in)canto, la loro utilità. Non controllo il colore del mio scrivere, ma ne patisco le curve sull'abisso. Avviene che una scrittura sia aperta per quanto tempo sia stato murato da una scrittura molto chiusa e fobica. Una scrittura molto chiusa in certi casi è il seme di una scrittura molto aperta. In questi contrasti si dipana un cammino faticoso e insieme naturale, che mi rende vivo e ostinato nel mio amore per la vita.  Quando avverto che il chiaro contraddistingue la mia scrittura, la mia scrittura è aperta e pare che si faccia meno fatica. Ma la fatica è sempre la stessa. L'apertura non alleggerisce il tipo di strada, la sua pendenza, ma lo trasforma in uno spasmo differente, che non riduce il carico della tratta. Con uno spasmo la fatica è la stessa ma si confonde con altro. La quantità di aria presente in una frase e anche nella gestualità che precede e che accompagna questa frase e il suo teatro, incide sulla sensazione viva della fatica, ma non la riduce. La fatica dello scrivere chiuso è la stessa della fatica dello scrivere aperto, allo stesso modo dell'incidenza del sole crudo sulla pelle con il vento forte. In certi casi si potrebbe scrivere senza la maglietta, in altri avvolti in un cappotto enorme. I colori della scrittura risultano diversi, ma quando il tutto sarà trasformato, rielaborato ancora, allo sfinimento, potrebbe capitare che i colori di una scrittura chiara e ariosa diventeranno quelli più cupi, con un tratto più massiccio, una maggiore pietrosità e rudezza al loro interno, nonostante la fragranza del loro trascorso più aperto. Non credo nelle apparenze. Quando cammino e avverto che la mia scrittura è molto aperta o anche molto chiusa, devo fare in modo di assecondare questo squarcio dinamico dell'idea, senza pensare troppo a modificarlo nel suo perfetto contrario. Ma proteggere quel momento dell'idea così com'è, rispettandone le inclinazioni e le caratteristiche, anche quando non mi entusiasmano. Senza intervenire troppo e rimanendo in disparte, appena in ascolto della sua natura, che in certi casi diventa e migliora anche la mia. 






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