In questo passaggio misterioso dal "Dedalus", ho colto delle chiavi molto profonde, riguardo a delle connotazioni linguistiche inerenti all'approccio profondo e luministico di Joyce e alle sue frequenti illuminazioni, che serpeggiano e lampeggiano di continuo all'interno della sua poetica, come degli affluenti feroci, affamati di spazio e di reazioni. Le ho lette più volte. Le condivido in questo post con lo stesso fervore con cui le ho assaporate ed esplorate:
"La frase e la giornata e lo scenario si armonizzavano all'unisono. Parole. Era forse merito dei colori? Lasciò che rilucessero e si oscurassero, una sfumatura dopo l'altra: l'oro dell'aurora, il rosso chiaro e il verde dei meleti, il turchino delle onde, il vello delle nubi frangiato di grigio. No, non si trattava dei colori; il merito era dell'equilibrio, del ritmo della frase stessa. Preferiva allora il ritmico fluire e rifluire delle parole alle loro associazioni di leggenda e di colore? Oppure, debole di vista quanto era schivo di mente, derivava dal riflesso del mondo luminoso, sensibile, veduto attraverso il prisma di un linguaggio multicolore, istoriato con opulenza, un minor piacere di quello derivato dalla contemplazione di un mondo interiore di stati d'animo individuali, rispecchiati in modo perfetto dal periodare di una prosa lucida e duttile?".
Estratto dal "Dedalus" di James Joyce. Oscar Mondadori 1986, nella traduzione di Bruno Oddera.
0 commenti:
Posta un commento