Un mio racconto rifiutato tre volte, anche se in circostanze diverse. È il caso di "Delle luci nella sera di un tempo. Doppio viaggio", una storia che continuo a scrutare da diverse angolazioni, per quanto sia insolita e misteriosa e per quanto sia puntualmente ignorata e non recepita (di solito è un buon segno), – ma questa è responsabilità assoluta dello scrittore, per cui dovrò correre ai ripari, in qualche modo. La colpa è sempre di chi fa e di chi si espone, quasi sempre.
Credo giusto che chiunque si esprima debba parlare anche dei racconti rifiutati, soprattutto di quelli, non importa se siano stati incompresi o delittuosamente e di gran lunga inferiori a quelli scelti e preferiti di altri scrittori: quello che conta è mantenere una propria sintonia con il movente di scrittura di quel testo, con la sua pulsazione primigenia che lo ha portato in quel punto preciso, con quei risultati. Rimanere in contatto con la sua struttura e cercare di essere equanime e oggettivo anche dopo un responso negativo, la credo una fase importante quanto delicata di consapevolezza del proprio linguaggio, così come delle idee maturate sul proprio linguaggio.
Questa storia, intanto, pur con le sue atmosfere pesanti, nebbiose, forse anche patinata da un approccio un po' barocco e ridondante, ha però un suo nucleo e una sua anima nera e insieme delicata, che non riesco a guardare con troppa severità, nonostante la sua tripla sconfitta, perché questo modo di narrarla era l'unico sistema per modularla ed espanderla nella sua natura, senza alterarla e tradirla.
L'importante è saper perdere e farsi carico con grande umiltà delle proprie sconfitte, ma è altrettanto importante mantenere quella lucidità e quella fermezza interiore, in modo da rimanere coerenti con quello che si è fatto o disfatto o strafatto, nonostante i pessimi tangibili risultati. Un racconto potrebbe ottenere dei pessimi risultati ma non per questo essere pessimo, per esempio, e forse nemmeno così inferiore a quelli che hanno raggiunto e collezionato ottimi risultati.
Solo questo, credo, o immagino di sì.
2 commenti:
Quello che spinge a scrivere non è il successo, o il consenso. È la consapevolezza di avere uno strumento potente e di avere l'opportunità di farne un uso diverso. Certo, anche uno scribacchino scrive sempre, scrive comunque. Temo però che non abbia alcuna consapevolezza. E d'altra parte: chi è uno scribacchino, e chi uno scrittore, ci si potrebbe chiedere. E consolarsi in questo modo, persuasi di non essere dalla parte sbagliata.
Di rifiuti ne ho collezionati un gran numero. Ma anche soddisfazioni. Di gente che non conosci e ti scrive per ringraziarti. Va bene così. Forse sono troppo ubriaco di numeri, e non so accontentarmi dei piccoli fuochi che accendo, mentre il buio avanza.
Ciao, Marco.
Molto bello questo tuo intervento, come sempre lucido, ispirato e sentito. La spinta dello scrivere non ha nulla ha che vedere con i consensi, sono d'accordissimo con te. È un affare molto più complesso, un po'come l'idea di bellezza del tuo post di stamattina. E intanto, in linea con il tuo bel messaggio, anche io sento di scriverti che in fondo va bene così.
Un saluto
l.s.
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