Questa è l'ora più cupa e sospesa dove avverto la dolcezza dei miei antenati defunti stringermi dalle spalle, poco prima di spegnere la luce. C'è qualcosa che mi intrattiene, il non avere detto tutto a qualcuno che aspettava di sentire ancora di me. Il sapere quello che immaginano di me, anche in questo momento notturno in cui li rievoco e mi lascio nel vago della loro esistenza e risonanza – spesso immagino una guancia che sfiora le scapole, una spalla, l'umido delle labbra sulla mia nuca e sul mio sonno.
Quella che mi vuole più bene la sento nell'aria, e forse è l'unica tra i miei defunti che mi protegge e mi rassicura. Se dovessi davvero sentire per caso la sua voce di sedicenne di primissimo novecento, come ho immaginato nella relativa finzione di un mio racconto, non credo che scapperei. Quanto avrei da dirle, di quanto si è perduto, ma anche chiederle di come legava i capelli e di che trucco usava tanto tempo fa e se mi sentiva già un po' nell'aria, come io sento adesso nell'aria lei...Non so chi mi disse che la mia straordinaria fantasia di scrittura, così particolare e delicata, in qualche modo potrebbe riguardarla. Le prime notti d'estate, quando i miei erano fuori a parlare e io ero già a letto ad occhi aperti, aspettavo davvero che la piccola antenata mi lanciasse un segnale, senza spaventarmi troppo, semmai dal bagliore di un faro che tremava dalle imposte vecchie di una casina rosa di Testaccio, o dalla musica lontana di un night.
Forse nei momenti di maggiore disordine e solitudine la dolcezza dei defunti, avvolti nel mistero della loro sorte, mi entra dentro, come un profumo lontano, un rimorso, una spina, un innamoramento.
Ma questa ragazzina così sperduta, davvero non mi lascia mai. Non mi hanno mai detto il suo nome, credo nemmeno sua sorella mi ha mai voluto dire il suo nome di giovanissima suicida, non era nemmeno maggiorenne, piccolina, ma perché mai? Chi sarà mai stato, e che cosa ne sarà di quello che si è provato, del vostro primo incontro, delle vostre passeggiate? Chissà il colore delle tue calze di quell'epoca e le tue scarpine nuove o prese in prestito da Elvira e quale stradina del mio Vomero avrai mai costeggiato col cuore in gola, e quante camicie avranno stretto la tua ansia, prima che calasse la sera, e quando sarà mai cominciato il crepuscolo, fin dentro i tuoi passi fumanti di buono, o annebbiandoti il viso che si gira all'improvviso, forse un colpo di vento, e se solo qualcuno ti avesse scattato una foto, anche una sola soletta, un solo occhio aperto per il sole, e quanto tempo avrai sognato prima di quel giorno ultimo. Se adesso io potessi sollevarti il mento anche con un solo dito di una mano, e chissà se hai mai provato a scrivergli, al tuo grande dolore maledetto e avventuroso, ma perché non mi guardi ora, se sentissi con quanto amore adesso ti scrivo per consolarti, anche una pagina ogni sera della mia vita mi sento di dedicarla anche a te, dimenticata dal mondo che non ti sa e non sa nulla di questo dolore immenso e del suo retroscena segreto, tutto ancora fumo, con questo broncio comincia la pioggia e la casa ripiomba in un silenzio irreale e tremendo.
Tutto tace, da avvertire il suo respiro, il suono del suo muco che le spezza il fiato e che la fa ridere dentro le lacrime, almeno per un attimo ancora, credo che in queste parole ci sia anche un po' di lei, come in una scrittura ragazza anche con centoventi anni di ritardo, scritta con eleganza, una gamba sottile accavallata sull'altra, ma adesso dovrei chiudere questo strano e delicatissimo affronto spiritico alla mia nostalgia – perché non hai trovato il tempo – potrebbe commuovermi davvero troppo, questa ragazzina vispa e sperduta che davvero non mi lascia mai.
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