Nella scrittura di getto le parole sono mosse e ammantate dal fuoco di un tempo aggiunto e diverso, che non batte così nella mia vita reale. Non ha pendoli a scandirlo ma altre regole. Quasi mai isocrona la circostanza del contatto con la parola che io non vedo e non penso fino a quando non mi scompare accanto e nella gola dopo il battito.
È una delle soglie del mistero. Affacciarsi sulla porta di un bosco e sentire quanto non so della mia vita, delle regioni insondabili del mio profondo, del mio disordine, della mia tenerezza, da poter controllare e disciplinare questo flusso in disordine a volte rigoglioso e infestato di lucciole estive, che qualcuno da un davanzale tenta di mettersi in bocca, e cerca di raggiungere a tutti i costi o di ascoltare cantare. Potrebbero avere le voci delle vecchie che recitano i salmi nel vespro, ma risuonarmi come il canto di una bambina cieca, che salta la corda ed evita le pozzanghere dopo un piovasco.
Ho immaginato di mettere nella bocca tutto quello che i miei occhi sfioravano e non sapevano. Divorare le lucciole, anche quelle che intravedo nelle notti sfavillanti d'Agosto, attraverso le siepi che affiorano nel buio, accanto all'avogado, e leccarle e tenerle per un po' sulla lingua, come caramelle bagnate da un'altra bocca. Mettere in bocca l'abbaiare di un cane, la sua tenebra quando sono già dentro le coperte. E dentro questa fame anche le mie parole vorrei sapessero di coperte o di mandarini e che passassero per la mia bocca e per la mia saliva, prima di morire sulla carta. Quello che scrivo comincia a morire appena si posa, come una manata di lucciole fresche nella mia bocca socchiusa. In un romanzo schiusi nella fantasia due natiche di un personaggio femminile, e lo immaginai pieno di lucciole. Dentro la mia vita ho fame di lucciole. Le mie parole sono le luccioline estive che ho perduto, la possibilità di contarle o di restituirmele, il golfino aperto sulle spalle con le maniche vuote e le ginocchia ciondolanti in un cinema all'aperto, gli occhi femminili di mia madre disegnati sul mio viso.
Nel getto spesso affiora una carezza alternata alla tagliola che mozza una coda o una zampa di volpe.
Se potessi definire in anticipo, anche di due secondi, tutto quello che accade nel mio processo di telescrittura, mi bloccherei. Se mi chiedessero, proprio adesso, che cosa scrivi, che cosa scrivi tra un secondo, tra tre secondi, già lo vedi, lo senti? Adesso dov'è quello che stai per dire, lo diresti uguale con la voce se dovessi parlare a un microfono? Di che colore sono le tue parole? Sono dei pensieri che traduci, dei ricordi, dei segni, delle mentine, delle cose vere, finte, colorate, o in bianco e nero? Delle case, delle persone che sono dietro ai vetri? Sono fatte di rugiada, di orzata, di gelato o di latte caldo? Non ne ho idea. Di quello che succede adesso, o anche al rigo di sotto, non lo so. Non ne so più di quanto possa prevedere di quello che accade oltre le palpebre di chi sta già dormendo, nelle case del palazzo di fronte, c'è la stessa distanza, dentro di me, di questo strano flusso che mi attraversa e mi visita, come un rigo di febbre, con tutto quello che insieme abita e disabita gli altri.
Forse scrivo perché ho bisogno delle cose e delle persone che temo. La mia paura degli altri, atavica, insondabile, nella mia ritrosia, ma anche la possibilità di riscattarla, in qualche modo, attraverso un gesto così antico, impenetrabile, elegante. Scrivere bene è qualcosa di elegante, come la nuca di una donna allo specchio, che si prepara per entrare nella mia gola. Morire dentro una nuca, sarebbe il mio luogo naturale. Spegnermi in una nuca che sogna, come un mozzicone acceso in un piattino bagnato e sentirne la leggera agonia prima del silenzio. Non sono in controllo di quello che sto per dire durante il getto. Non ne so più di te che adesso mi leggi e credi che ne sappia di più e custodisca un segreto, che sto per svelarti mentre lo dico. Il segreto che ti dico sarà il tuo.
Forse scrivo perché ho bisogno delle cose e delle persone che temo. La mia paura degli altri, atavica, insondabile, nella mia ritrosia, ma anche la possibilità di riscattarla, in qualche modo, attraverso un gesto così antico, impenetrabile, elegante. Scrivere bene è qualcosa di elegante, come la nuca di una donna allo specchio, che si prepara per entrare nella mia gola. Morire dentro una nuca, sarebbe il mio luogo naturale. Spegnermi in una nuca che sogna, come un mozzicone acceso in un piattino bagnato e sentirne la leggera agonia prima del silenzio. Non sono in controllo di quello che sto per dire durante il getto. Non ne so più di te che adesso mi leggi e credi che ne sappia di più e custodisca un segreto, che sto per svelarti mentre lo dico. Il segreto che ti dico sarà il tuo.
Quando il getto mi attraversa, sono sullo stesso piano misterioso di chi mi legge. Ne so quanto lui sa di me. se non ancora meno. Lui ne sa quanto me di me. Io quanto lui di lui. Quando scrivo divento lui e durante il getto io immagino che quando mi legga mi senta come nel suo pensiero. La bellezza più grande dello scrivere è questo bacio delicato e timido nei pensieri di chi ti legge. Questo soffiare sugli occhi come sonno e dedicare all'ignoto di un altro il disco della mia paura e insieme la tenerezza del proprio ignoto. La protezione della vita di chi ti legge attraverso il flusso di queste parole, che a loro volta ti ritornano impregnate di altro. La cultura del proprio mistero. Non altro, se non la bellezza infinita di uno stesso tratto di tenebra, una passeggiata senza dirsi, con le mani in tasca che tremano.
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