Mi domando con insistenza quanto sia affinato per una cura adeguata del mio linguaggio. Per una cura responsabile, lucida, severa, fatta con il giudizio e con la mano ferma del medico che ancora tocca e non dice ancora.
Ma soprattutto quanto sia mio, questo valico di nebbie che esploro e in cui mi avventuro con sempre più gusto. Non credo di incontrarvi sempre lo stesso ingresso, le luci di casa dei ritorni, gli odori delle cose che conosco, quando riprendo un testo lasciato da tempo, o quando ne attacco di nuovi, molto spesso senza neanche programmarlo. Durante la mia ricerca ho a che fare con un miscuglio di familiarità e selvatichezza, con grandi confidenze e improvvise ritrosie, che in diversi casi mi rendono difficile sapere dove mi trovi, o quanto sia dolce o troppo aspro il filo del mio vino. Se matura nella mia casa o in quella di un estraneo mai visto prima.
E intanto il desiderio o l'ossessione di intrattenermi in questo gioco di lampeggi e rimbalzi, con cui cerco di curare al massimo il possibile curabile o recuperabile delle mie parole, diventa in silenzio parte viva e autonoma della mia vita. Spazio di giochi o riserva di caccia. Diventa un occhio aggiunto che si posa sulle cose e che a volte mi inventa e mi disegna come non avrei immaginato di essere mai colto - una foto di qualcuno che ti ha ripreso quando non te l'aspettavi, e che ti faranno vedere molto tempo dopo, da non essere nemmeno più tu. Uno scatto fantasma.
Le domande continuano:
2 commenti:
Io cerco di arrivare a una parola sobria, potente. So che si procede a tentativi, e che ogni giorno è come il primo. L'apprendistato continua sempre, mentre attorno dilagano fesserie e superficialità. Ma non importa.
E forse sarà proprio questo il bello.
Condivido su potenza e sobrietà, come ali della stessa aquila.
Grazie della visita.
l.s.
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