In ciascun percorso, definibile più o meno di natura artistica o comunque di tipo creativo, esiste sempre un terreno di gioco, con le sue caratteristiche di sorta, la sua estensione, la sua docilità o pietrosità al passo, entro e attraverso il quale si delinea il perimetro di un'esistenza, esistenza creativa di chi decide di mettersi in gioco, il suo destino di gioco, direi. Terreno con il quale vanno fatti i conti, inesorabilmente, perché è lo spazio necessario di interazione e di realizzazione di un certo moto di espansione assolutamente personale.
Non credo che sia così facile individuare la giusta ampiezza del mondo e del territorio entro il quale si decide di giocare. Spesso la consapevolezza del tipo di territorio diventa un elemento cruciale per tutto il percorso, allo stesso modo dell'inconsapevolezza dello stesso. Questo terreno di gioco non è solo un luogo concreto dove organizzare i tempi e i luoghi del nostro viaggio, ma è anche un prolungamento delle nostre personali caratteristiche, o attitudini di base, forse perché in qualche modo se ci troviamo lì vi sarà comunque una ragione che ci riguarda. Qualcosa che ha fatto sì che il nostro gioco e il nostro terreno abbiano incontrato proprio noi.
Molte volte si osservano con ostinazione i territori di gioco degli altri, come se fossero i propri; e allo stesso modo le dinamiche e i comportamenti dei giocatori inseriti in quei territori, come se fossero identici a noi, come se fossero noi. Osservare un altro territorio di gioco con un altro giocatore, come se avessero le stesse caratteristiche del nostro territorio e della nostra persona, diventa spesso un elemento di disturbo e di annebbiamento, che offusca e che confonde, ma è che molto comune, soprattutto nel ricercare un punto preciso entro il quale individuarsi lungo la tabella di marcia rispetto al percorso degli altri. (Verso cosa e verso chi, poi? Non è forse il gesto creativo, e tutta la sua economia, a rappresentare una sorta di meta, o comunque di viaggio appagante e personale?)
Misurarsi sempre su terreni del tutto diversi dal nostro, battuti da giocatori del tutto diversi da noi, lo trovo un intento suicida, ma questo intento è perseguito con molta naturalezza, come se tutti ci trovassimo sempre nelle stesse identiche condizioni nel metterci in gioco: nello stesso terreno, con lo stesso clima, la stessa esposizione ai venti, la stessa latitudine. Spesso si pensa di non essere mai all'altezza di quel dato percorso individuato in qualcun altro, come se quel dato percorso fosse stato fatto da una persona identica a noi nelle condizioni identiche a quelle nelle quali sentiamo di aver fallito.
Converrebbe forse, penso, dedicarsi al proprio terreno di gioco, semmai anche alla sua estensione, al renderlo semmai meno pietroso per i nostri personali calcagni, o al limite rendere i nostri personali calcagni più resistenti per un terreno pietroso e poco docile. Lavorare sulla consapevolezza dei propri limiti e delle personali caratteristiche, rimarrebbe imprescindibile per muoversi con lucidità in un proprio movente, intento artistico, creativo che sia, senza essere ottenebrati dalla disperazione di essere meno, o dall'esaltazione di essere più, quando si è semplicemente altro. Quando si è limitatamente – ma anche smisuratamente – armonizzati alla storia della nostra natura e al suo mistero, quindi al nostro senso di rotta, come alla nostra verità di gioco. Secondo me:
l.s.