Nei ritorni, a volte, dagli ombrelli nella pioggia senza le teste le persone sono ancora le stesse o sono l'odore delle terrazze e dei festeggiamenti interrotti e il dondolio scherzoso e tremendo dei lampioncini. Come stasera. Come lupi gli ombrelli covano su ciascun capo, i dorsi appena curvi, il silenzio tombale che l'acqua concede alle grondaie e alle vetrate oblique dei palazzi antichi. Il buio invade e diventa un azzurro e le finestre diventano l'oro bianco contro il rosso duro dei notiziari televisivi. C'è chi si abbraccia senza dirsi. Chi sfila cinghie dai passanti. Chi mette in bocca un dito solo dei guanti. Chi cuce, chi affonda una mano nei capelli bagnati di chi gli sferra un pompino. Chi prega, chi suona un vecchio disco. Chi tace, chi accende un albero di Natale, una candela, un debito. Chi sorveglia un fratellino in assenza dei grandi. Chi assapora il proprio muco che scola di lacrime e chi guarda il piovasco di quell'istante sepolto e perduto al mondo, accanto a una maestrina elementare triste e diabetica. In ogni casa un frullo terso di gazza, la risata di una strega, un bricco fresco di latte. Lo scintillio della mannaia, lo spazio dolce tra i seni scoperti di chi rassetta e si abbassa troppo – il suo viso gonfia tramonti di Taurasi dalle guance –, o chi si veste per scendere, e cerca le chiavi dell'auto che non trova, e chi allora si sveste, nei brividi di febbre e agguanta la coperta scivolata con una caviglia; chi fugge come un bandito: passami gli stivali con le mutandine, per favore. La zampata del temporale ingoia quello che ogni privato sottrae e concede al fantasma del suo nuovo copione. Sono quasi arrivato. Gli ombrelli che mi erano davanti sono lontani, uno di quelli declina dalla sua cupola e sgorga fango di mestruo. Un bambino morto lo aspetta alla finestra, scalzo e in pigiama, come se fosse il sole.
Sono a casa.
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