Avverto sempre un carico di emozioni irreali, che attraversano non soltanto le dinamiche dei miei processi creativi, ma diversi passaggi della mia vita; come se queste emozioni mi arrivassero da altri, non fossero le mie o le assimilassi, le prendessi nell'aria, come raffreddori.
In questo misterioso incontro di risonanze, mi accorgo insieme di crescere e di inciampare, di precludermi la semplicità di alleggerire il carico, senza rendermi conto che quella ferita è parte naturale di me, a volte una feritoia con una luce di un interno, che mi aspetta per cena.
Mi accorgo di sentire la febbre di questo carico e di dover spalancare le finestre per fare aria. E quando le finestre sono aperte ed entra l'aria, io chiudo gli occhi e penso. Rimango con gli occhi chiusi e l'aria sulla faccia e scrivo, nel silenzio, senza gestualità, obiettivi, correzioni, trame.
La forma più raffinata dello scrivere, oggi, è quella di non farlo. Di odorarne la sola possibilità, davanti a una finestra, senza lasciare nessuna traccia viva.
Quale momento sarà più prezioso del silenzio di un essere umano, la sua perfezione è murata nella sola possibilità di dire ma di rimaner muti, ancora, ancora per poco. Per favore, almeno una lettera, ancora, ancora per poco, si scrive quando arriva il sonno, o quando un tuono ti scuote e ti accorgi di non sentirti più come eri. Recuperando il silenzio io recupero l'ascolto del mio silenzio. La mia voce non deve avere bocca ma orecchie. Le mie orecchie devono avere bocca. Il mio viso davanti alla finestra si imbeve di aria e della stenosi di questo carico del sentire e del non poter dire. Se dico di quello che sento, se chiedo a qualcuno di ascoltare quello che io sento, avrò smesso di sentire e quindi di poter davvero dire. Non si sente qualcosa per poter dire, così come non si passeggia per raggiungere un luogo sicuro, ma a volte per perdersi. Si sta perdendo il gusto delle passeggiate sognanti, senza direzioni, lo scriveva Alan Watts, possono risultare sospette se non hai una meta, qualcosa da fare, da comprare. E ritornando al mio dire e al mio sentire, non sono così essenziali. Perché non deve bastarmi il mio sentire per doverlo per forza dire? Per dimostrare a qualcuno che lo sto ascoltando? Che il mio dire, il mio poter o voler dire, sia la prova tangibile che io avverta qualcosa di più, di diverso da chi non dice e che quindi tace? Che cosa mi dice che quello che dico è qualcosa di solo detto e scritto, ma di non sentito? Che cosa distinguerà un paragrafo originato da un carico di emozioni irreali, di sensazioni patite, da un paragrafo di parole solo scritte? Dove si trova il confine? Quanto silenzio e quanta purezza e perfezione sto sottraendo alla mia vita con queste parole? Eppure i miei più grandi amici, quelli che mi vogliono davvero bene, non mi chiedono di ascoltare quello che hanno da dire o da scrivere, ma mi arrivano dentro all'improvviso, da soli, facendomi sentire pensato. Ho la certezza di sapere quante persone oggi mi hanno davvero amato e pensato. Ne sono sicuro. Non sono persone che me lo diranno, ma lo so uguale. Uno scrittore in silenzio assoluto ritrova la sua rotta, la dolcezza e le voci degli amici che lo amano davvero, anche quanto tace o non c'è. Riprende la magia dell'ascolto, che dovrà interrompere solo quando non gli sarà più possibile tacere, come nell'incombenza di uno starnuto improvviso, che non puoi più trattenere e che infrange il silenzio senza colpe dirette o moventi.
Con la mia editrice ed editor Aura, devo stabilire in questi giorni se rinnovare un contratto con i distributori, per un mio vecchio romanzo oscurissimo e dodecafonico, "Il disabitato", ma a cui lei ha dato fiducia con tutto il suo ammirevole quanto amorevole coraggio. Ho avuto dei dubbi, dei dubbi legati a quanto fosse lontano quel linguaggio dal mio me di adesso. A quanto fosse lontano da questa fame di silenzio che vorrei imprimere alle mie parole. Questo non sono più io, ma non posso rinnegarlo. Come non rinnegherò quello che sono adesso e che più non sarò. È per questo che non si arriva mai.
Poi stamattina ho riletto uno stralcio, che mi ha convinto a firmare. Lo farei a breve:
è questo:
Una Tolosa che mi soffocava irrimediabilmente dentro la sua
arnia tardoromantica. Un panno scuro disteso sul viso di una statua rischiarata
al bagliore dei lampi in una cappella napoletana. I disegni delle grate in
filigrana, sulle pareti la muffa dove la figura rimane distesa e spaventata. La
commozione di una persona abbandonata, dove cominciavo appena a scorgervi
ancora dell'altro che mi mancava e mi disturbava nella sua stessa mancanza.
Dell'altro che non dipendesse necessariamente da me, e virasse attorno a quello
strano programma di sala, ancora caldo sulle vite di chi aveva in qualche modo
sfiorato e risucchiato di frodo la mia bocca o il mio impossibile sibilo di
fame.
Adesso il mio sonno non planava e non mi prendeva, ostile
nella sua grana viscosa di dattero, nel vortice di azzurri nel marmo mai
scolpiti sull'acqua che scendeva e sgorgava di rosa antico, e i miei occhi
aperti, forse per un respiro di streghe dai capelli sciolti e forcine appuntite
dai lunghi e silenziosi corridoi, che tra poco avrebbero bussato e perforato di
spilli da balia i miei ultimi lucidi pensieri, e me li avrebbero proibiti con
la minaccia dei loro seni lunghi e appuntiti e sgocciolanti di liquori verdastri.
Quelle stesse luci che tremavano al quinto piano come ceri e che adesso mi
facevano tremare il doppio, al solo pensarle ancora accese e associarle
all'incanto doloroso di una tenebra moderna. In un gioco specchiato di mimi,
che tentano di incontrarsi e non si incontrano mai: di sfiorarsi, di
rianimarsi, di toccarsi, di riequilibrarsi, e non si sfiorano, non si
rianimano, non si toccano, non si riequilibrano mai. Qualcuno allora mi
cercava, chissà da quando. E l'antico Giuseppe di Rachele, che guardava la sua
luna e sopportava le spezie urticanti dell'Egitto e la calma di un destino
supremo di cieli arabescati, che lo abitava nei tratti deboli di tramonti e
allontanarsi, con le strisce variegate dei suoi brandelli. Ancora la sua debole
e dolce sagoma, appena più ricurva sull'asina bianca come latte, o come la neve
ferma e più calma, mai sciolta e magnifica della sua purezza ben rappresa sul
pelo corto. Dove cercavo il senso del mio sangue senza suoni.
Di notte. Ormai la più fonda tra le mille e tra tutte le più
fonde mezzanotti immaginate o mai raccontate. Come il gioco dei mimi che mi
raccontava Tim; o la giostra irrazionale dei numeri nel caso, o dei salmi, che
mantengono fermo il mondo e non lo fanno mai tremare. Come lo zero è sempre
fermo e conficcato, tra il cinque e il sei, della stanza 506.
Come il grande dito premuto nel buco del nodo prima dello
stacco del fiocco.