domenica 30 giugno 2013

Per una cortesia...

Ho imparato a entrare in punta di piedi nelle vite degli altri, a chiedere permesso, a tenere la voce bassa, eppure ieri sera, mentre stavo lasciando la striscia blu dove avevo parcheggiato in grande anticipo, scendendo dall'auto con il bigliettino già pagato facendo segno al conducente dell'auto che aspettava che andassi via di poterglielo cedere, ho creato una sensazione di disagio se non di spavento. Non abbassava il finestrino, non aveva capito quali fossero le mie intenzioni, credo sia stato per questo motivo che non lo ha voluto, temeva fosse un pretesto per altro. Un gesto di gentilezza...mi ha fatto pensare, molto e mi ha fatto stare anche un po' male.
A quanto siamo diversi per ciascuno che ci incontra, che ci sente, che ci scrive, che ci vive.
Per ciascuno l'ombra di uno strangolatore, di un fidanzato delicatissimo, di un ragazzo di strada, di un farabutto.
Una sera tardi, era inverno, mi avventurai con un mio compagno di classe delle elementari, a saltare i muretti di una cupa solitaria e oscura, come dei gatti balzavamo di gioia senza una ragione, nelle tenebre, Chi mi avesse visto da lontano, mi avrebbe scambiato per un folletto di una fiaba dei Grimm...
e invece...è quello che vivo ogni attimo tra le pareti ombrate del mio tempo e del mio dire.
Occhi che mi guardano e mi cercano, come sulle scale di tanto tempo fa, una persona con gli occhi lucidi mi chiese un abbraccio, nella pioggia, che le ho negato: Luigi, mi stringi forte forte...e io non so perché rifutai.
Non so che cosa mi guida, in questa scorsa misteriosa di dolore e di sogno e di affetto sterminato verso ciascuna persona che incontro e che dipinge di azzurro la mia vita.
Un ragazzo così dolce, così tutte le donne di casa e anche tutte le amiche e gli amici di famiglia, un ragazzo così dolce...che ieri ha messo paura, solo per fare una cortesia.

sabato 29 giugno 2013

il sogno in un bambino e il mare nero



Gaeta illuminata. Avevo il golfo di fronte, ero insieme a mio nipote, noi due soli in una pista di pattinaggio deserta. Dopo cena ha sempre il desiderio che io lo porti a guardare il mare, aspettare che si accendano le luci del golfo con la speranza che qualche bambino venga a giocare un po' con lui. 
Ieri sera, avendo portato un pallone di spugna, color giallo ape, così come lui lo ha definito, di bambini ne sono arrivati due, ma minuscoli, sembravano usciti da una fiaba. Sono venuti accanto a me, hanno alzato la testina, con uno sguardo stanco e mi hanno chiesto se potevano giocare con lui.
Li ho lasciati giocare e mi sono messo sul bordo della pista di pattinaggio, a sentire la radio con una sola cuffia in un orecchio e l'altra sospesa, per non perdere il contatto con il reale. I due nuovi amici minuscoli di mio nipote erano molto maldestri, giocavano maluccio e lui si sentiva onnipotente e ogni tanto controllava se a distanza seguissi la sua onnipotenza. A un certo punto i due si sono stesi per terra, all'improvviso, una sensazione così strana, mentre mio nipote continuava a giocare.
In quel momento scendeva la sera, ma mio nipote non provava stanchezza. Avevo negli occhi le luci del golfo, con quella strana febbre che mi prende quando guardo qualcosa che brilla sull'acqua. Faccio un messaggio a un'amica, parlando di una certa "gran confusione" di cui avevamo parlato a riguardo di una questione drammaturgica.
I tre si spostano a guardare delle macchine da corsa,  a pagamento, seduti sulla stessa piccola panchina e io intanto parlo col padre dei due bambini, il quale attacca discorso – non so perché, ma molte persone attaccano discorso con me con una certa frequenza, come se ispirassi loro fiducia, non so. Quando parlavo, ma soprattutto ascoltavo quello che il padre dei bambini mi diceva, rivolgevo lo sguardo a mio nipote che occupava la panchina che conteneva giusto loro tre, per quanto fosse piccola, e a un certo punto ho avuto una stretta al cuore, come di malinconia dolorosa: erano tutti e tre perduti, senza vita, senza tempo, a guardare quelle macchinine,  così fragili. Mi sono sentito qualcosa battere in quella stretta, quasi un mistero che scorre nella vita attraverso quei pochi attimi di freddo che mi ha dato quell'insight: forse desideravano salire sulle macchine, o avevano sonno o paura di qualcosa che nemmeno sapevano e che nemmeno mai sapranno.
Lungo la via del ritorno, abbiamo fatto, io e lui, tutto il lungomare illuminato, prima di raggiungere la mia auto, parcheggiata in fondo. Ogni tanto gli allungavo una mano aperta alla nuca, poi la scivolavo sulla spalla e lo sentivo felice e stanchissimo. Mi chiedeva se io sapessi quello che avrebbe sognato quella notte, dal momento che ieri mattina gli avevo indovinato un sogno. Come fai a entrare dentro i miei sogni, mi chiedeva, mentre una delle due ragazze che erano accanto al nostro ombrellone sorrideva e guardava, e io dicevo: ho immaginato che tu sognassi le cose che ami, e allora è capitato così.
Prima di raggiungere l'auto, ha voluto affacciarsi sulla passeggiata e fissare il mare. Ci siamo affacciati alla ringhiera tutti e due, mentre qualche ultima ragazza faceva ancora jogging.
E lui: il mare a quest'ora mi fa paura.
Perché ti fa paura, Miki?
Perché è nero.
Una volta a casa ci siamo un po' persi. Io sono ritornato alle mie cose, lui è crollato di sonno. Ma nel mio letto. Quando l'ho visto distrutto, con la bocca spalancata dentro le mie lenzuola gialle, ho provato una tenerezza molto grande e così non l'ho svegliato e sono andato a dormire in un'altra stanza. Sperando che sognasse quello che ama e che non fosse nero come l'ultimo attimo di quel mare del nostro ritorno.

martedì 18 giugno 2013

Luci del pomeriggio

Al risveglio, di un sonno non programmato, perché vissuto in un tempo che era destinato ad altro, e solo all'ultimo è rimasto inutilizzato, rimango preda della sospensione tra gli stadi. Ancora con il sonno dentro lo sguardo, le mie dita sono più lente e separano la stasi di torpore dalla luminosità del sogno reale, di questa luce che agguanta la casa, come uno strangolatore una gola, la luce dolce del pomeriggio, che accompagna i miei gesti, la mia voce bassa, i miei passi, fino all'ora di cena, e ancora oltre. Il silenzio delle parole. Pochi suoni, poca vita intorno, se non la sensazione di aver sognato o di essere stato preda. Preda del sogno inquieto e felice di qualcun altro, che adesso muove la mia vita, i miei gesti, il mio temperamento. Non ricordo che cosa mi ha svegliato. Non certo un rumore, nemmeno un colpo di telefono. Il risveglio non è un'azione reale, è ancora inquinata da quello stato feerico e ingrato, che mi separa. Forse il solo odore di casa di questa luce che è fatta di sonno, arretrato e confuso a quello che si è perduto e a quello che non si è ancora incontrato. Di chi sono i miei pensieri nell'assenza sublunare del sonno, anche del sonno breve, quello che di solito cattura, in un suo profondo primo bacio di morte e senza un movente. La posizione da disteso, dove a volte spalanco le braccia come un soldato dopo una granata che lo ha squarciato in pieno; in altre mi rattrappisco o mi storzello, è sempre parte del mio me di adesso, che scrive a comando parole che sembrano fili di luce polverosi, che calano come la sera sullo specchio di una credenza. Che fine farà questo mio dire, così questo mio sonno, la dolcezza di aver sognato e saputo di altro, ma di non avere più l'impronta rara del soggetto, se non il suo sapore, il fantasma dei connotati, che verrebbero fuori solo con una rivelazione dal motus perpetuum reale. Che cosa sarà di questo viaggio clandestino tra gli stadi, di questo torpore e insicurezza,  verso l'amore lontano e dilaniato per la propria vita? 
Forse un risveglio incolto e atonale. Intonso.

lunedì 17 giugno 2013

N come Norma



Le cose semplici sono le uniche che portano davvero lontano; quelle che quando stai distratto le ricordi, un po' ci pensi e se qualcuno ti guarda quando le pensi, vede nei tuoi occhi una bellezza che non c'è mai stata. Ogni bellezza è qualcosa che non è mai stata. Non esiste una bellezza nota o che puoi paragonare a qualcosa che hai già visto e che ti è già successa.
Una bellezza vera è semplice, piccola, piccola, piccola ma così rara, come questa che mi è apparsa...proprio stamattina: ordino un caffè. Accanto a me una donna bruna, molto simile al soggetto della foto, con  un sorriso molto intenso, gli occhi vivi di una ballerina. Mi guarda per qualche istante. È con una persona anziana, che si trova al suo fianco, sul lato destro del bancone. La donna bruna parla col barista, si nota che lo conosce, perché un po' ci scherza, e anche il barista ci scherza, come fanno di solito i baristi con le donne dagli occhi vivi di una ballerina. Credo parlassero di una bambina di loro conoscenza, che la donna bruna avrebbe voluto rivedere. Ordino il mio caffè all'altro barista.
La donna bruna sbaglia l'ordinazione, dice che non voleva del latte ma solo il caffè macchiato e il cappuccino per la signora anziana, intanto si rivolge alla donna anziana e il barista le fa: come si chiama la mamma, e la donna bruna: si chiama Norma, poi, quasi sottovoce, ma non è la mia mamma, ma è come se lo fosse, vero? Questo però l'ho sentito soltanto io, è come se fosse una confidenza, qualcosa di segreto da dividere in pochi o soltanto tra loro due donne. Il barista intanto le porge la tazza del cappuccino con una N in corsivo che galleggia sulla schiuma, spruzzata di cacao, così elegante, amorevole e curata da mettermi il freddo. Mi giro verso la donna e poi verso Norma, quando la sua non figlia le fa: è vero che tu per me sei come una mamma, e quella, Norma, continua a guardare nel vuoto, senza risponderle. Lo sguardo perso, annebbiato, di qualcuno che non c'è. 
La N come Norma ancora integra sulla schiuma, nella tazza del cappuccino.
Le due si spostano a un tavolino, io consumo in piedi, esco e le guardo ancora, prima di andare.
Norma è seduta, immobile, senza parlare. L'altra, la donna bruna che le sta di fronte, con gli occhioni bruni, le gira con la sua calma, la calma di una ballerina sola al mondo, il cappuccino firmato.




giovedì 13 giugno 2013

Come un (r)elitto d'impeto.


La mia verità. Penso se davvero esista una certa combinazione che riesca a dimostrare che cosa si celi dietro il perimetro del rovo. Non potrò mai sapere o dimostrare a me stesso o agli altri della mia verità, così come non posso spiegare con le parole questa condanna a imbattermi con tutto me stesso in determinate strade, progetti, ricerche. Come un delitto d'impeto.
Stanotte invece voglio abbandonarmi alla possibilità di assecondare il mio impeto, amarlo senza condizioni e restrizioni e rifiutare la mia ruminazione intellettuale, i miei pensieri. Che cosa avrà il mio impeto di meno affidabile della mia materia prima pensante, dei miei giudizi, delle mie presunte sensazioni di vero? Il mio impeto a tessere una certa trama di linee? Avrà forse fame della sua fame, della sua stessa luce di esistere? Della dimostrazione del suo essere in vita attraverso me, o sarò proprio io a essere in vita attraverso lui? E a chi mai toccherà proteggerlo se non a me?
Perché cedo e procedo, ma non retrocedo mai? Perché quest'impeto mi spinge verso il buio, che mi fa strada. Senza luci. L'impeto non ha indicazioni, segnaletiche, prontuari, coperte calde, ma ha solo il gelo del mistero e la maledizione di non poterne fare a meno. In diversi casi mi protegge e mi apre l'ombrello, in altri la gola, come un sorriso, così H. Miller, da un orecchio all'altro.
Quando comincio a disegnare ho la gola aperta e il mio flutto si riversa sul sogno nel cinguettio infelice dei topi. Una vedova lava a secchiate una tomba e mi sorride. Suo figlio mangia ciliegie e crauti, con in testa un cappello da soldato. Un cecchino punta dritto alla mia nuca. Mio padre sogna nelle ombre della mia casa. Il mio vecchio gatto morto mi graffia le ginocchia. La villa delle suore mi scruta dalla magia bianca dei suoi veli, ancora fumi dolci di minestre nel mio cuore immenso che adesso ricama isole azzurre e sfavillanti dove brillano barche a vela, skipper piene di lunghi sorrisi, cadetti, capitanerie, gabbiani, e dietro una cabina gialla e blu un ragazzino muore con una siringa spezzata dentro un braccio.
Cammino e cammino, e l'impeto mi abbraccia e mi dice che è solo quella la mia traccia, la mia voce forgiata di sperma che mi lascerà da solo al mondo.
Ma io non voglio più parlare, sono stanco di questi bagliori, ho bisogno di pace, di silenzio.
L'impeto disegna alle mie spalle su fogli già perfettamente quadrati. Acquerelli azzurrati con il sugo di una pesca che una vecchia lascia sgocciolare di notte sul mio foglio. Le lanterne notturne sudano il rosa antico nel miele di castagno, mentre un geco si ferma sulla parete rugosa e mi guarda. Alzo il naso alle costellazioni profumate. Guardo Giove, con il suo turbine d'ansia, e la luna che rimbomba il pulsar del suo glaucoma. L'impeto avanza e mi traccia la mia infinita frustrazione nel non essere accettato, capito, ma mi impone di non spostare una sola virgola. Il geco muove la coda. Una zanzara mi raggiunge il polso. Si ferma. Sento dei canarini abbaiare. Uno sparo. Una donna mi guarda da una finestra, la luce della sua casa è rossa. Sta mangiando dei biscotti e dei rospi vivi. Ha una vestaglia nera e gli occhiali doppi. Apre la bocca e mi dice di me. Di proseguire nel mistero, sotto l'incubo di un firmamento insidioso e lugubre, annuncio la mia stasi. L'impeto detta condizioni, regole. Decide del colore dei calzini, della mia pettinatura. È dentro le mie basette, le mie mani, i miei occhi, la mia ansia.
Continuo ancora per poco, voglio andare a dormire, ma dimmi, per favore, prima di andare, che cosa è vero di questo inferno, qualcosa che bruci come lo stare al mondo o sentire altre voci, o avvertire baci incestuosi nel sonno di defunti che mi amano e mi dicono di continuare. 
Ma io stanotte sono dentro il dolore. Non voglio più continuare a scrivere. Voglio solo tacere. Voglio tacere per sempre con le mie parole. Ho bisogno di fuoco, di amore infinito intorno al mio impeto, altrimenti vedo solo morte e carogne.
L'impeto mi dice che è quella la mia verità, a cavallo tra l'amore infinito del mio esprimermi e le carogne del mio reprimermi o esimermi.
A questo punto mi avvolge e mi oscura, come in un amplesso misterioso, prima di andare e di condurmi alla fine e al primo atto del mio delitto d'impeto, con cui distruggere il sogno dei miei segni.

martedì 11 giugno 2013

Condizione necessaria e sufficiente

"Si posssono raccontare in modo significativo soltanto le cose che ci affascinano, si possono creare storie o personaggi soltanto se se ne è innamorati".

David Linch

lunedì 10 giugno 2013

Campanelli di compleanno

I campanelli di un giorno di compleanno mi sono rimasti dentro, come soffi al cuore.
Intendo le scampanellate, quando è l'ora dei primi arrivati, di quelli che non vogliono perdere un solo istante di un giorno di festa, semmai sono anche gli ultimi ad andare via e ad assistere alle macerie di quello che è stato, di quello che sarebbe stato, di quasi tutto quello che dovrebbe essere stato e non è accaduto. Sono di solito proprio quegli ultimi ad andare via e anche gli stessi primi ad arrivare, che rievoco con maggiore nitore, nel tempo. Quelli che al compleanno nemmeno notavi, forse per il loro abbigliamento, che non era quello più ricercato, spesso anche i loro regali, erano sempre nell'ombra ma mi erano vicini, quando attendevo la scampanellata dei ritardatari più importanti e più illustri, quelli che aspettavo da tempo, con il cuore in gola, quelli per cui avevi organizzato il compleanno, acquistato luci, spostato sedie, tavoli, e che alla fine erano solo di passaggio, truccati da cinema per qualcosa di più importante di me che doveva accadere dopo, dopo o spesso anche durante il mio compleanno, che alla fine era solo un passaggio obbligato, un'intercapedine a luci basse, un parcheggio per provare l'impatto del rossetto – gli schiocchi delle labbra davanti allo specchio del mio bagno – e poi ricolmare la festa della loro assenza, un bacio sfuggente e via, sulle scale come ladri in fuga.
Ho sempre vissuto i compleanni con queste attese lancinanti e queste testimonianze di persone preziose e in fuga per qualcos'altro da me, che fosse più grande, più attraente, più invitante di me. Eppure non ho mai pensato male di quelle meteore, spesso in abitini corti,  dagli occhi lunghi e tenebrosi, ma nel cuore mi sono rimasti tutti quelli che non aspettavo, quelli che non ritenevo importanti. Il fidanzato di una mia amica, ricordo ancora il suo sorriso, la sua timidezza e la sua gioia, quando lo portai nella stanza degli strumenti, per fargli sentire il suono, quello che semmai non aspettavo come tanti altri, che dopo qualche anno è andato a sfracellarsi con la macchina contro un camion, per una colpa non sua, sull'Ofantina, senza speranza.
Anche quel ricordo rimane dentro l'incanto dei campanelli che hanno suonato alle mie porte, e solo adesso mi accorgo, che anche se il loro suono sembrava diverso e particolare, in base a chi immaginavo ci fosse dall'altra parte, li porto tutti nel cuore, quei campanelli, allo stesso modo, come dei figli suoni, che sono partiti e che ogni tanto mi chiamano, o che ritornano, attraverso il bello che ancora incontro lungo la mia strada. In un giorno normale, che diventa un giorno di compleanno.

domenica 9 giugno 2013

La bellezza delle mancanze


Scrivo per mancanze.
Non trovo altro senso che descrivere questa strana nostalgia che attanaglia quello che tu hai come se non lo avessi. Le mancanze sono parte di quello che ho. Sono in possesso delle mie mancanze, sono dentro i miei occhi, il mio freddo, il mio caldo. Il mio naso, la mia gola, il mio senno, la mia follia.
Sono ricco delle mie mancanze, sono l'imperatore delle mie mancanze insanabili, sempre più profonde per ogni attimo che passa e che non mi passa mai.
Non credo alla perfezione di chi è pago, di chi si sente colmato o in fase di piena.
Ogni idea che mi afferra e che mi conduce verso qualcosa, è la celebrazione di questo piccolo vuoto d'aria nella mia vita che passa...
Quando arriva la sera provo una grande e vaga mancanza e questa mancanza è il mio pieno, il mio migliore cross e caos, la mia forza e la mia sola certezza e bellezza tenebrosa. Darmi una mano o farmi una carezza da solo durante un film dell'orrore.
I miei occhi sono pieni del vuoto della mia mancanza, così la mia scrittura. Se avessi tutto quello che adesso mi manca, proverei nostalgia e mancanza per questa mancanza confusa e misteriosa, che forse un po' mi ama e mi dice di me.
Qualche anno fa mi sono accorto che questo segreto è stato svelato da qualcuno, tra l'altro dall'ultima persona a cui avrei mai pensato: ero a via Luca Giordano ed ero fermo a parlare con due amici che avevo incontrato, quando passa un'attrice napoletana, molto carina, attrice di una fiction Rai, credo che all'epoca questa fiction la davano su Rai 3, adesso recita in un'altra, diversa, ma su Rai 1; non faccio il suo nome, non conta il suo nome, ma conta il fatto che durante il suo passaggio non troppo notato – facendo parte di un tipo di celebrità ancora tiepida quanto lontana dalle notorietà strillate e troppo appariscenti – quella mi fissa come se un po' mi conoscesse, quando proprio io avevo realizzato di averla vista qualche volta in televisione, ma io non vedo quasi televisione, ma era un viso che stava lo stesso nell'aria degli occhi. Quando qualcuno che vedi per caso in televisione te lo ritrovi nelle strade della tua città,  vi è un effetto leggero di sospensione o di strana apprensione per esserti sbagliato o essere tu notato con qualcosa fuori posto, con le carte non in regola, come avvertivo in quel frangente di pochi stranissimi secondi. Lo sguardo dell'attrice rimase celebre e fermo, durante la scorsa del passaggio – era al centro di altre due persone di sesso femminile, non celebri, forse parenti strette, amiche svampite, cuginastre – ed aveva il mio stesso sguardo, quello con cui di solito mi oriento. Uno sguardo quasi accanito a leggere o a scovare qualcosa, formato della sua misteriosa mancanza d'aria, davvero così simile alla mia quasi da riconoscersi. I due amici che erano con me (forse non ancora troppo abituati a tutti gli accadimenti inspiegabili e misteriosi che da sempre mi riguardano) uno che come me vede pochissima televisione, l'altro forse era appena più informato, entrambi notarono più che la relativa notorietà dell'attrice della fiction, quel frangente e quell'intrattenersi nei miei occhi: ma che, ti conosce, Luigi?, mi chiese quello più informato dei palinsesti, ma se io non l'avevo mai vista, era solo un momento di mancanza e forse quello stesso sguardo appena stupito se non insistente e immotivato, era solo un altro attimo di mancanza, forse anche evocato, non altro. Una risonanza.
I due amici non capirono. Non ricordo che cosa dissi, proprio per niente, qualcosa come: se non l'ho mai vista?, ma intanto in quegli occhi c'era stata una sintonia di mancanza e annusamento dello stesso mood, una stretta di mood e di mancanze, come di mani, sfioramento di nasi, gomiti, visi, ma senza alcuna celebrità, desiderio, apprezzamento, niente di queste stupidate: solo questo senso di incompletezza che in fondo è una delle poche cose che davvero mi completa e mi definisce.
Ecco quello che avverto: una compagnia, ogni tanto identificata, di queste distanze con me stesso che ogni tanto tendono a ricolmarsi, come una risacca, e poi di nuovo si sfaldano e rientrano, forse perché saranno un po' il mio mare grosso.
Perché bisogna sentirsi offesi dal provare mancanza, nostalgia, dolore? Anche nell'evocarne, nell'essere motivo di mancanza. Sono sensazioni profonde, legate a quanto conosco poco di me,  al sentirsi vivi.
Si potrebbero colmare tutte le mie mancanze, e lascerebbero il posto ad altre. E anche colmate quelle altre, avverrebbe lo stesso con un altro gruppo. Credo che la mancanza, nel mio caso, sia un colore, o un lato connaturato del viso, del respiro, come un passo, una certa inclinazione, l'orecchio musicale, la generosità, qualcosa del genere. Forse perché tutte le mie mancanze sono proprio me e senza di loro nemmeno esisterei. Chissà, ma forse è proprio così, direi.


sabato 8 giugno 2013

Urbancreactivity: il sogno, l'amicizia e una città.

Esistono moltissime persone abituate a tutto quello che hanno, ma soprattutto compiaciute. Ne sono  compiaciute dal momento che lo credono assolutamente meritato, come qualcosa che gli spetti di diritto, e sui visi di chi si compiace di quanto ha per quanto sente e crede di meritare, scorgo sempre quella traccia di crema che sporca un lato delle labbra, la sazietà, ma soprattutto la mancanza di stupore e di sorpresa per il tutto. L'indifferenza e l'abitudine al ricevere ciò che sia giusto come qualcosa di naturale, di dovuto.
Sono molto preoccupato per questa crescente anestesia, che si dirama nei cuori e nei pensieri, sia nelle relazioni umane, ma anche nella ricezione delle forme espressive: la mancanza assoluta di stupore. È qualcosa di molto intenso e silenzioso che attraversa molti visi che osservo, molti profili artistici, sia nella rete che nella vita: il compiacimento di fare, che giustifica il fare: senza stupore, sorpresa, spiazzamento, emozione. Tutto è normale, funziona così, legato a una propria tentacolare economia di suzione, e a un proprio impeccabile apparato ingegnoso che depone e cova le sue uova piene senza tregua e senza cuore.
Nella mia vita, fin da bambino, sono stato abituato e dispiaciuto per tutto quello che non ho avuto. Non voglio dire di essere stato trascurato o infelice – nella mia famiglia sono stato colmato di amore, informato sull'amore, nonostante i dolori, le complessità, gli ostacoli –, ma sono vissuto sempre un po' nell'ombra, come invisibile o inesistente, forse poco accomodante o cerimonioso per i gusti di un certo mondo a cui mi accostavo. Un bambino dolce e silenzioso, abbastanza timido, introverso, emotivo, che c'era come se non ci fosse. Non ho mai avuto moltissimi amici. Soprattutto quando ho cercato delle mie strade espressive, c'è sempre stato quel buio intorno, quel gelo costante, come se in fondo le mie possibili strade non dicessero così tanto di me, non fossero nemmeno me, o comunque in ogni caso non fossero così importanti, dal momento che nemmeno io ero così importante. Sono quindi stato abituato non al compiacimento, ma all'adattamento a questo continuo ridimensionamento di tutto quello che esprimevo e che ero, come se non avesse tutta la luce e la risonanza che invece avvertivo dentro, come una febbre che non passava mai, ma al contrario, l'opacità di un paesaggio nordico e forse anche troppo complesso, senza ombre e senza luci, asettico, quasi invisibile, brumoso, con quel sole bianco e delittuoso sotto il cattivo tempo, che non riscalda ma che divora i visi. 
E tutte queste circostanze di indifferenza, mi hanno reso ancora più timido, introverso, insicuro, inadeguato rispetto a tutto quello che sentivo e che avvertivo grandissimo, ma che alla luce del sole ritornava piccolissimo, se non ridicolo. Mi sono abituato a non sentirmi mai all'altezza di qualcosa, ma alla bassezza. Io sono una persona che non si sente all'altezza, ma si sente appena alla tenerezza delle cose invisibili che avverte e che vede, di quelle che forse avverte e vede da solo.
La sensazione di non essere compresi spesso si associa con quella del non sentirsi amati. Ho amato molto, però, questa dimensione di estranietà al compiacimento, estraneità alla bocca sporca di crema di chi si nutre con indifferenza di tutto ciò che ha e che riceve, come se non lo avesse e non lo ricevesse, in questa sazietà e tenebrosa indifferenza per quello che gli si offre. 
Ho amato e amo questa dimensione di leggero annebbiamento, quanto ho amato essere una persona appartata, dal momento che mi fa stupire moltissimo il ricevere qualcosa di grandissimo: come mi è successo in questi giorni, in relazione al progetto Urbancreactivity, un'indagine poetica sulla città di Perugia, progetto innovativo e spaventosamente bello, ideato da Beatrice Ripoli e Valentina Renzulli, due attrici e registe di Fontemaggiore, della Scuola di teatro Mutazioni.
Questo qualcosa di grandissimo riguarda il fatto che una mia semplice introduzione augurale, scritta per Beatrice senza nessuna pretesa o ambizione, ma per il solo piacere di essere vicino allo spirito di un' impresa importante e comunque difficile e coinvolgente per il suo percorso di artista e di donna, sia comparsa in diversi punti introduttivi della presentazione, per stessa volontà di Beatrice, sul suo manifesto introduttivo, in altre zone del sito del progetto di Urbanact, come per un miracolo. Ma cosa, mi sono detto, non capisco...e quello che mi commuove ancora e che non mi spiego, semplicemente perché non sono abituato e non mi abituerò mai a ricevere tanto. Per cui non ne rimango compiaciuto ma rapito,  senza capire niente, per mia grande fortuna.
Questo post vuole essere una sorta di flebile ringraziamento per aver ricevuto tanto e senza aver capito, attraverso un mio gesto così piccolo, che quasi temeva di disturbare e, che  a dispetto di tanti altri miei gesti piccoli e invisibili, in questo caso, invece di essere ridimensionato, è stato amplificato, irradiato di quella sua luce, che non immaginavo potesse rievocare.
In tutto quello che io faccio e che vivo, c'è sempre questa tendenza a sentirmi un po' di troppo, a temere di alzare la voce quando qualcuno sta leggendo altro, o forse riposa o sente la radio, di invadere un certo territorio già occupato. A non avere posto, spazio. 
Ma invece, con questo gesto così intenso e commovente di Beatrice, mi sento come se avessi ricevuto un invito da una compagna di classe lontana, arrivata dal nulla, da una scuola mai frequentata ed esistita, attraverso cui ritrovare e recuperare quel coraggio e quella sicurezza che forse credevo perduti, attraverso il sogno dolce di un'amicizia e di una città...

venerdì 7 giugno 2013

Questa è l'ora

Questa è l'ora più cupa e sospesa dove avverto la dolcezza dei miei antenati defunti stringermi dalle spalle, poco prima di spegnere la luce. C'è qualcosa che mi intrattiene, il non avere detto tutto a qualcuno che aspettava di sentire ancora di me. Il sapere quello che immaginano di me, anche in questo momento notturno in cui li rievoco e mi lascio nel vago della loro esistenza e risonanza – spesso immagino una guancia che sfiora le scapole, una spalla, l'umido delle labbra sulla mia nuca e sul mio sonno. 
Quella che mi vuole più bene la sento nell'aria, e forse è l'unica tra i miei defunti che mi protegge e mi  rassicura. Se dovessi davvero sentire per caso la sua voce di sedicenne di primissimo novecento, come ho immaginato nella relativa finzione di un mio racconto, non credo che scapperei. Quanto avrei da dirle, di quanto si è perduto, ma anche chiederle di come legava i capelli e di che trucco usava tanto tempo fa e se mi sentiva già un po' nell'aria, come io sento adesso nell'aria lei...Non so chi mi disse che la mia straordinaria fantasia di scrittura, così particolare e delicata, in qualche modo potrebbe riguardarla. Le prime notti d'estate, quando i miei erano fuori a parlare e io ero già a letto ad occhi aperti, aspettavo davvero che la piccola antenata mi lanciasse un segnale, senza spaventarmi troppo, semmai dal bagliore di un faro che tremava dalle imposte vecchie di una casina rosa di Testaccio, o dalla musica lontana di un night. 
Forse nei momenti di maggiore disordine e solitudine la dolcezza dei defunti, avvolti nel mistero della loro sorte, mi entra dentro, come un profumo lontano, un rimorso, una spina, un innamoramento. 
Ma questa ragazzina così sperduta, davvero non mi lascia mai. Non mi hanno mai detto il suo nome, credo nemmeno sua sorella mi ha mai voluto dire il suo nome di giovanissima suicida, non era nemmeno maggiorenne, piccolina, ma perché mai? Chi sarà mai stato,  e che cosa ne sarà di quello che si è provato, del vostro primo incontro, delle vostre passeggiate? Chissà il colore delle tue calze di quell'epoca e le tue scarpine nuove o prese in prestito da Elvira e quale stradina del mio Vomero avrai mai costeggiato col cuore in gola, e quante camicie avranno stretto la tua ansia, prima che calasse la sera, e quando sarà mai cominciato il crepuscolo, fin dentro i tuoi passi fumanti di buono, o annebbiandoti il viso che si gira all'improvviso, forse un colpo di vento, e se solo qualcuno ti avesse scattato una foto, anche una sola soletta, un solo occhio aperto per il sole, e quanto tempo avrai sognato prima di quel giorno ultimo. Se adesso io potessi sollevarti il mento anche con un solo dito di una mano, e chissà se hai mai provato a scrivergli, al tuo grande dolore maledetto e avventuroso, ma perché non mi guardi ora, se sentissi con quanto amore adesso ti scrivo per consolarti, anche una pagina ogni sera della mia vita mi sento di dedicarla anche a te, dimenticata dal mondo che non ti sa e non sa nulla di questo dolore immenso e del suo retroscena segreto, tutto ancora fumo, con questo broncio comincia la pioggia e la casa ripiomba in un silenzio irreale e tremendo. 
Tutto tace, da avvertire il suo respiro, il suono del suo muco che le spezza il fiato e che la fa ridere dentro le lacrime, almeno per un attimo ancora, credo che in queste parole ci sia anche un po' di lei, come in una scrittura ragazza anche con centoventi anni di ritardo, scritta con eleganza, una gamba sottile accavallata sull'altra, ma adesso dovrei chiudere questo strano e delicatissimo affronto spiritico alla mia nostalgia – perché non hai trovato il tempo – potrebbe commuovermi davvero troppo, questa ragazzina vispa e sperduta che davvero non mi lascia mai.

giovedì 6 giugno 2013

A treno già partito:

Ci si accorge di sé e di quanto si è vivi, per quanto dentro ci arrivino le immagini attraverso la memoria. La memoria, in alcuni frangenti, parla per immagini. Non ha sempre un suono ma una sua luce nativa, o luce prima, che riesce a rimanere accesa nel tempo e a dirmi di me.
Ritorno alla prima persona e ricordo, imparando quello che sono e che sono diventato, per quello che il ricordo mi racconta di me. Del me ricordato che è lo stesso che sta ricordando, ma sdoppiato.
Ero in un treno locale per raggiungere una località del basso Lazio. Credo di avere avuto circa quattordici anni, o qualcuno in più, non ricordo con troppa esattezza l'età, ma ricordo il mese – luglio – e ricordo una ragazza che doveva scendere alla fermata di Minturno, che era in piedi, io invece ero seduto su quei seggiolini arancioni che scattano automaticamente all'interno quando li lasci, di solito erano presenti, in quei treni, sulle aree barcollanti e metalliche dove si trovavano le porte automatiche. 
E da quel punto, mentre il treno cominciava a rallentare, dalla camicia bianca di quella ragazza appare un seno nudo e perfetto, come un fantasma dal vetro di una casa innevata. Si scorgeva il capezzolo teso, il rosa della pelle del seno morbido e ben formato, ombrato dal tessuto leggero e schiuso della camicia, appena reattivo ai sobbalzi dello sferragliare del vagone. La ragazza aveva dei capelli lunghi e in testa un cappellaccio da cowboy. Un viso avventuroso e sicuro di sé, che mi incantò come se fosse un fiume, una montagna, un airone. 
Quello che mi ha colpito di quella visione, è che nonostante le mie tempeste ormonali, si tramutò, sia al momento stesso che nelle successive rivisitazioni, anche in quello stesso frangente di discesa, in un momento di tenerezza e di stupore sconfinati, molto lontani dalla sola pulsione a chiedere il permesso di allungarvi una punta del naso o della lingua, o di chiederle se morde e quanti anni ha, come si farebbe con un cane. In quel momento quel seno mi aveva cercato, aveva cercato dalle sue ombre di quella camicia la mia vita solitaria e rabbiosa di viaggiatore quattordicenne rimandato a settembre, credo due se non tre materie, e aveva incontrato il mio sguardo, come in un sorriso.
Esistono uomini,  persone che conosco e che ho conosciuto, che accompagnano molto spesso la visione di una parte del corpo di una donna, con imprecazioni ai Santi, bestemmie varie, maledizioni o parolacce, che includono le posture più diaboliche a cui il povero soggetto femminile, malcapitato e osservato, avrebbe dovuto sottoporsi per la colpa della sua bellezza. Una sorta di castigo, per il solo fatto che quel corpo così appetibile non sia in proprio possesso e che la donna che lo ostenti nasconda sotto i capelli le corna e sul fondoschiena una codina arricciata.
Invece a me quell'immagine mi ha trafitto di una malinconia infinita, per il fatto che la proprietaria di quel seno, dal cappello avventuroso di cowboy, non l'avrei mai più rivista. Non ho mai minimamente pensato al fatto che sotto non portasse niente come una sua forma di seduzione o di colpa: questa è stata sempre una dimensione lontanissima da me. Non sopporto chi debba punire una persona per una sua ostentazione involontaria, come immagino che fosse, ma anche nel caso avesse continuato a farsi osservare sua sponte in quella feritoia pomeridiana, mi avrebbe donato un ricordo tenero, senza parole, che forse ha ancora il suo valore delicato di sogno. Un ricordo simile alla tenerezza di un polso, di un braccio da una manica corta di cachemire, di una piccola nuca, di un sorriso che non rivedrò ma che nemmeno perderò più.
Lasciamo che la bellezza di una donna si esprima senza addentarla. Addentare un seno con troppa forza, anche solo imprecandovi contro perché è stato mostrato, è come sgualcirlo. I seni delle donne vanno sognati, e disegnati, qualche volta sfiorati con gli occhi e poi ricordati. Così come quel cappellaccio da cowboy, che ogni tanto mi fa sentire uomo per il solo fatto che da quella tesa appena inclinata mi arrivò a sorpresa un magnifico sorriso, a treno già partito.

mercoledì 5 giugno 2013

Il silenzio disabitato

Avverto sempre un carico di emozioni irreali, che attraversano non soltanto le dinamiche dei miei processi creativi, ma diversi passaggi della mia vita; come se queste emozioni mi arrivassero da altri, non fossero le mie o le assimilassi, le prendessi nell'aria, come raffreddori.
In questo misterioso incontro di risonanze, mi accorgo insieme di crescere e di inciampare, di precludermi la semplicità di alleggerire il carico, senza rendermi conto che quella ferita è parte naturale di me, a volte una feritoia con una luce di un interno, che mi aspetta per cena.
Mi accorgo di sentire la febbre di questo carico e di dover spalancare le finestre per fare aria. E quando le finestre sono aperte ed entra l'aria, io chiudo gli occhi e penso. Rimango con gli occhi chiusi e l'aria sulla faccia e scrivo, nel silenzio, senza gestualità, obiettivi, correzioni, trame.
La forma più raffinata dello scrivere, oggi, è quella di non farlo. Di odorarne la sola possibilità, davanti a una finestra, senza lasciare nessuna traccia viva.
Quale momento sarà più prezioso del silenzio di un essere umano, la sua perfezione è murata nella sola possibilità di dire ma di rimaner muti, ancora, ancora per poco. Per favore, almeno una lettera, ancora, ancora per poco, si scrive quando arriva il sonno, o quando un tuono ti scuote e ti accorgi di non sentirti più come eri. Recuperando il silenzio io recupero l'ascolto del mio silenzio. La mia voce non deve avere bocca ma orecchie. Le mie orecchie devono avere bocca. Il mio viso davanti alla finestra si imbeve di aria e della stenosi di questo carico del sentire e del non poter dire. Se dico di quello che sento, se chiedo a qualcuno di ascoltare quello che io sento, avrò smesso di sentire e quindi di poter davvero dire. Non si sente qualcosa per poter dire, così come non si passeggia per raggiungere un luogo sicuro, ma a volte per perdersi. Si sta perdendo il gusto delle passeggiate sognanti, senza direzioni, lo scriveva Alan Watts, possono risultare sospette se non hai una meta, qualcosa da fare, da comprare. E ritornando al mio dire e al mio sentire, non sono così essenziali. Perché non deve bastarmi il mio sentire per doverlo per forza dire? Per dimostrare a qualcuno che lo sto ascoltando? Che il mio dire, il mio poter o voler dire, sia la prova tangibile che io avverta qualcosa di più, di diverso da chi non dice e che quindi tace? Che cosa mi dice che quello che dico è qualcosa di solo detto e scritto, ma di non sentito? Che cosa distinguerà un paragrafo originato da un carico di emozioni irreali, di sensazioni patite, da un paragrafo di parole solo scritte? Dove si trova il confine? Quanto silenzio e quanta purezza e perfezione sto sottraendo alla mia vita con queste parole? Eppure i miei più grandi amici, quelli che mi vogliono davvero bene, non mi chiedono di ascoltare quello che hanno da dire o da scrivere, ma mi arrivano dentro all'improvviso, da soli, facendomi sentire pensato. Ho la certezza di sapere quante persone oggi mi hanno davvero amato e pensato. Ne sono sicuro. Non sono persone che me lo diranno, ma lo so uguale. Uno scrittore in silenzio assoluto ritrova la sua rotta, la dolcezza e le voci degli amici che lo amano davvero, anche quanto tace o non c'è. Riprende la magia dell'ascolto, che dovrà interrompere solo quando non gli sarà più possibile tacere, come nell'incombenza di uno starnuto improvviso, che non puoi più trattenere e che infrange il silenzio senza colpe dirette o moventi.
Con la mia editrice ed editor Aura, devo stabilire in questi giorni se rinnovare un contratto con i distributori, per un mio vecchio romanzo oscurissimo e dodecafonico, "Il disabitato", ma a cui lei ha dato fiducia con tutto il suo ammirevole quanto amorevole coraggio. Ho avuto dei dubbi, dei dubbi legati a quanto fosse lontano quel linguaggio dal mio me di adesso. A quanto fosse lontano da questa fame di silenzio che vorrei imprimere alle mie parole. Questo non sono più io, ma non posso rinnegarlo. Come non rinnegherò quello che sono adesso e che più non sarò. È per questo che non si arriva mai.
Poi stamattina ho riletto uno stralcio, che mi ha convinto a firmare. Lo farei a breve:
è questo:


Una Tolosa che mi soffocava irrimediabilmente dentro la sua arnia tardoromantica. Un panno scuro disteso sul viso di una statua rischiarata al bagliore dei lampi in una cappella napoletana. I disegni delle grate in filigrana, sulle pareti la muffa dove la figura rimane distesa e spaventata. La commozione di una persona abbandonata, dove cominciavo appena a scorgervi ancora dell'altro che mi mancava e mi disturbava nella sua stessa mancanza. Dell'altro che non dipendesse necessariamente da me, e virasse attorno a quello strano programma di sala, ancora caldo sulle vite di chi aveva in qualche modo sfiorato e risucchiato di frodo la mia bocca o il mio impossibile sibilo di fame.
Adesso il mio sonno non planava e non mi prendeva, ostile nella sua grana viscosa di dattero, nel vortice di azzurri nel marmo mai scolpiti sull'acqua che scendeva e sgorgava di rosa antico, e i miei occhi aperti, forse per un respiro di streghe dai capelli sciolti e forcine appuntite dai lunghi e silenziosi corridoi, che tra poco avrebbero bussato e perforato di spilli da balia i miei ultimi lucidi pensieri, e me li avrebbero proibiti con la minaccia dei loro seni lunghi e appuntiti e sgocciolanti di liquori verdastri. Quelle stesse luci che tremavano al quinto piano come ceri e che adesso mi facevano tremare il doppio, al solo pensarle ancora accese e associarle all'incanto doloroso di una tenebra moderna. In un gioco specchiato di mimi, che tentano di incontrarsi e non si incontrano mai: di sfiorarsi, di rianimarsi, di toccarsi, di riequilibrarsi, e non si sfiorano, non si rianimano, non si toccano, non si riequilibrano mai. Qualcuno allora mi cercava, chissà da quando. E l'antico Giuseppe di Rachele, che guardava la sua luna e sopportava le spezie urticanti dell'Egitto e la calma di un destino supremo di cieli arabescati, che lo abitava nei tratti deboli di tramonti e allontanarsi, con le strisce variegate dei suoi brandelli. Ancora la sua debole e dolce sagoma, appena più ricurva sull'asina bianca come latte, o come la neve ferma e più calma, mai sciolta e magnifica della sua purezza ben rappresa sul pelo corto. Dove cercavo il senso del mio sangue senza suoni.
Di notte. Ormai la più fonda tra le mille e tra tutte le più fonde mezzanotti immaginate o mai raccontate. Come il gioco dei mimi che mi raccontava Tim; o la giostra irrazionale dei numeri nel caso, o dei salmi, che mantengono fermo il mondo e non lo fanno mai tremare. Come lo zero è sempre fermo e conficcato, tra il cinque e il sei, della stanza 506.
Come il grande dito premuto nel buco del nodo prima dello stacco del fiocco.


martedì 4 giugno 2013

Sui processi di finzione

La finzione non è un apparato troppo complesso, ma in diversi casi è inafferrabile.
Occuparsi in qualche modo di finzione, pur non comportando l'ingegneria delle attività di  non finzione, ha bisogno di una direzione molto intima di un proprio moto reale, in un certo senso una sua predilezione.
Il reale non potrà essere mai troppo scisso dalla finzione, e viceversa. Nulla di nuovo, quindi.
Se dovessi scrivere una qualsiasi storia scorporandola del tutto da un contesto reale e di intimità con la mia vita vissuta da sveglio, che mi appartiene, in quel caso opererei un inganno. Questo perché vorrebbe dire escludere dalla narrazione, l'intimità della finzione legata al mio stesso reale, la finzione legata alla mia intimità, alle mie sensazioni, ai miei sogni, ai miei rapporti con gli altri, con quello che vedo o che credo di vedere. Nel senso che la mia realtà è anch'essa ammantata di sogno, di nebbia, di mistero, così come il mio intento di ingegnarmi in un'opera di finzione.
Non tutto ciò che si è vissuto, che quindi è testimoniabile da più fronti, da persone vive come me, che possono quindi ricordarlo, certificarlo, è assolutamente e solo reale. Lo sarà in parte, ma avrà anche una sua dimensionalità intima e delicata di finzione, di sogno, di sospensione. Questo confine è davvero molto labile, e, parlo nel mio caso, è legato al sapore e alla rievocazione che comporta l'accadimento di una certa realtà, in tutto quello di me che ancora non so e che lo assimila, lo elabora e lo diversifica nell'ombra del suo riflesso. Ed è con quella parte di me che ancora non so, che incomincio di solito il viaggio; è proprio con quella parte riflessa che non so, che non so quindi se viva, reale, testimoniabile, certificabile, che mi accosto alla mia realtà, non solo nella sua investigazione, ma anche nella sua suzione, o fruizione, per sentirmi vivo. Mi sento vivo più per tutte le cose che non ho fatto o che non ho sentito reali nel farle, che per tutte quelle conclamate come realizzate, quindi reali e testimoniabili. Mi sento in forse se quello che ho vissuto l'ho sentito davvero, quanto quello che non ho fatto, che non ricordo di aver fatto con quel sentimento di stare in vita o in coscienza, che di solito caratterizza il movimento e le dinamiche di chi realizza qualcosa di vero e di reale. Io a volte sono abbagliato da una linea tenera di confine, dove tutto un po' si mischia, come una figura che mi balugina a riva, con il mare e i riflessi del sole sull'acqua alle sue spalle, in controluce, senza svelare il viso  ma riconoscendo che il suo braccio sta salutando solo me.
Quando vivo non sono soltanto vivo, e quando fingo ho molto del mio reale e quindi della mia finzione misteriosa che è legata al mio reale e che non afferro mai del tutto.
I miei sentimenti sono reali ma insieme nascosti; quelli che utilizzo per sorridere, per scrivere un racconto o a un mio grande amico/a, sono parte e insieme non parte di me. Non mi sento di essere in possesso di qualcosa. Mi piace che sia io a essere in possesso di una certa dimensione che mi sospende nell'intercapedine dei due stadi, dove spesso è bello perdersi senza sapere dove comincia e dove finisce il film.
È per questo che un qualsiasi processo di finzione, pur non comportando la complessità di certe attività, rimane qualcosa di inafferrabile, che spero con tutto il mio cuore di non svelare e di non afferrare mai.

lunedì 3 giugno 2013

Après un rêve

Mi capita di sognare ma raramente un sogno mi ha riservato tanta delicatezza e affettuosità.
Si tratta di una parte di sogno, l'unica parte caratterizzata da delicatezza e affettuosità, così come nella vita reale e non sognata, la delicatezza e l'affettuosità non sono più di moda, sono antieconomici, elementi ottundenti, indici di torpore, femminilità latente, debolezza, abbandono, lirismo decadente e pernicioso. Solo la violenza oggi funziona e brilla, come un albero di Natale. Intatta e imperturbabile nel suo fascino, per tutti i gusti e per tutte le età.
Invece l'unica zona di sogno limpida, era anche quella con una luce diversa intorno. Mi trovavo lungo una discesa polverosa, il selciato era fumante di pietre e di tufo; era un pomeriggio ancora luminoso, come potrebbero esserlo quelli di maggio o di giugno. Scendevo e incontravo questo viso, un  viso di una ragazza, appena carina ma non bella, quella carineria che sfuma nel quasi bruttino, che è quella che mi incanta di più oltre ogni altra pronuncia conclamata di bellezza: aveva degli occhiali, quel viso che non ho mai visto nella mia vita ma che conosco e riconosco come persona della mia vita. Esistono visi mai visti ma già noti, già appartenenti a qualcosa di nostro, anche se forse mai apparsi nella nostra vita.
Sono sempre stato convinto anche del contrario: molti visi e persone già comparse e note, non esistono nella nostra vita, pur attraversandoci e mai avranno la forza e la delicatezza di quelli inesistenti ma noti. Quei visi che esistono anche senza esserci, sono quelli che moriranno di meno, forse mai. È nota, almeno nel mio caso, la possibilità che la loro esistenza, anche se ignota a me, mi riguardi e abbia cura di me.
Era quel viso con degli occhiali che mi passava accanto, prima di entrare in un vecchio portone  e io ricordavo di averlo già visto e anche l'altro viso ricordava di avermi già visto, anche se ero certissimo che non ci eravamo mai visti. Prima di entrare nel portone, mi attraversa la malinconia di quel momento così affettuoso, poche parole, la linea incerta di un sorriso appena pronunciato, prima di salutare, anche perché avevo detto qualcosa di semplice e di affettuoso, che non  ricordo ma che è ancora presente nell'aria della casa. Quando il viso è svanito nel portone, ho provato una nostalgia lacerante e violenta, quella che ancora adesso che sto scrivendo mi porto dentro, come se quel sogno mi avesse sporcato della sua forza o della sua bava onirica, o forse si fosse insinuato da qualche ingresso segreto dentro di me.
Il resto è sfumato, ma il mio viso risente di quel momento semplice, piccolo e misterioso, come risentirebbe dell'agonia di un incubo, ma con maggiore intensità. Forse se qualcuno adesso mi guardasse potrebbe ancora scorgerne il riflesso o l'odore, la timidezza, l'indisciplina della sequenza di sorriso, la fretta, l'impossibilità di rincontrarlo ancora, come se quel viso fosse me in una sequenza in 16 mm. Ma forse davvero lo è.

domenica 2 giugno 2013

Nome proprio in Acrostico

Volendo
assalirti
le
tasche
e
restare

Vicino
alle
lettere
timide
e
raccolte

rubando
emozioni
tepore
luci
alberi
Venezia

ragazzina
elegante
ti
lampeggio
abbracci
Velocissimi

Vivendo
arrampicato 
lungo
tettoie
e
rosai.

Comprensione, compenetrazione e suggestione in José Lezama Lima.

Mi chiedo se conti così tanto l'essere compresi anziché l'essere avvertiti, sentiti. La comprensione scandita come un campanello per il pranzo di un proprio linguaggio potrebbe avere le carte in regola, ma rimanere codificata in uno strato superficiale, in completo ordine, ma senza nessun altro fattore oltre la scrupolosità e la chiarezza di quest'insieme. Nessun crimine ma neanche nessuna buona azione.
Si potrebbe anche dire: se sono chiaro e comprensibile, sarò anche avvertito, sentito, scandito. La comprensibilità comporta efficienza nel metodo del mio linguaggio. L'efficienza del mio linguaggio permette una sorta di comunione, di discesa in una certa regione di intimità che favorisce la fase di resa del sentire, quanto meno il suo seme commestibile.


La matematica direbbe questo. Forse la matematica ha anche una sua dimensionalità poetica, ma non credo che in questo caso le cose vadano sempre così. Si tratta di analizzare quello che accade perché un certo apparato linguistico cominci a smuoversi dalla sua tessitura e diventi anche altro. In tutto questo altro, non sempre vige la regola del comunicare, del farsi capire o essere semplicemente commestibili, se non appetibili, come molti editori vorrebbero. Non sempre il capire e il sentire sono vasi comunicanti. Può accadere che nel suono di una certa scrittura, alcuni momenti mi lascino delle chiavi, che sono indipendenti dal mio personale livello di comprensione. Comprensione e compenetrazione si muovo su spazi non sempre lineari, così come la riflessione e la suggestione su di uno stesso testo. Se io comprendo con attenzione scrupolosa, potrebbe essere merito della mia dovizia di lettore o anche della scrupolosa lungimiranza di uno scrittore attento che nulla di quello che ha scritto e descritto venga in nessun modo tralasciato  nell'ombra, frainteso, non intuito. Ma se io sento e mi suggestiono, il tipo di canale comunicativo non dipenderà solo e sempre da una mia ricezione intellettuale e nemmeno da una mia volontà di concreto abbandono alla sensazionalità o intimità di quel certo testo. Non scelgo di suggestionarmi, spesso non comporta uno sforzo né dalla parte del lettore né da quella dello scrittore, ma è quel punto misterioso di incontro che si innesca in una regione primordiale  e primitiva, lagunare, che si sposa più alla ruvidezza del numero e codice semantico, del suo significante, della sua luce, che all'analisi più complessa e articolata di un suo significato logico, misurato in base a una sua precisa finalità.






"Paradiso", di José Lezama Lima, credo di averlo letto circa quattro volte. In momenti diversi della mia vita. La traduzione di Glauco Silvestri (insigne specialista di quei particolari territori linguistici) ha chiarito, fino alle ultime pagine, la grande impresa e la complessità di una restituizione appropriata in un'altra lingua, di sonorità, sfumature e particolari suggestioni e profumi della lingua cubana originaria di quel testo. Ma anche la formula narrativa, il tipo di impostazione, mi ha creato fin dalle prime volte, un grande senso di incertezza e inadeguatezza a controllare la massa di prosa poetica e saggistica di Paradiso ("il rovistare nel midollo del Sambuco", citando lo stesso Lezama Lima), il pericolo di perdere la strada, o meglio la rotta. E infatti durante tutta la lettura, attraversando personaggi e paesaggi, immagini dalla nitidezza cristallina ma anche dalla capacità lancinante di trafittura, tra contesti, situazioni, materiale onirico e labirinto, questa rotta si perde, ma quel tipo di scrittura mi ha attraversato di sensazioni, di moti sensibili, in una sua linea parallela, autonoma e scissa dalla comprensione meramente e solo intellettuale di quell'impianto romanzato in un amplesso intrinsecamente poetico quindi oscuro. 
Che cosa significa, allora,  ambire a quel particolare livello di comprensione o di compenetrazione nell'ingranaggio di "Paradiso", quando l'elemento sensitivo riesce a subentrare ugualmente, attraverso portelli posteriori e segreti, e lasciare comunque la sua traccia, il suo marchio, il suo humus di intimità, come farebbe una lumaca? Vorrebbe forse dire che allora, nel mio caso, una certa comprensione sarà avvenuta lo stesso, anche se non conclamata da conferme o controprove, quella che di solito quel certo agio di avere sempre i fatti raccontati sotto controllo, portano a definire chi scrive uno scrittore grande perché chiaro, semplice, immediato? Lezama Lima è invece grande perché riesce a comunicare dalla prospettiva esattamente opposta: le chiavi della compenetrazione e della comprensione, necessitano dell'intensità di un processo iniziatico e suggestivo, della generosità degli aromi, delle essenze fruttate di cui è impregnato e speziato tutto il romanzo, fin dai suoi primi battiti:
"Ma come può commettere lo sproposito di aggiungere gamberi cinesi e gamberi freschi a questo piatto? – Izquierdo, ansando e stirando le narici come un trombone a coulisse, le rispose: – Signora, il gambero cinese serve a rafforzare il sapore della salsa, mentre quello fresco è come i pezzetti di banana, o le cosce di pollo che in alcune case aggiungono al quimbombó, per dargli un certo sapore di ajiaco esotico. – Tutta questa sofisticazione, – disse la signora Rialta, – non si addice troppo a certi piatti criollos –. Il mulatto, dall'alto della sua collera concentrata allontanò il francés dalle tenere cipolline e lo sollevò come punto da una scossa. La signora Rialta, senza perdere il controllo, lo guardò fisso e il mulatto se n'andò a lavare i piatti e a pelare patate con la faccia gonfia e i capelli ingarbugliati da contrabbassista".




Nel mio caso, intendo nel caso delle mie ripetute e odorose letture, fruttate quanto altamente fruttuose di "Paradiso" invece, è stata la sua stessa incantevole complessità, "il batticuore dell'avventura", (citando senza mai stancarmi Gesualdo Bufalino), ad avermi dato quella chiave limpida e impavida di accesso e di volta alle pulsazioni più profonde del romanzo, ai meandri delle sue segrete appena rigate da un filo di luna. Per alcuni allora l'avrò compreso, ma comprendere cosa? E se invece quell'elemento sensitivo e fisico alla proliferazione di un linguaggio, fosse davvero l'unico metro per attraversarlo, compenetrarlo e assimilarlo? O sarà davvero soltanto un manuale di istruzioni, un romanzo, per  assemblare e montare qualcosa dentro di me e lasciarla inalterata, come una roccia, o per riuscire a spiegarla nei minimi particolari a chiunque altro utilizzi la lettura dei romanzi come manuali di istruzioni per assemblare informazioni e istruzioni, il funzionamento e il perché di ogni particolare passaggio. Penso che il senso di quelle quattro rivisitazioni di quel testo ciclopico, mi hanno portato a dimenticare le problematiche del suo funzionamento, la disposizione esatta dei bulloni, lasciandomi lo spazio per capire come funzionavo e modulavo io di riflesso e di concerto alla criticità incantevole e insieme paradossale dell'impresa. Confidando sempre in uno spazio diverso e particolare nella regione delle sue mucose, quella dove non batte sole, dove prevale la penombra e dove i brividi lasciano poi affiorare altre verità, altre informazioni, che di sicuro non mi saranno utili per spiegare a qualcuno che me lo chieda con insistenza che cosa abbia compreso da quelle ripetute immersioni, ma forse anche  cosa abbia atteso o disatteso da quell'esercizio o sforzo di comprensione e disillusione, quando ero già divorato dalle stelle e dagli odori freschi di una poetica fertile e così illusoria, accattivante, divorante che poi  è il vero e unico senso incompiuto, per nostra fortuna, del leggere e dello scrivere letteratura e opere di ingegno e di finzione.
Concludo con qualche nota di Javier Marías, estrapolata da "Contro la sarta e l'arredatore" da "I territori del lupo", in cui si fa giustizia su certe modalità di approccio alternative, e spesso discusse e chiacchierate, sulla possibile compenetrazione di altre prospettive stilistiche:





"Ogni volta che leggo e sento dire a uno scrittore o a un critico banalità o tautologie come "il romanzo consiste nel raccontare una bella storia e nel raccontarla bene"; o sostenere che "l'essenziale in un romanzo sono i personaggi e l'azione"; oppure "l'intreccio"; o che il romanzo deve riflettere la vita o la realtà o l'epoca" o che "tutti gli elementi devono funzionare e accordarsi"; o che "la storia deve chiudersi"; o che "tutte le sue parti o episodi devono essere pertinenti"; o quando si dice che questo o quell'elemento "non aggiunge nulla all'insieme"; o quando si tessono le lodi del "semplice piacere della narrazione", o del fascino dell'intreccio", o della "maestria artigianale del racconto"...Ogni volta che leggo o sento proferire certe scempiaggini, – ripetute fino alla nausea, almeno in Spagna e in paesi consimili –, la mia prima reazione è lo sbadiglio, dopo di che non posso fare a meno di pensare che rimarrebbero esclusi dal riconoscimento di tali meriti, virtù o qualità, e non assolverebbero a tali doveri, compiti o precetti, quasi tutti i capolavori che il genere ci ha dato [...]". (Javier Marías)

Credo, anche con quest'ultima preziosa citazione di Marías, di aver espresso e completato il mio pensiero.
Me lo auguro.