Nella polifonia di un romanzo prevale sempre il tormento, fino all'ultimo, di sistemare al meglio quel primo cassetto. Di mettere più in dentro quella federa, quella camicia a righe, quel pullover. Immaginando le mie prossime pagine da organizzare, correggere, semmai cassare o cestinare, come parti di un corredo pesante, ricolmo di abiti e accessori indigesti di un'intera vita, dove mettere ordine non significa solo buttare, ma ricomporre, a volte elaborare del nuovo disordine. Buttare di solito è giusto, ma è anche più semplice.
E buttando via il cappotto di un Natale di quattro anni fa, come la mettiamo con i rigori dell'inverno, se non ne possiedo uno nuovo e che riscaldi uguale? Allo stesso modo per quella camicia, che ha un colletto decisamente consumato, ma non è escluso che non si possa girare e poi ha un colore che mi piace troppo, davvero. Immagino che sia un regalo, non ricordo se di onomastico o di compleanno, che capitano sempre a breve distanza l'uno dall'altro. E quei pantaloni sono rossi. Troppo rossi, non ricordo nemmeno se si portano più. In una costruzione romanzesca, questo cambio di abiti e di scena, diventa in certi casi una sorta di scenografia fobico-letteraria, dove si deve cominciare a prendere gli abiti a manate, a portarseli ancora caldi sotto il naso, affondandogli dentro la faccia, a volte come si fa con le magliette di un defunto, per percepire ancora la sua ultima sudata dentro il collo a barca o con quelle mutandine troppo nere e crudeli, rubate in un campeggio a una ragazza che ci piace.
Nella revisione di questo mio romanzo, negli ultimi passi di un ultimo atto, che nello stesso tempo avverto sempre come primo, rivivo gli odori lugubri degli abiti passati, come di quelli nuovi, usati, incellofanati, con il rumore dei cassetti difettosi, il cigolio delle ante e una sorta di riunione tra i morti e tra i vivi, che resistono per ogni attimo nell'amore e nello sgomento condominiale delle mie parole già chiuse, cercando a fatica di aiutarmi a forzarle, ma senza obbedire o finire mai.