L'inadeguatezza di solito percorre le trame di ogni singolo passo di chi cerca la propria voce in un certo linguaggio, specie quando ne è ossessionato – dubito in possibili schiarite creative che non siano accompagnate da una sufficiente oscurità ossessiva di fondo, come di tormento, se non di totale invasamento.
Ogni momento/tormento creativo, pensavo, se non sufficientemente puro e quindi antiutilitaristico, rischia di percepirsi a livello razionale sempre come commisurato a quello di qualcun altro, quindi quasi sempre inadeguato, rispetto a quello di questo qualcuno che lo farebbe e lo avrebbe fatto meglio, quindi a un certo standard di eccellenze amate o anche solo mirate per il gusto del sentito dire. Ma anche commisurando il fatidico momento creativo a un qualcuno che lo avrebbe fatto semmai nello stesso nostro modo o livello, ma perpetuando, a nostro discapito, questo momento con una serie di varianti e in quantità di gran lunga maggiori rispetto alle nostre, sfoggiando il proprio lirismo in una esasperante orizzontalità.
Di solito capita di sentirsi molto inadeguati per la quantità eccessiva e considerevole di opere espresse da altri artisti, assai difficilmente per averne appurato la qualità impressa di ciascuna di queste, quindi la loro prospettiva più intima e verticale – che non sempre si percepisce con la stessa chiarezza delle grosse scorse bio-bibliografiche, in cui di sovente ci si imbatte e ci si perde.
Difficilmente, immaginavo ancora, intimorisce il taglio perfetto della lama, segno di un momento espressivo potente, delineato dalla particolare combinazione di elementi estetici, psicologici, introspettivi, espressivi, tali da renderlo eterno, (molto di più di un generico insieme, anche smisiurato, di momenti letterari più comuni, anche se pregiati) quanto, al contrario, quel lungo elenco di innumerevoli creazioni, che anche se non ancora lette, attestino di per sé e alla nostra sensibilità quel certo valore assoluto e in automatico il senso di inadeguatezza e di annientamento, nel non aver gestito, nel nostro rispettivo passato e in egual misura nell'attuale, il nostro tempo artistico al confronto – e quindi quello reale e umano – per eguagliarne l'intento in quella sua estensione.
La misura del quanto, come metro del giusto, del talento che sia più grande quanto più copioso di frutti il suo ramo, (senza però parlare delle vendite di questi frutti) quindi, sarà uno dei motivi di maggiore frustrazione che oltre a causare inadeguatezza porterà l'artista di turno, semmai il meno definito e più insicuro, o a mollare del tutto, o, al contrario, a macinare quantità industriali se non indiscriminate di parole, prima che la morte lo colga, sognando di preservare già ai suoi contemporanei la stessa sensazione sospesa provata nel perdersi negli elenchi delle opere altrui, dimenticando la ricercatezza di quel poco che si fa raro. Sarà questo il parametro adeguato che darebbe un senso nell'esprimere la propria voce? Il commisurarla sempre e solo a quella di un altro? Possibile che sia tutto qui? Pensando a Simenon e a Henry- Pierre Roché, i due estremi opposti per eccellenza, come potremmo affrontarla la questione? Se lo chiedessimo a Truffaut, per esempio?
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