Dovendo misurare in chilometri gli slanci in avanti del mio ardore, sarebbe interessante stabilire quanti sono stati smossi da paura e quanti da pura gioia di esistere; e per essere più precisi: quanta più strada mi ha portato a fare la paura di esistere rispetto alla gioia o viceversa.
Strano, ma stasera ero convinto, anche se potrebbe suonare strano, – perché di solito la sottoscritta è paralizzante – ma i grandi spostamenti, le improvvise deviazioni, i chilometri sopraggiunti di colpo e non previsti, me li ha spinti in avanti sempre la paura. Con scelte di ardore mosse dalla paura, avverto di aver fatto più strada. La gioia mi ha portato forse l'intensità, l'entrare dentro, verticalmente, nell'alveo di un certo passo, o momento storico o controverso di quel passo. La paura è stata sempre una stretta orizzontale, il cui ardore mi ha fatto divorare sterrati, che forse non avrei nemmeno immaginato di poter mai affrontare. Senza alcuna paura della mia vita, allora, potrei anche dire, – e anche questo in fondo è un paradosso, o potrebbe risuonare tale – avrei camminato e quindi vissuto molta meno strada di quella che ho camminato e vissuto, quindi molta meno vita. Ma quanta vita c'era nella strada o slancio in avanti aggiunto, compiuto con l'agguato d'ardore della paura? La qualità di quel percorso che cosa avrebbe davvero aggiunto o disgiunto al disegno o all'inganno del mio cammino? La paura ha dalla sua, almeno nel mio caso, nel bilancio di queste mie osservazioni, una sua costante, una sua particolare leggerezza tagliente con un bianco di fondo, che la gioia, spesso pù indisciplinata e fugace, pare non avere così chiara e decisa nella sua traiettoria. Una strada del Vomero, battuta in lungo e in largo, sotto la pioggia infernale di una domenica, per raggiungere il primo spettacolo di un cinema senza l'ombrello, mosso quindi dalla gioia, mi ha lasciato passi e resoconti molto diversi da quelli di una fuga, di un evitamento, di una corsa per un ritardo, del ritorno a casa solitario, subito dopo un accompagnamento doloroso e importante. Passi nel buio che sanno di un altro ardore, forse meno selvatici e tirannici di quelli sgusciati da un'emergenza, da un allarme, da qualcosa di pericoloso che spinge e che incombe. Eppure, mi dicevo stasera, rientrando a casa a piedi, anche uno spasmo di gioia è una forma pericolosa e sofisticata di allarme, una sorta di dolorosa congiura, che contiene in sé un costante filo di paura, nell'espiazione del suo compiersi. Perché scindere, allora, nella mia esistenza, le forme radiose e confuse di questo ardore, che in ogni modo, e con qualunque sia il suo carburante, mi tengono vivo e slanciato dentro una certa tratta? La gioia nello spavento o anche lo spavento dentro uno spasmo di gioia, allora: entrambi ardono della stessa nobiltà. Quando si gioisce la paura non è poi così assente, ma è intrisa, in una sorta di eclissi, di controluce del sentimento. E intanto questo mio cammino mi traduce e mi dice, mi racconta di continuo del pegno di questo palpito, ma anche del grande dono di quest'ardore duplice patito, che forse sarà l'unica chiave per centrare e penetrare il mondo attraverso la tensione di queste redini, per interrogarlo a mio modo e immaginarlo qualcosa di più oltre il suo tondo o il suo fondo torbido solo pensato e poi evitato. Affondarvi dentro l'abisso della sua prima notte, come un'elsa, con il mio repertorio, misero e disponibile del momento. Senza escludere o confinare nulla di me, di quello che sento, che sono e che non sono in quel preciso frangente di orbita, che, come ogni cosa vissuta, non ritornerà mai più.
Ecco a cosa pensavo, questa sera, durante il mio rientro.