Lampeggi oltre un monte, con qualche boato di tuoni, da un paese vicino. Sono al buio, in questo preciso istante di scrittura, ma sopra di me incombe ancora il sereno. Il temporale, o il suo nitrito fobico, dovrebbe essere altrove. Al momento la sua è una pronuncia inceppata, nemmeno un'ostentazione; ha l'aria di uno scherzo tardivo, capriccio di bravura o gara di rutti da parte di un gigante ubriaco e solitario. Ma i lampi, al contrario, non sono sommessi come i tuoni, ma intagli sgargianti e borghesi di cadetti tirati a lucido, colpi luminosi di cinghia, che rischiarano a giorno il buio dei campi circostanti, in contrappunto alla pace sognante di un solco interpoderale.
Questi fenomeni così agili, – ormai cristallizzati nel tempo come prodezze ancora palpabili di processi naturali – si irrorano e si rinnovano di continuo di un loro mistero inspiegabile di gioventù dei cieli, di una loro particolare e gustosa matrignità di spasmo, che vanifica, travalica e sospende la conta del tempo, delle epoche e delle loro possibili partizioni e risonanze, in una tremenda e crudele adolescenza magica, che parafrasa i nostri faticosi passaggi in ombra, il nostro svogliato, schizzinoso bagnarci negli starnuti, nel cercare un cornicione sicuro, a chiusura negozi. Degli arabeschi o ristagni di eternità, che a volte divertono, ma in troppi casi spaventano a morte i bambini, gli anziani, gli uccelli ornamentali, come i cani più sensibili.
Eppure potrei trascrivere questi fraseggi orgasmici nelle tonalità più svariate e senza accusare mai stanchezza, ma un progressivo rinvigorirsi delle forme impalpabili, della purezza del loro copione o delitto d'impeto, che si dislaga nel suo costante pericolo, rimanendo ancora nel nitore dell'agguato un qualcosa di familiare, a volte di tremendamente certo e mai domestico ma estremo. Una certezza retrofuturista, fluida nella sua stessa impermanenza, forse.
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