Il raccontare è qualcosa di intrinseco al trattenere vita e al perderla.
Quando si racconta davvero si è soli al mondo e un po' si muore.
Un rapporto con il tempo che si sospende, con la magia dell'attenzione.
Chi racconta è molto attento all'attenzione di chi lo guarda, anche se quando si racconta si è sempre al buio pesto.
Quando ero molto, molto piccolo, raccontavo e catturavo l'attenzione, senza capirne il motivo.
Raccontavo ai miei compagni di scuola, in seconda elementare, trame di film mai visti, ma che riuscivo a far durare per tutto il percorso verso casa, e molti amici, curiosi, si facevano accompagnare al cinema solo per quanto fossero strane e accattivanti le mie invenzioni e menzogne, per ritornare poi delusi che quello che avevano visto era ben diverso dalle mie assurde e strambe fantasticherie.
Quando mi fecero una preanestesia generale per un piccolo intervento a una cisti che mi era spuntata sotto una palpebra, io saltavo sul mio lettino e inventavo, raccontavo qualcosa a mia mamma giovanissima che mi osservava saltare sul letto e raccontare e poi di colpo rallentare e smorzarmi, così le mie parole e le mie piccole storie, accovacciarsi nel medicinale. E dopo quest'istante non c'ero più e senza di me nemmeno loro.
Quando mia madre mi racconta di quel momento, di quella fase di quel mio racconto che continuavo nei balzi prima di svanire, dell'interruzione di una mia piccola frase, ancora si commuove e mi smuove dall'idea di raccontare per i calcoli e le logiche e le strategie e i controcazzi degli altri, che ti vogliono per come non sei e mai sarai, ma per l'amore spezzato di quel momento perduto al mondo, tra una mamma così giovane con i capelli corti e neri e con il mio stesso sguardo: prima del sonno...
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