Dopo aver letto "Il Signore delle mosche", capolavoro indiscusso di William Golding (1954), mi imbatto, chissà se solo per un caso, in un paio di appunti da "Il mestiere di vivere", di Cesare Pavese:
(10 nov.)
Sdegnare di commettere una malvagità composta è un modo di prender coscienza che non si è più giovani. (cfr. 14 ott.) È il tema adatto a raccontare che la gioventù è finita...
e tornando al 14 ott.
"Il voler commettere una malvagità ad ogni costo, violentando la propria natura, è tipico dell'adolescenza e del bisogno di provare a se stessi che si è universali, al di là di ogni norma".
Entrambi gli scritti di Pavese risalgono all'autunno del 1939. Sono interessanti da confrontare come spunti di analisi sulla fisionomia del male. L'unico punto forte e più dissonante, immagino per la visione pessimistica di Golding, è il passaggio "violentando la propria natura", che in Golding si trasforma in una violenza incendiaria sulla natura per una scelta profonda di natura, distruttività dello spazio di azione comune, contro ogni possibile speranza di coesione e comunione. Meglio consonante, invece, la prova di universalità a se stessi (penso a Jack, ai cacciatori, al predominio, all'orgasmo della caccia, ai visi dipinti).
Da approfondire.
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