Una ventata di aria, da una tenda di seta che si alza sui campi, questo Sabato di Gatto, estratto da "La forza degli occhi" (1950-53) – raccolta dedicata a suo figlio Leone – mentre frana il getto così fresco di questo giorno, che sembra scritto su di un muro, o appena uscito da un foglietto di un suo taccuino, un po' sgualcito e sformato dalla pressione di una tasca dei pantaloni. Limpido e dissetante, dentro un suo ordine leggero, fatto di moti e di tensioni, di brevi istanti quanto di squarci d'impeto luminosi e lirici. Sono così fulminei questi gesti ariosi di Gatto, il poeta del canto fioco, dentro la colata piena delle sue immagini. Sono atti di un ermetismo generoso e zelante, che restituisce al naso e alla bocca tutto quello che oscura al pensiero comune. Una poesia senza sonno e senza veglia, incastonata dentro gli strazi aperti e muti delle riviere, nelle sue traiettorie lontane, quelle di una sola mano aperta, semmai sporca del biancore della calce, di una sassaiola o di un primo bacio di amore:
Sabato
Il cielo nuovo
e facile ritrovo,
la casa a dirla è già sorta
dal verde della sua porta.
E l'occhio franco
a essere decide
il fumo bianco
l'uomo che ride
lontano al ponte
dell'orizzonte.
Il bambino di moccio
per mano al muratore
ritrova nel cartoccio
la chicca dell'amore.
Ma l'ingegno è l'ingegno,
fortuna tocca ferro.
Una città di legno
la brenna sullo sterro
la bandiera, la frasca.
Il cielo va chiamato
le mani in tasca
a bavero alzato.
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