giovedì 28 febbraio 2013
mercoledì 27 febbraio 2013
Due citazioni a Bret Easton Ellis:
Ho organizzato a puntino due citazioni letterarie all'interno della sceneggiatura de "La città vuota", progetto cinematografico a cui sto lavorando come screenwriter.
Le due citazioni che ho inserito in silenzio all'interno della sceneggiatura, in prima stesura, sono legate al fantastico Bret Easton Ellis e al suo "Lunar Park".
Le due citazioni che ho inserito in silenzio all'interno della sceneggiatura, in prima stesura, sono legate al fantastico Bret Easton Ellis e al suo "Lunar Park".
La mia citazione doppia, si rifà alle due diverse copertine che Einaudi ha scelto per due edizioni italiane di "Lunar Park". Ciascuna delle due copertine farà parte di due scene distinte.
La prima è quella del viso buio nel cappuccio, figura inquietante che mi ha molto attratto. Tra l'altro l'ho vista e ammirata, anche se gestita in modo diverso, utilizzata dal bravissimo Marc Evans in "Trauma":
Nella mia scena invece avrà un significato diverso. Sarà meno sfuggente e centrata su questa patina di buio che divora il viso, che trovo molto interessante:
Nella mia scena invece avrà un significato diverso. Sarà meno sfuggente e centrata su questa patina di buio che divora il viso, che trovo molto interessante:
Ecco la copertina:
L'altra citazione interessa un oggetto molto particolare: una sorta di pupazzo che verrà ritrovato abbandonato sul sediolino di un autobus deserto.
Ecco l'altra copertina di "Lunar Park":
Questo esperimento mi riconcilia con i miei amori letterari e tempestosi, come è stato il misterioso e innovativo "Lunar Park", e non è un caso che l'osservazione tipica delle superfici intelligenti dell'autofction, non possa non conciliarsi con i lunghi deserti autunnali de "La città vuota".
martedì 26 febbraio 2013
lunedì 25 febbraio 2013
Caos e bagliori
Soltanto nel caos riesco a trovare qualche bagliore. Quel filo di luce così intimo e rassicurante che mi mette d'accordo. Non altrove. Nella profondità spaventosa del caos.
Non posso addestrare la mia creatività per una convenzione.
La mia natura creativa ha bisogno della notte fonda, che sarà sempre velluto e sostanza, e mai apparenza.
Fuggo le convenzioni e le regole di condotta. Sono fiumi interrotti.
Non posso tradire quell'unico filo di luce che mi risucchia da una stanza, per coordinate ignote, che non cercano altro che nozioni.
Oggi chi cerca una strada verso un proprio linguaggio, deve perdersi. Deve cercare una perdita. Non una convenzione. Ancora meno una convenzione di perdita.
Non posso addestrarmi senza un'esperienza di confronto.
Credo invece che sia fondamentale crescere in uno scambio continuo di esperienze e di confronti vivi. Assolutamente caotici e conflittuali con tutto quello che si era pensato o si credeva di dire. Il materiale che creo, che invento e che strutturo, sarà il teatro assoluto del mio tradimento. La solennità di un tradimento continuo verso la mia stessa natura. Sperimentare all'infinito le proprie possibilità attraverso esperienze mutanti di vita. Giardini pubblici, riviere infiammate e strapiombi.
Scrivere sul ciglio di uno strapiombo è ritornare a casa. Le luci accese da una finestra aperta. Il silenzio fresco della nottata.
giovedì 21 febbraio 2013
Turn out the stars: recensione di Sara Medi a prima stesura
Questa lunghissima recensione alla prima stesura della mia sceneggiatura "Turn out the stars", è stata scritta su Cineama da Sara Medi, una laureanda all'interfacoltà Comunicazione, Innovazione, Multimedialità (CIM) presso l'università statale di Pavia.
Sara Medi sin da piccola nutre una vera passione per la scrittura che la porta a scrivere un po’ di tutto: racconti, saggi, poesie, canzoni, articoli, recensioni e quant’altro. In passato ha anche partecipato ad alcuni concorsi letterari dove i suoi lavori sono stati premiati e/o pubblicati.
Coltiva, inoltre, un grande interesse per tutto ciò che riguarda la cultura e le arti più in generale: in particolare cinema e fotografia, ma non solo. Tra le varie attività di approfondimento inerenti al cinema ha svolto uno stage presso la 21° edizione de Il Festival del cinema Africano, d'Asia e d'America Latina di Milano.
Ecco la sua analisi a "Turn out the stars", che tra l'altro mi ha stimolato a estendere il più possibile le diramazioni del tessuto strutturale della narrazione e dei suoi punti nodali.
A voi:
“Turn out the stars” lo trovo un racconto molto complesso e misterioso dai risvolti inquietanti che a tratti richiama alcune opere maestre di David Lynch come ”Blue Velvet”, ”Strade Perdute”, ”Mulholland Drive”, ”Inland Empire” etc.etc. per la sua dimensione onirica e surreale.
Dalla sua lettura, secondo me, emergono diversi temi interessanti:
1) IL CONCETTO DI MASCHERA, RECITA, FINZIONE (e tutto ciò che vi è correlato).
L’immagine degli operatori mascherati che costringono i due protagonisti a recitare una parte, attenendosi scrupolosamente a un copione già scritto, e trasformano la loro auto in un set cinematografico mi fa sorgere diverse associazioni mentali.
Prima di tutto con l’opera di E.Goffman “La vita quotidiana come rappresentazione teatrale” dove egli utilizza la metafora del teatro per rappresentare come agisce l’uomo nella società e paragona gli individui ad attori che ogni giorno indossano una maschera, salgono su un palcoscenico e recitano una parte davanti ad un pubblico (…). Così, allo stesso modo, i protagonisti del racconto si trovano costretti a recitare un ruolo… quasi come se metaforicamente loro rappresentassero la libertà/ingenuità/spontaneità (soprattutto la donna quando si inoltra nei campi azzurri, senza occhiali e incurante dei pericoli, saltellando e fischiettando come una bambina) e gli operatori mascherati la società che gli imprigiona, gli opprime e gli ‘etichetta’.
Inoltre il tema della maschera, del doppio, della crisi di identità, della follia etc.etc si ricollega a vari autori delle discipline più disparate (scrittori, poeti, filosofi, registi etc.etc) che l’hanno affrontato nelle proprie opere: da Pirandello (“Uno, nessuno, centomila”, “Il fu Mattia Pascal”, “Così è se vi pare”, “Sei personaggi in cerca d’autore” etc.etc) a Svevo, da Stevenson (“Dottor Jekyll e Mister Hyde”) a Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Kundera e così via.
Per es ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere” M.Kundera scrive: ”L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato (…)” – ed è proprio ciò che accade ai protagonisti del tuo racconto.
2) IL CONCETTO DI IDENTITA’ E DI SPERSONALIZZAZIONE.
I due protagonisti devono solo ascoltare e non parlare/muoversi oppure parlare/muoversi a comando, solo se e quando glielo ordinano gli operatori. Essi quindi vengono trattati come oggetti-giocattoli e ridotti alla stregua di meri burattini, di fantocci senza anima. In questo modo vengono derubati della propria identità-intimità-umanità e non ci appaiono più come veri individui, esseri umani pensanti, ma come semplici feticci “spersonalizzati” e strumentalizzati.
Lo si esplicita in particolare in un passaggio del racconto quando una delle figure mascherate dice loro:
”Non ha importanza quello che le succede ma quello che esegue (…).
Adesso non dovete fare niente di preciso. Lasciate che la paura vi avvolga. Basta questo. È molto semplice.”
Inoltre da notare che sinora è l’unico racconto in cui non compare il nome di nessuno dei personaggi: essi sono chiamati solo genericamente ’uomo, donna, operatori’.
3) NATURA e POESIA.
E’ evidente la contrapposizione tra la natura ‘pura’ e incontaminata dei campi azzurri vs la civiltà e l’artificio umano (l’auto, la ruota panoramica, il vagone ristorante e il set).
La donna, una volta arrivata nei campi, sembra volersi ricongiungere con la natura e con il suo spirito in una sorta di estasi mistica (quasi un rituale religioso), testimoniato anche dalla sua solitudine (l’uomo resta in auto, non la raggiunge) e dalla sua profonda commozione.
Nella sua lettera parla di ”perdita di stupore, verso tutto quello che accade, che si muove, ma anche verso tutto quello che non accade. La perdita perpetua dell’emozione” – eppure, ironia della sorte, da lì a poco si troverà in una situazione che genererà proprio quello stupore e quell’ emozione di cui lamenta la mancanza (quasi che la natura ascoltando le sue preghiere le abbia esaudite, anche se scegliendo una via poco ortodossa…e l’abbia fatto per svegliarla dal suo torpore…simile al velo di maya schopenhaueriano).
Inoltre le sue parole sembrano quasi quelle di una poetessa perché riprendono la riflessione poetica contenuta nell’opera ”Il fanciullino” di Pascoli; riprendono quindi l’idea secondo cui il poeta non deve mai smettere di essere curioso, non deve mai perdere la capacità di stupirsi ed emozionarsi, deve vivere il mondo come se fosse nuovo, come se tutto avvenisse per la prima volta, e deve ascoltare la sua ‘voce interiore’ (il fanciullino che c’è in ognuno di noi).
4) IL DESTINO.
Come abbiamo visto i due protagonisti sono succubi degli operatori, ma anche questi, a loro volta, sembrano essere subordinati a qualcun altro: a qualcuno che sta più in alto, ad una forza maggiore e suprema a cui nemmeno loro possono opporsi o sottrarsi.
Lo esplicita una delle figure mascherate quando dice:
”Dobbiamo consegnare del materiale. Entro la giornata di domani. Una richiesta improvvisa e urgente. Le richieste improvvise e urgenti possono essere sempre molto spiazzanti. Questo tipo di richieste improvvise possono portare alla follia anche una persona equilibrata o anche un gruppo di persone normali ed equilibrate. Quando arrivano in particolari momenti, queste richieste improvvise, non lasciano più alternativa” – quasi a voler giustificare il loro bizzarro comportamento agli occhi dei protagonisti. Quasi quindi come se non fossero che semplici esecutori, ma non i mittenti, cioè i diretti responsabili.
Metaforicamente in questo caso il mittente potrebbe essere il Caso, il Fato, il Destino, Dio o come lo si voglia chiamare… come a ricordare che nessuno è padrone fino in fondo del proprio destino e nessuno può sottrarvisi.
Simbolicamente gli esseri umani, i comuni mortali (i 2 protagonisti) non possono sottrarsi al destino (gli operatori), ma neppure gli operatori possono prevedere fino in fondo le proprie mosse quando entrano in gioco forze maggiori (il destino per definizione è imprevedibile).
Ce lo conferma successivamente anche l’operatore zoppo quando afferma: ”Non si preoccupi è tutto scritto, non vi è nulla che non sia già scritto”.
Anche la scelta finale dei due protagonisti, una volta rimasti soli, di non scappare o chiedere aiuto, ma semplicemente di restare in auto ed aspettare che succeda qualcosa è indicativa (sembra di nuovo che ci si voglia affidare al destino, aspettare che succeda ciò che deve succedere…).
Sembra di essere, a tratti, in una sorta di remake di “The Truman Show”, ma rivisitato in chiave thriller- onirica -grottesca.
Il dettaglio dell’operatore zoppo che perde sangue dal naso e divora le lucciole aggiunge un tocco greve al racconto. Così come le 2 maschere femminili con lo stesso identico sorriso (sembrano cloni o statue quindi anche esse spersonalizzate) e l’immagine di una delle due che palpa la donna mentre questa viene ripresa…tutti elementi che amplificano il senso di disturbo, disagio e inquietudine percepiti dallo spettatore.
5) TRA SOGNO E REALTÀ.
Nel racconto il confine tra sogno/realtà e realtà/finzione è molto labile e forse proprio per questo non ci stupirebbe più di tanto se alla fine ci venisse rivelato che si era trattato tutto di un incubo-visione-allucinazione dei protagonisti…o di un mondo parallelo…anche perché questi sono temi molto cari alla cinematografia: si vedano per es “Big Fish”, ”Don Juan De Marco” , “L’arte del sogno”, “Vanilla Sky”, “Matrix”, “Il favoloso mondo di Amèlie”, “Se mi lasci ti cancello”, “Eyes Wide Shut” etc.etc.
Il racconto poi sembra avere una struttura circolare: inizia, infatti, con i protagonisti assonnati in auto (la donna dorme ancora coricata con la testa sulla coscia dell’uomo) e termina con i due che si sono nuovamente addormentati in macchina…come se fosse un continuo sonno/risveglio e risveglio/sonno…come se tutto ricominciasse da capo in una sorta di cerchio della vita o del destino”…comprese le riprese…perché nel finale vediamo la troupe che ritorna…
6) SPAZIO e TEMPO.
La donna un certo punto dice: ”In un amore contano di più le cose non accadute, che quelle successe”- questo mi ha subito fatto venire in mente la poesia “Stazione” della poetessa polacca Szymborska dove ella parla di avvenimenti che non sono mai avvenuti, ma che potrebbero avvenire…e in questa sua particolare ottica ciò che non è avvenuto diventa più importante di quello che è avvenuto.
Il tema dei non-luoghi, non-spazi, non-avvenimenti, delle infinite combinazioni di possibilità è un tema caro alla poesia e alla letteratura.
Così come l’idea che i luoghi non siano solo luoghi geografici, ma anche luoghi dell’anima, come per il Viandante di Schubert o i campi per la protagonista di questo racconto.
Sara Medi
mercoledì 20 febbraio 2013
martedì 19 febbraio 2013
"Paese è notte", di Luigi Salerno, selezionata nella raccolta "L'alba inquieta del profondo: il desiderio":
domenica 17 febbraio 2013
sabato 16 febbraio 2013
Un punto fermo e leggero
Osservo molto.
Credo che l'osservazione sia la mia tromba d'aria che mi sposta nell'immaginazione e mi muove dentro e attraverso le stanze delle cose.
La mia osservazione è fatta di soffi, di cose impalpabili, a volte molto leggere, spesso tuonanti di risonanze che mi riguardano senza che nemmeno lo sappia. Che mi fucilano alle spalle.
L'occhio in alcune feritoie pare che pensi e che si compenetri, con una zona di pensiero altra, che non conosco e spesso non riconosco nemmeno mia. Pensavo proprio ieri alla fatica per l'essere sazi o felici di sé. Di quante persone ho osservato faticare per essere solo felici quel minimo e nemmeno riuscirci. Persone modeste nell'aspetto, prepararsi a lungo, con tutte le possibilità di amor proprio e di amore per la propria vita, prima di un compleanno, dove sfigureranno, come sempre. Ho incontrato queste ragazze non ancora fidanzate nel ruolo fisso di sfiguranti e di ombre, nelle luci di compleanni lontani e festeggiamenti che sfumavano in un loro sorriso di profonda tristezza e intensità, nel non aver trovato la carezza di un invitato speciale, dopo un tempo di attenzioni e di lavoro certosino sul proprio sguardo, gli occhi, il naso, la bocca, avrebbero duvuto profumare di infinito, e invece...nemmeno con un dito, dico sfiorate o appena guardate.
Esistono persone che fanno fatica. Persone che faticano per le gioie minime, che spesso ad altre sono già nel corredo, sono punti fermi e leggeri, assoluti e incontestabili. E ancora più intenso il quadro di un padre che accompagna al cinema una figlia non bella, o non più bella o mai stata, con uno sguardo protettivo e delicato che si insanguina e si abbassa, quando incontra un suo amico con una figlia bellissima.
Ecco, cogliere questo filo sottile di dolore in una certa fatica costante per il minimo, spesso mi fa cambiare luce su quello che vedo, e mi rende questo dolore e questa inutile fatica, un misterioso e feerico movente di bellezza. Una bellezza affaticata ma ancora sana. Un punto fermo e leggero. Assoluto e incontestabile.
venerdì 15 febbraio 2013
A pensare:
A pensare che tutto l'amore che non si è più dato,
potrebbe bruciare molto di più di quello che non si è avuto.
potrebbe bruciare molto di più di quello che non si è avuto.
giovedì 14 febbraio 2013
martedì 12 febbraio 2013
domenica 10 febbraio 2013
LIbertà nel linguaggio
Pensando alla libertà nel linguaggio.
Cosa significa sentirsi liberi quando si scrive? Fare di testa propria? Fare di testa propria sarà davvero una forma di libertà, una forma di decondizionamento dalle teste degli altri? Di quelli che pensano che quello che scrivi sia il sintomo di una grave malattia, e che loro siano i medici in grado di curarla?
Non è facile. Quando si sceglie una strada espressiva la prima voce che si ascolta, o almeno quella che ho ascoltato io, è quella di uno spazio nuovo. Dell'abitabilità di quello spazio, di una dimensione protettiva e selvatica dove posso trovare del bene nel dire. Nella sola voglia di poter dire e nel non voler star muti si avverte già del bene. Anche senza scrivere nemmeno un rigo, una frase, una parola, avviene il bene. Il bene è la scoperta di una possibilità. Da tenere quasi segreta, da esplorare senza nemmeno toccarla o farla. Come per chi vede per la prima volta le ginocchia impaurite di una ragazza che ti cerca e ti vuol bene, ma ti prega di non dirlo a nessuno.
Da gustare nella sola avventura del suo arrivo. Ci sono stati attimi indimenticabili di poesia per cose non scritte ma soltanto avvertite scrivibili dentro di me, da avermi appagato per la sola pace dell'averle incrociate, per il solo avere avvertito possibile questo possibile strappo al silenzio, una presa di fiuto, anche se il silenzio poi ha continuato, lo ha fatto in maniera diversa.
Esprimersi con un proprio linguaggio, rende muti. Più mi accorgo di sentire qualcosa da dire, più
provo il terrore di rovinare l'effetto dello stupore e rendere fisico e commestibile un processo esperenziale così intimo e profondo, che rimane indimenticabile, nonostante.
Quando scrivo e vivo le varie forme ed esperienze dei linguaggi, che ho la fortuna di poter esprimere e condividere e rendere vivi, mi accorgo di quanto sia vicina a me quella sensazione iniziale di scoperta, di quanto ricominci di nuovo a proteggermi. Quella che mi ha preso la mano dall'inizio. Nel buio.
Ritornando alla libertà del linguaggio, di una propria forma di linguaggio, credo che comporti tante, lunghissime strade diverse, dolorose, tragiche, divertenti, faticose, strade assolate, o ghiacciate. In salita, in discesa, senza mai certezze assolute. Dovunque mi giro vedo persone che cercano il metodo, il manuale per non fallire. Chi ha letto più manuali non fallirà.
Sarebbe bello così. Si comincia a fallire quando si ha da dire. Aver da dire, lo scrivevo poco tempo fa, non sempre è sentire di dire. Non avrò più da dire di te, che adesso non stai scrivendo. Eppure lo faccio, per trovare un nesso che giustifichi la rottura del silenzio e mi riconsegni a quello stupore: quello stesso stupore che mi fa felice del solo poter dire, anche non facendolo. La libertà di poterlo anche non fare è l'atomo del mio linguaggio.
Mi auguro di non perderla mai.
sabato 9 febbraio 2013
venerdì 8 febbraio 2013
Estratto da "Il disabitato": Specchiandomi il mio sguardo:
Specchiandomi il mio sguardo diventa stupido.
Non penso che possa esistere al mondo uno sguardo più stupido e profondamente più svuotato di chi si guarda allo specchio prima di scendere verso qualsiasi luogo al mondo sia diretto, e verso qualsiasi incontro, scontro o non incontro – queste cose non sempre si pensano e si prevedono, ma basta lo specchiarsi a prevedere qualsiasi insano evento successivo – che avvenga in un hotel, in un appartamento di lusso o nei bagni di una stazione, non credo che cambi molto.
Quell'ispezione fugace di controllo e di estrema cura nelle virate di occhiate rapide ma precise, fino agli angoli più cupi del volto e poi degli abiti, frazioni di tessuti e di piccoli nylon in vibrazione, dai punti più insospettabili e inesplorati, fino alla rifrazione più insondabile. O quella piccola frizione delle mimiche facciali che lo ornano, tratti alternati e in una sequenza di varianti complesse e infinite nella loro possibilità di modifica e di penetrazione, denotandomi il più abissale e incolmabile vuoto di deficienza che abbia mai raccolto e intuito da qualsiasi altra forma vivente e animata nell'esercizio meccanico dello sguardo, o nei processi mentali di cognizione passiva all'immagine propria.
Quando rimane fisso e in agguato, anche oltre quella breve e simultanea operazione di controllo privato, per abitarci ancora quando si ritorna fuori e ci si espone alla corrida e all'impatto di nuovi occhi. Dal fondo delle orbite agli incavi degli inguini più segreti e schiumanti del corpo di un altro; che si guardi un paesaggio, una ragazza che corre con un cane o con un fucile carico, a volte non cambia. Ce ne si accorge sempre in ritardo e forse mai, e non ci si dimentica mai del proprio viso specchiato. Lo si filtra sempre in base all'impaccio osservante del proprio sguardo appena dissepolto dall'anestesia idiota dello specchio a muro, appena passato in rivista e pronto per essere ricambiato dalla stessa grassa sorda stupidità di attenzione condensata e stagnante. Quello sguardo viscoso ma preciso, che non vede, non pensa, non vive, ma controlla; e a volte rimane ancora calcolato e misurato nel viso per la macchina operosa del solo controllo ossessivo, anche quando ormai non ci si specchia più, perptuando all'infinito quei tratti statici di maschera tragica di sola maniera, che cerca sempre di perfezionarsi verso altri fondi scomposti, che mai vedono e che mai vedranno".
mercoledì 6 febbraio 2013
La città vuota: the project
Questo è il progetto cinematografico "La città vuota", al quale ho preso parte da qualche giorno, come screenwriter.
Nel link del sito ufficiale, tutte le informazioni sul soggetto, sulla troupe, le news.
Su questo blog renderrò disponibili gli aggiornamenti.
martedì 5 febbraio 2013
In un ufficio
Ieri mattina assistevo a una breve scena. Più che una scena era un dialogo. Più che un dialogo era un monologo. Vengo subito al dunque:
una madre in attesa che il marito sbrighi una pratica a uno sportello – l'ufficio è molto affollato – con un occhio cerca di controllare il suo bambino, che vaga in un'area dove la folla non è concentrata. Io ero a pochi passi da questo bambino: ogni tanto facevo segno alla mamma che era lì. Mi ricordo che c'era un pilastro che impediva alla signora di controllare gli spostamenti del bambino. Dopo qualche minuto il bambino ritorna accanto a sua madre, ma, essendo un bambino, come tutti i bambini non ha la pazienza di attendere, per cui continua ad allontanarsi, poi a ritornare, a rivitalizzare un po' il grigiore di quel mattino. Fino a quando la mamma, spazientita, gli fa:
"Adesso, se non la smetti, ti faccio picchiare da tutti i signori che stanno in quest'ufficio". La donna mi guarda di striscio, come per assicurarmi che avesse provveduto.
Ho pensato.
Uno: a quante persone c'erano nell'ufficio, e a come quel bambino avrebbe potuto associare a ciascuna persona il ruolo di fustigatore o picchiatore d'occorrenza.
Due. come il bambino poteva associare lo strano potere che la mamma si arrogava, tale da poter disporre della volontà dei signori in attesa, per espletare una funzione educativa, si fa per dire, di tipo contenitivo, in un modo così sproporzionato.
Tre. come la violenza e la minaccia rimangono le reazioni più naturali di disimpegno in situazioni difficili, anche quando si ha a che fare con un bambino.
Quattro. Che cosa potrebbe pensare quel bambino di tutti i signori che incontrerà in tutti gli uffici del mondo, quando sarà tentato di trasgredire. Li vedrà come emissari di un disegno punitivo e incombente? Quale parte della sua mente riuscirà a distinguere la verità dal paradosso o finzione?
Si tratta di realtà o di sogno?
Da bambino ho trasgredito anche io. Molto.
Ricordo che in un parco molto grande, davanti a due miei cugini, mi divertivo a soffiare le bolle di sapone sulla nuca di un signore, che era seduto su di una panchina con sua figlia.
Gliene soffiavo diverse, anche in testa, ma erano bolle, il signore non se ne accorgeva, e quindi non era così divertente, soprattutto avendo un piccolo pubblico accanto a me, che si aspettava il mio numero.
Quando a un certo punto, spazientito, rovesciai l'intero contenuto delle bolle di sapone direttamente dal piccolo tubo che le conteneva alla giacca del povero signore.
Che in quel caso si girò. Ricordo anche che dopo quell'episodio, né mio padre né mia madre mi minacciarono dicendomi che quel signore e che tutti gli altri signori del parco, mi avrebbero picchiato.
Credo che intervennero in qualche modo, ma senza l'infiltrazione di soggetti terzi e senza inimicarmi il mondo di adulti anche buoni che non si sarebbero mai immaginati di picchiare un bambino su commissione, come quella signora voleva far credere a suo figlio.
Da quel mattino, intanto, non ho più rovesciato tubetti di bolle di sapone sulle giacche.
lunedì 4 febbraio 2013
domenica 3 febbraio 2013
sabato 2 febbraio 2013
venerdì 1 febbraio 2013
Succubus Production e il psychological thriller Insomnia
La Succubus Production è una nuova piccola casa cinematografica indipendente, che si occupa di psyco thriller. Al momento è composta da una decina di collaboratori che sono in procinto di lavorare a un corto.
Il trailer che segue riguarda lo short film -psychological thriller "Insomnia" diretto da Andrea Morgillo:
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