Il bianco di un post, prima di essere occupato dalle parole, ha il candore di una tovaglia ben distesa, da mani esperte, sul tavolo di una cucina. Scrivere è come cenare: approntarvi bicchieri, posate, tovaglioli infilati in portatovaglioli. Cestini con dentro del pane già tagliato. Ma anche piatti. Ogni parte del discorso una zona da far funzionare per un rituale. Un rituale di nutrimento, semmai sottile. Per una cena solitaria. In questo istante sto sgualcendo questa tovaglia da solo, in una cena fredda e solitaria. La finestra chiusa, davanti a me, non mi consente orizzonti. Lo strazio crescente dei caratteri che avanzano e che mi suggeriscono del passare del tempo e di quanto un processo di scrittura oscuri questa tovaglia intonsa e ben distesa, fatta di uno spazio vitale al quale sacrifico qualcosa di me, che non tornerà più. Questo attimo esatto, di questo giorno, di questo mese e di questo anno, non ritornerà mai più. Ha la sua unicità. Sarà irripetibile. Anche quello di adesso e quello del rigo dopo, è unico e lo rimarrà per sempre. Sono spazi di momenti e di tempi unici e assoluti, che avanzano silenziosi dentro e contro il senso e dissenso della mia vita. La loro irripetibilità rende quindi importanti e cruciali tutte le mie scelte. Quanto questo spazio occupato parli davvero di me, è qualcosa che forse non saprò mai, dal momento che l'unicità e l'irripetibilità di questo spazio lo rende incompatibile con un altro, altrettanto unico e irripetibile nella sua specificità. Parlando dell'impiego del mio tempo, attraverso questo spazio che decresce in relazione all'aumento dei miei pensieri, potrei non dire davvero un bel nulla di me, nulla di più se invece in questi pochi minuti avrei rinunciato a questa strana stesura e mi sarei fiondato sotto le coperte del mio letto. Potrei dire di me in modi diversi. Una volta occupato un certo territorio linguistico ed espressivo, il mio silenzio e il mio non esserci, sarà anche lui parte di una voce, di una forma di stare nel tempo di questo mio spazio. Tacendolo o mostrandolo in controluce, come artigianato di un'assenza.
Questo pomeriggio, lavorando e analizzando le idee per la colonna sonora originale del film "La compagna di classe", (film ormai in fase di post-produzione, che è davvero un mio grandissimo amore) con il compositore delle musiche, abbiamo valutato proprio l'importanza di lasciare alcune zone in bianco e di renderle allo stesso modo eloquenti di una loro linea intima di pensiero. La sottrazione di un gesto, un attimo o anche la costruzione di una serie più o meno codificata di silenzi sulle e nelle immagini, sarà già un apparato vivo e creativo di un pensiero di vita da imprimire alla natura selvatica del film. Dire con poco, semmai sottraendo e non aggiungendo – certo dipende dai casi e dalle circostanze, intendo dall'intensità di questi casi e di queste circostanze. L'incubo della musica applicata, in questa tracimazione di impulsi, di coerenza ma anche di contrasti, enarmonie, dissonanze, riguarda molto questa gestione e questo ordine e riserbo del tempo, dentro l'alveo di una serie di spazi, dove infrangere, favorire o romanzare un silenzio. Una sua ritrazione o relativa e intuitiva espansione all'interno di un codice semantico parallelo alla fucina del gorgo extra-diegetico.
Nell'operazione di questo lungo e lentissimo pomeriggio, dedicato interamente al film, (ormai "La compagna di classe" rasenta l'ora: siamo nell'orbita del medio- lungo) ci siamo industriati e inventati sul senso del dire, investigandolo in primo luogo e di conseguenza al senso profondo del tacere. Questo approccio lo sento legato all'uso del bianco e non solo del nero sulla pagina. Lasciare una scena, o anche una serie di frammenti, orfani di una linea musicale più o meno definita, adoperando il silenzio, comporta essenzialmente il suonarlo questo nostro silenzio, lo strutturarlo nel suo compiersi o interrompersi, il definirlo e disegnarlo in una sua forma visiva e sonora, che sia unica, specifica e irripetibile per e con quell'intensità: quella di quell'attimo di genesi, nel quale il silenzio si è interconnesso. Il silenzio in quel momento, investigando l'immagine, ha una sua plasticità, una sua vita, fatta di una sua torbida o anche ingenua sensualità. Esistono, così come nella scrittura, dei silenzi suonati, colti, profondi e palpabili, ed altri balordi, insensati o troppo sgraziati o chiassosi, lasciati appassire, vuoti di senso, di ruolo, di significato, come biciclette di ragazze lasciate d'inverno, accanto a una parete, nel buio di una casa al mare. Il metro di condotta delle parti in questo bellissimo incontro di oggi con il compositore della colonna sonora de "La compagna di classe", – parlo dello splendido amico e musicista Giacomo Ciavatta – è stata questa partita a scacchi con il silenzio e con la riduzione o manutenzione dei suoi stati clinici intermedi, della sua resa alla luce pulsante del progetto filmico. Tutto quello che avviene, con le stesse dinamiche, di quando si costruisce un paragrafo, ma anche un'inquadratura o una nuova scena di uno screenplay. Un costante compromesso tra il dire e il tacere. Il mostrare e il celare. Ma anche del dire tacendo e del tacere dicendo. E in ogni linea d' ombra dell'opposto, si cela, in traslucenza, una nuova verità. Una possibile verità, fatta di cose e di suoni come di parole e di giochi, che si dicono nel loro negarsi, o si negano nel loro dirsi o forse nel loro lieve smarrirsi nell'avventura.
l.s.