giovedì 30 agosto 2012

Citati racconta Omero

lunedì 27 agosto 2012

L'intento dell' intenso. Il (dis)senso del pericolo (in 20 brevi paragrafi)


1) Nella struttura, anche se appena accennata, di uno scritto, dovrebbe esservi all'origine quel certo intento (quel seme buono che detti e diletti), tra le regole di buona condotta delle sue parti in formazione; che tracci i punti sul brillio del rettifilo, o che muova e scansioni il tempo, il trillo della storia prossima fin dalle sue oscure fondamenta. Dal primo suono tirato a vuoto alla pienezza dell'ultimo accordo. La cassa buia dell'organo a canne. 

2) L'affronto vivo al senso del pericolo. Che consente allo scrittore, unico responsabile organizzatore e animatore di quella struttura ancora informe e oscura, di muoversi entro certe particolari coordinate, che gli permetteranno di seguire, senza tentennamenti e imprevisti, la sua carreggiata, di individuare in buon anticipo le curve, i rallentamenti, i segnali (di pericolo), i men at work e le stazioni di servizio, quando si è troppo stanchi per continuare o quando si ha fame. 

3) Possibile, mi chiedevo, che l'intento di chi scriva debba limitarsi a non sbavare dalle coordinate di una certa e unica angolazione? A non uscire fuori da una certa e unica strada? A non trasgredire le regole armoniche di quel tipo certo e unico di musica (o di completo scuro nella marcia funebre)? O nel non allontanarsi dalle orbite di riferimento di quella certa e unica costellazione? 

 4) E poi? Una volta su strada? (La strada come fattore di rischio sempre più oscuro e in divenire, travagliato, mutante e modulante, ingarbugliato di varianti, di mappature, di vulcani sonnecchianti nella controra. A cui preferire la contrada, lo sterrato o il tratto interpoderale).

 5) L'intento, quindi, di un'operazione di scrittura, dovrebbe puntare, a lavoro finito, a una comunicazione funzionale, chiara, logica, espressiva, luminosa, forse: alla condivisione più o meno naturale e mai troppo contorta, ermetica o involuta, di una certa esperienza fantastica, immaginifica o anche accennata e vissuta nella sua apparenza di normalità, semmai appena alterata da stralcio di cronaca a semi-finzione, augurandosi alla fine una sorta di soddisfazione o di premio morale appropriato e simbolico per quello che si è fatto e si è detto di quel fatto, che almeno si è tentato e ritentato nel farlo o nel disfarlo (scrivere come fare e disfare un letto), per quanto bene o quasi bene si sia comunicato quel datto fatto che si voleva esprimere, quell'evento piacevole e armonico, in diversi casi per quell'esperienza, quell'emozione, quel concetto, quel credo, che non sarà quasi mai come invece si pensava o si sperava che fosse: (eppure?) 

 6) L'intensità di scrittura (ma non di struttura), come movimento interno e lunare delle sue parti mobili e natanti; la sua forza motrice nascosta, dove risiede il fattore vasto e satellitare di una possibile prospettiva ("incerta") e concentrica di angolazione, di un possibile e inesauribile mood o veicolo medium di espressione, per quello che ho scritto ma soprattutto per quello che non ho scritto. 

 7) Non sono mai convinto di basarmi sempre sulle stesse coordinate durante un percorso di scrittura. Quello che utilizzo come metro il venerdì mattina, potrebbe discostarsi di molto da quello che utilizzerò lo stesso giorno ma nel tardo pomeriggio o di prima sera. Non sono mai più lo stesso, a distanza di minuti, anche di attimi; come potranno mai essere allora uguali le parti che si muoveranno da persone diverse? A distanza di ore avverranno dei mutamenti profondi, quanto imprevedibili e irreversibili (come la differenza della luce naturale dalla mia finestra) nella mia stessa strumentazione, nelle mie capacità di ascolto, di trasmissione, di elaborazione, di comunicazione e individuazione di un dato pensiero da trasferire in parole (i pensieri non hanno mai una linea definita e organizzata di linguaggio, sono dei segnali nel fumo. A volte sono solo fumo da un bosco o di una candela: soprattutto). 

 8) Quello che c'è da preservare e da proteggere in itinere in un percorso di scrittura di finzione, è il fattore dell'intenso, o dell'intensità. Giocando con le parole, il primo intento sarà quello dell'intenso, o quello che vorrei che fosse l'intenso in uno scritto, il suo vibrato, la sua buona naturale intonazione, spesso il suo cuore nero e solitario, il suo destro più duro, il suo fianco, il suo polso, il suo fiore d'oro tra i seni, il suo profumo notturno, il suo rinculo di ghiaccio dopo lo sparo.

 9) Quando rimango deluso perché quello che credevo o che immaginavo di uno scritto è così lontano da quello che nel tempo si è poi rivelato e verificato, quasi sempre l'intento che ho mancato è stato quello dell'intensità. (Che di conseguenza dipanerà nebbia e residui di arsenico, con la sua assenza, su tutto quello che rimane di vivo alle scorse successive. Credendo che potesse essere diverso, che quello che sentivo quando lo scrivevo avrebbe poi mantenuto e maturato la promessa dei primi istanti. Ma anche giorni e i mesi su di uno scritto che mi ha deluso e che probabilmente non vedrà mai la luce, non saranno stati privi di una certa tragica intensità). 

 10) L'intensità di uno scritto non sarà il semplice risultato di un accumulo di più momenti di apparente o avvertita concentrazione, di dedizione appassionata, ma sarà la temperatura del suo polso, la linea di un altro viso, e il filo azzurro della sua voce, (dal vivo, al ristorante, o al telefono erotico). 

 11) Se fosse il suo suono interno non direttamente percepibile, non la sua forza di volume, ma la sua risonanza tonale palpabile, la sua cattiva acustica e distorsione, il raggio più o meno ampio del suo delay, il muro alto di un paragrafo appena scolpito nella calce azzurra di una costruzione abusiva. Credo che i fattori siano molto più complessi e che in diversi casi uno scritto maturi e si organizzi in un certo modo, accumulando nella sua estensione dei fattori o dei pregi che appartengono a esperienze assai lontane e diverse da quella specifica che si sta (dis)organizzando per l'occorrenza in quel momento. Non tutto il buono sarà quindi frutto di un metodo o di un solo tipo di esercizio, ma un composto vivo di esperienze e di afflizioni, più o meno chiare e indistinte, che riguardano il volume infinito di quello che non si è mai pensato di mettere su carta, perché forse non ancora maturo o degno di essere raccontato e racchiuso nei limiti di una forma "claustrofobica e frustrante" di linguaggio. 

 12) "A volte è solo il profumo della terra , dopo un lungo scroscio di pompa, o in una notte dolce di pioggia, i passi di qualcuno che (chi)amo... e che si allontana con le mie scarpe". Eppure l'intensità di uno scritto sarebbe legata, in diversi casi, proprio a tutti quei fattori che non erano predisposti e degni di essere raccontati e trasferiti in un linguaggio più o meno calcolabile e scrivibile, sintetizzabile in un nesso semantico definito, perché non ancora maturi o scomposti per rappresentare in pieno uno strato solido di accaduto o perché sa di troppo pensato, (cronaca o finzione non conta), e quindi di troppo palesemente narrabile (vedi ne "L'azzurro della notte: l'immaginazione dei segni/sogni; l'impossibilità di una comunicazione/commozione/conversione tra realtà e immaginazione; le luci basse e la musica lirica dai vetri delle case nel ghetto ebraico),- i più reticenti ad essere contenuti così come si rivelavano, nei limiti di una forma centrata di linguaggio, ma anche quelli, e forse gli unici, che doneranno a quella particolare struttura formale quel quid di intenso e di unico, che altrimenti non avrebbe mai irradiato il filo tenue di una sua luce. 

 13) Uno dei dubbi più atroci e ricorrenti che mi prende, sia durante la stesura di uno scritto nuovo, anche di uno appena abbozzato, o delle sue rifiniture, in una fase anche più matura, è quello di aver utilizzato del materiale narrativo troppo scarno e sfoltito da varianti sufficientemente dinamiche, non ancora maturo e quindi non sufficientemente ricco, per comportare e giustificare la tessitura di un accadimento complesso e rigoglioso, fatto di un insieme logico e coerente di azioni, reazioni e dilatazioni di azioni, da essere poi articolate e snodate alla perfezione come eventi chiave, (meta) o (beta)-narrabili. Fattori assedianti.

 14) Quello che si prova o che si avverte mentre si scrive, non sempre corrisponde a un linguaggio altrettanto comunicativo, teso e avvolgente di emozioni per chi lo legge, nel nostro caso: l'intenso. Di questo me ne convinco sempre di più, giorno dopo giorno. 

15) Di solito cerco di non farmi condizionare dalle sensazioni distruttive, durante le riletture, soprattutto, e nemmeno di lasciarmi entusiasmare da momenti di grande ardore e di radiosità, che di solito possono cogliermi nel bilico di un corso d'opera, così come abbandonarmi in balia delle prime ombre. Ma tutte le volte che comincio mi sento incapace come pochi. Ancora più muto. 

16) Eppure uno scrittore dovrebbe muoversi e sgranchirsi lo sguardo nelle sue prime sensazioni, nella sensibilità di contatto all'immagine, all'artiglio della memoria sonora e visiva, all'esperienza più intima della risonanza. Tutto questo dovrebbe costituire una buona parte della sua strumentazione viva nel ventaglio delle sue possibilità e particolari spiccate o modeste attitudini, quali che siano, ma non in una forma di mero condizionamento e meccanicità esecutiva a una certa Legge precostituita.  

17) A ogni paragrafo "muto e finito", temo sempre di aver deluso o disilluso qualcuno, o di avere infranto qualche regola nel confluire dall'informe la forma finita di uno sforzo stolto e ancora inutile; di aver stonato a dirotto e senza pietà. Che diverse volte le mie riletture e le mie successive revisioni mi daranno quasi sempre ragione nella rivista di una nuova accordatura o nel respiro più ampio di un nuovo tactus da impiantare nelle nuove parti. Ma non sarà questo un buon motivo per interrompere la propria stesura o scriverla rinunciandovi in partenza o stentarla, (semmai con circospezione, con timore, con il fiato addosso del proprio mentore (vedi Lampo, ne "L'azzurro della notte") o con il peso addosso dell'ultimo giudizio ricevuto. 

18) Credo che questo tipo di attività sia esposta, più di ogni altra, alla frustazione, alla delusione, all'incomprensione, anche al totale insuccesso, alla vacuità dell'atto, della sua rivisitazione, del suo riverbero nel tempo. Tutto questo all'infinito, senza riscontri certi in un (dis)senso o in un altro. Ma non vi sarà mai una ragione troppo valida per rinunciare, per non cercare il proprio personale intento nel  feltro fangoso dello sterrato interpoderale, che quanto meno giustifichi la follia dell'avventura clandestina, il senso del pericolo, il suo primordiale batticuore nel buio della pioggia.  L'attimo puro dell'assedio.

19) Qualsiasi cosa accada o non accada, che sia matura per essere raccontata e trascritta, o appena sfiorata e archiviata, quel certo intento selvatico di intensità rimarrà l'unico faro e l'unica strada maestra, al di là di tutto quello che potrebbe accadere e che potrebbe essere verificato nel suo accadimento e non accadimento di sorta. Ed è proprio l'intenso, come in un gioco di parole: l'intento dell'intenso, da perfezionare e da perquisire dentro se stessi e non dentro la testa o l'angolazione specifica e anestetizzata di qualcun altro. 

20) Scrivere nel puro senso e dissenso del pericolo; adattarsi alle mosse anarchiche e blasfeme dell'assedio, alla purezza del suo attimo. Scorgere l'ardore del giorno dal fumo della sera.

domenica 5 agosto 2012

Verso Finistère

Col bramire dei cervi nella piova
d'Armor l'arco del tuo ciglio s'è spento
al primo buio per filtrare poi
sull'intonaco albale dove prillano
ruote di cicli, fusi, razze, frange
d'alberi scossi. Forse non ho altra prova
che Dio mi vede e che le tue pupille
d'acquamarina guardano per lui.

Eugenio Montale (IV Lampi e dediche da "La bùfera e altro).

mercoledì 1 agosto 2012

Attesa (Incipit):

Si attendeva l'arrivo dei genitori di Sauk. Il soggiorno era durato dodici giorni. Dodici giorni in cui i genitori non si erano mai fatti vivi. Non c'erano stati contatti in quel periodo. La giornata di martedì cominciava all'insegna dell'attesa. Il cielo era molto limpido, più degli altri mattini. Il balconcino soleggiato, che dava sul giallo dei campi. Un'aria molto pulita, il canto lindo delle cincie, le ginestre, l'odore forte degli alberi, il frullo delle cicale.  Due piccole altalene di legno dondolavano appena per il vento. Il vecchio Saumek respirava piano, sulla sua poltrona. La sua barba era molto bianca, come la neve. Il primo nipote che gli era stato affidato era tra le cose più preziose che aveva. Lavorava ancora i campi, il vecchio Saumek, ed era un appassionato di scacchi. Nei caseggiati vicini quel vecchio scacchista era una leggenda. Studiava per giorni interi le sue mosse e in quella zona isolata era ancora imbattuto. Vi era una lunga lista di persone appassionate, anche da località campestri più lontane, che volevano sfidarlo e cercare di batterlo. Chi sarebbe mai riuscito a batterlo, avrebbe raggiunto una certa fama in brevissimo tempo nella zona. Era l'ambizione di molti sfidare e vincere il vecchio saggio Saumek. Uno sparuto gruppo di appassionati più giovani decideva invece di prendere solo delle lezioni di scacchi, senza osare sfidarlo. Volevano capire il funzionamento del suo cervello attraverso gli schemi tattici più ingegnosi e complessi, tutto questo senza alcuna fretta. Ma il vecchio Saumek aveva sempre rifiutato. Diceva di non essere affatto un maestro di nulla e che quello che aveva capito non sapeva insegnarlo, e forse non lo aveva nemmeno capito del tutto per insegnarlo a se stesso. Anche agli sfidanti dava ben poche possibilità. Ne accettava massimo un paio ogni mese, secondo un criterio oscuro. Ma in quei dodici giorni, il vecchio aveva mutato completamente le sue abitudini. Nemmeno i due sfidanti del mese avevano il diritto di disturbarlo. Nemmeno il lattaio, che veniva tutte le mattine dal paese, doveva bussare. Nessuno doveva avere un contatto con Saumek in quei dodici giorni. Il lattaio avrebbe lasciato la sua bottiglia fuori alla porta e il vecchio lo avrebbe pagato con il lancio di un vecchio fazzoletto, da una finestra, con dentro le monete ben contate. Il dodicesimo giorno il vecchio non disse una parola, fin dal suo risveglio. Suo nipote saltellava per le stanze come un passero domestico, ogni tanto sporgendosi verso il balconcino, tenendo tra le dita il bordo delle tende di seta, cercando di scrutare qualche auto dal rumore familiare e inconfondibile, come quella dei suoi. Il tempo passava con lentezza. La colazione di Sauk era pronta sul tavolo in marmo della cucina. La sua tazza colma di latte bianco. Il suo pane nero, la sua conserva di fichi verdi con il grosso cucchiaio di legno. Ma Sauk non aveva toccato cibo. Era troppa l'eccitazione. Neanche il nonno quel mattino aveva toccato cibo. Non aveva nemmeno approntato per sé, come tutte le altre mattine. Sentiva l'assenza della fame, molto di più del suo nipote, ma per una ragione contraria. Per il dolore di quell'attesa e non per l'eccitazione, quella del ragazzo, che non vedeva l'ora di rincontrarli. Durante quei dodici giorni il vecchio e il ragazzo avevano parlato a lungo, di tutto quello di cui fosse possibile discutere. Ma non di scacchi e di concimi, ma di altri argomenti. Il vecchio Saumek non era solo uno specialista di scacchi e di concimi, ma anche di molto altro, anche se tutto questo altro non era noto a nessuno delle casupole circostanti e dei borghi vicini e di tutte le campagne limitrofe. Per il ragazzo Sauk il nonno era un libro, un libro fatto di pagine bianche e infinite. Avrebbe chiesto e avrebbe saputo. A qualsiasi domanda avrebbe ricevuto una risposta completa, precisa e articolata ma bianca. Una risposta sempre adeguata, saggia e molto amorevole. Per quei dodici giorni il vecchio e il ragazzo non avevano fatto altro che parlare in bianco. Il ragazzo chiedeva e il vecchio rispondeva, sempre con molto garbo, senza mai affrettarsi. La sua voce dolce e fumante li avvolgeva entrambi in una cortina di amore senza tempo. Cenavano molto presto, ancora con la luce del giorno e con l'ultimo sole che batteva dalle tende sulle loro braccia vicine, che, per quanto fosse piccolo il tavolo, in certi momenti si toccavano.