giovedì 30 giugno 2011

Bozza matrigna monologo in chiave di basso (il cattivo tempo)

Ho portato l'alano arlecchino a pisciare. Era già tardi. Una pisciata omerica, con un  bel suono artico, che ricordava il fruscio dell'arpa celtica impigliata nella vestale lunga dell'arpista, sempre così acconciata e troia, nel tocco barocco, nel trucco pesante e nella floscia flessione del braccio sinistro. Portava il cilicio. Me lo avrebbe confidato un amico di mio fratello, che sistemava binocoli digitali nei camerini, per scorgere la trigonometria dei panorami illeciti e rosati. E scorse il cilicio. Lo stesso, fascinoso affare, che grazie al tuo alano ho confuso con l'autoreggente della farmacista, quando eravamo soli e il tuo muscoloso canide le faceva le feste e le sollevava il camice bianco con le zampe grigie e unghiate, lasciandomi intravedere quello strano collare che cingeva la coscia e segava il marchio erotico  e sevizioso di una pregevole lombattina di buon taglio. L'apparizione durava e anche l'effetto del piccolo rivolo rosa, fiumiciattolo di collant, pensavo, o dolce preziosa smagliatura da unghia stregata e distratta, senza immaginare l'effetto plasma della strana trafittura. Accanto al banco farmaci la farmacista era quasi nuda, anche quando l'alano si placò. L'odore fresco dei medicinali mi sedava. Strinsi il guinzaglio e chiesi un analgesico efficace per le lordure fangose delle mie emicranie. Mi chiese di quel mio pallore crescente, e solo in quel momento riconoscevo nel suo viso lo stesso dell'arpista, che aveva ormai appeso a un chiodo la sua arpa e si dedicava alla scienza farmacologica di famiglia, placati i suoi bollori ribelli. Parlammo a lungo dello spazio dell'arte e delle nuove insuline e di Richard Strauss. Era diabetica, da circa un anno.
Non sono mai stato così bene dopo quella cura di farmaci. Il tuo cane è rimasto di guardia al negozio, contro le maschere incappucciate di una banda, che armata di mitra ha fatto irruzione, proprio mentre stavo per uscire.  Ti ho lasciato l'appunto in cucina, con l'indirizzo preciso. Di passarlo a prendere tu. La povera farmarpista non ha avuto nemmeno il tempo di gridare, che il tuo cane li ha presi entrambi alla gola, i finti malfattori. Erano due vecchi amici orchestrali che avevano deciso di fare uno scherzo in stile. Ti prego, cerca di perdonarmi. Il cane ha divorato per il nervoso intere scatole di ansiolitici, quando lo hanno dimenticato nella farmacia. Non credo possano attribuirsi responsabilità sulla mia persona, posso dirti di avere agito in ottima fede.
Dimenticavo: l'arpista aveva un occhio azzurro di vetro color bancomat, iniettato di latte.
Ci si vede a pranzo, al solito ristorantino anni Trenta. Mangeremo insieme stinco alla birra, mentre il tuo alano Plauto sognerà di noi due, sotto il  tavolo, accanto alla tua gamba di legno.
Ti prego porta con te, a tavola, la tua tristezza immensa, oltre al mio bancomat di vetro Murano, color acqua marina. Mi saranno entrambi indispensabili.

mercoledì 29 giugno 2011

Piccola prova di revisione minima allo stralcio: (il cattivo tempo).

...solo il paragrafo finale. Non cambio nulla, se non la punteggiatura. La fermo, creando un ritmo meno scorrevole e forse più composto. Adesso con il nuovo habitus ritmico e con l'aggiunta di "Graffiato":

Da fuori un ragazzo sta fischiando. Una donna che lo chiama, e gli grida in dialetto di andare a tavola. I trattori rombano verso le corti soleggiate. Uno scroscio d'acqua pulisce una striscia fumante di terreno. Dalla piccola finestra di fronte sgranano un disco di Vasco Rossi. Graffiato. La vita continua e il tuo sonno insegna, mettendomi a tacere.

In questo mondo ho tradito il guizzo scrivano e selvatico che mi trascinava nelle immagini, durante la stesura. Ma d'altro canto ho fissato con il punto la sede del pensiero, lasciando ciascuna forma o figura in un suo spazio circonciso e più chiaro.

Stralcio (Il cattivo tempo):

Ho sempre protetto il tuo sonnellino. È come un cucciolo di pecora, un animale selvatico e silenzioso, che mi dorme e quando dorme mi scivola dentro. Quando cominci il sonnellino, cominci a finirmi dentro, o forse finisci col cominciarmi dentro, senza svegliarti più. Tutto questo ha un profumo strano e insidioso, che non si dimentica.
Quando cerco di spiegarti e dirti le cose da sveglia, trovo sempre degli ostacoli, delle recinzioni, che mi impediscono di essere puro. Anche l'articolazione della parola, una volta che il pensiero da dire scintilla e non ha interferenze, diventa fiacca, slabbrata. Mi fermo spesso e mi pento di quello che ho detto, mi arrabbio di quello che non sono riuscito a dire. Nel tuo sonno o miracolo di sonnellino, ritrovo invece la mia voce, che viene da lontano e ci avvicina, come non avrebbe mai fatto in una diversa circostanza. Da lontano si assottigliano gli spazi, si ritirano i mari, gli alberi si abbassano nel vento, come nella scoliosi di un pino bonsai. Soltanto il rintocco-puntura di una sveglia di Topolino, che indica le tue ore con il dito del suo guanto giallo e pizzicando il tuo viso che sogna, contro la mia bocca che cerca ragioni espressive e nugoli di assiomi.
Da fuori un ragazzo sta fischiando, una donna che lo chiama, e gli grida in dialetto di andare a tavola. I trattori rombano verso le corti soleggiate, uno scroscio d'acqua pulisce una striscia fumante di terreno, dalla piccola finestra di fronte sgranano un disco di Vasco Rossi. La vita continua e il tuo sonno insegna, mettendomi a tacere.

martedì 28 giugno 2011

iMpRoVViSo/: (Il cattivo tempo):

C'è bisogno di improvvisazione, ma a patto di averne fatto astinenza, per medi o lunghi periodi. Una clausura metodica andrebbe alternata a una clausura improvvisativa, così mi si diceva. A volte. O quasi  mai.
Temo che l'estro improvvisativo possa venire confuso per altro, così lo sacrifico alle mie arterie per periodi più o meno lunghi, per una mia scelta personale. Lo declino nel sonno, lo disegno sui vetri, durante una notte di gelo, facendo attenzione che il mattino dopo, se i vetri rimarranno appannati, come occhi appena nati, non ne rimangano tracce. Come una carezza confusa sul viso di chi dorme e che forse non ti sente, e al mattino è già sparita, ancora al buio. Hai paura?
Lo scrivere è accarezzare una montagna, che non ti vede nemmeno più, per quanto tu non esisti più di fronte al suo plenilunio di roccia serena e poco azzurra. Solo le cose così grandi esistono? Una cosa così grande avrà più vita, solo per le sue magnifiche proporzioni? Potrebbe essere una questione di effetti luminosi, di possenza, disegno nel vuoto, di stomaco o di cuore radioso e giovane? Una montagna respira, mi dicevi: respira proprio come te, dopo uno sbocco di tosse. Stamattina ti ho visto scendere, e mi sono sentita in un luogo lontano e diverso, quando ti vedevo svanire, insieme alla tua acqua di colonia, bandito! Sono le tue parole, di notte,  in un orecchio, come se uscite dalla canna fredda di una pistola semiautomatica che ti carichi nel pigiama corto, quando scendi per bere e inciampi nel blu di un bel rasoio Gilette.
Credo che non sempre, continuando..., vi sia un'antitesi tra un metodo e un flutter improvvisante. Non si sa mai dove finisce l'uno, e dove comincia davvero l'altro. In qualsiasi possibile registro di composizione o scomposizione. Mi stai macchiando le lenzuola: dovresti medicarti la caviglia, ma che diavolo ci faceva il mio rasoio nel corriDio?
Come scrittore adoro la scomposizione dei fattori, dei cristalli armonici. L'enarmonia e la cadenza  piccarda, misteriosa e fulminea, come una guancia perfetta e porosa di porfido: quando irradia quel modo maggiore improvviso dopo uno spleen minore, una sorpresa di macchinosa bravura.  Non lo si individua mai subito, intendo quanto possa essere diabolicamente libero un certo sistema di condotta creativo, contro un estro atavico e borghese, che scimmiotta forme sfarzesche come in un numero goffo e acrobatico. L'accordo dissonante a volte è molto meno moderno, se non scarnificato da un gesto selvatico e preconcettuale. Non pensato: come l'amour...
È triste dare il nome alle cose. Bisognerebbe improvvisare la propria esistenza, o viverla appena in penombra, e soprattutto amare, ogni cosa che succede, come un operaio grondante di sudore, sul ponteggio di un cantiere estivo, una sorsata fredda di Cinzani che brilla in una coppa.

lunedì 27 giugno 2011

La ricerca inutile (...) (Bozza di monologo: Il cattivo tempo)

Vi è una necessità tragica e velenosa di attenzione. Una ricerca inutile per chi tenta di scrivere e cerca di bagnare tegole in agosto e mutandine celesti sotto volte stellate, solo con le proprie parole... 
Palpita e si insinua in un agguato costante, irresistibile urgenza e necessità. Non si può e non si riesce a riunciare a questo strano cibo nutrito dal magnetismo di altri occhi e di altre orecchie, che dovrebbero, per uno strano copione, interessarsi a quello che avviene intorno alla mia vita di scrittura e secrezione, al mio fobico suono nudo e dissonante mucosa di cluster. Una carezza con una mano sporca, quando apro la posta, quando non sono collegato e immagino che si insinui una rete intorno alla mia assenza di razza, sospesa fino al mio ritorno. Molto velenoso e viscoso. Un odore di alghe marce e di gusci di mitili. Nella bozza di un mio ultimo scritto, forse in forma romanzo, sto esprimendo la possibilità del caos. Un affresco puro e incontaminato di disordine e di latrine intasate con ciocche di capelli e disegni di baci. Di donne in vestaglia, con i capelli sporchi e le mammelle pendenti, dove succhiano nidacei di gracule religiose e piccoli esserini mammiferi senza naso. Non credo che vi sia impresa più ardita per mostrare quello che avverto e che si alterna. Nessun manuale di scrittura al mondo ha mai affrontato il balsamo per questo morbo caotico che a volte sogna l'indispensabilità di quello che si crede e che si crea,  innevato di merda umana e di materie prime, dove si avvinghia l'antitesi dell'espressione e dell'espressività, come surrogato indispensabile per poterla espletare o eruttare, come nella grotta di un brutto sogno, dove cercare la spia di un'eco, contro il sibilo di un pipistrello ubriaco o la scoreggia marcia di un orco cieco e addormentato, che si gratta la barba con un cuscino caldo.
Sarà o Sarò:
Cieco?

Il disabitato su ebook.it:

Il link

domenica 26 giugno 2011

Cybook Opus:

Un filo di pensiero, da Cortázar

Solo questo pensiero, stamattina: estratto da un dialogo, ma rimane comunque un pensiero. Ogni dialogo è parte di un'architettura più complessa, dove tutte le sue parti possono risuonare da sole, con la loro voce. Una come questa:
– Povero amore quello che di pensiero si alimenta,  – citò Ossip.
Julio Cortázar

sabato 25 giugno 2011

Senza

Pensavo a che cosa farei se tutte le cose su cui ho lavorato e in un cui ho creduto, svanissero, si perdessero nel vuoto, per un qualsiasi motivo o accidente. Che cosa rimarrebbe di me senza di loro e di loro senza di me, dovunque esse siano finite e cominciate. Cose scritte o anche non scritte, e anche fatti veri o finti che mi rappresentano, oggetti che penso possano intingersi della mia vita, senza altri sostituti. Fotogrammi, mappature genetiche, impronte di sporco sul bagnato, che parlano di me, in modo inequivocabile, del mio passo fuori tempo: 
quanto davvero conta questa sensazione di vita al di là di tutti gli oggetti e i riferimenti nei quali ho creduto di rappresentarla e di condividerla, o in alcuni casi di imprigionarla? È davvero possibile racchiudere il senso espressivo e privato di un'esistenza in un oggetto o in una serie di reperti? E affidare a un oggetto quello che non si sa ancora di sé, o almeno quella certa idea dove ci si illude di essere definiti e ricollocati? Ho paura di dare molta importanza al superfluo, che credo invece così importante, senza ricercare nemmeno le prove e le testimonianze di questa sacrale prevalenza su tutto il resto che non ho esplorato. Importanza all'involucro, dove penso vi sia lo spazio adeguato per un uccello selvatico, per il suo canto autoctono e boschivo. E di trascurare quello che invece è essenziale, ma che non si riconosce mai per tempo.
L'uccello non canta e non incanta più, ipnotizzato nelle sue sbarre, in controluce, che presto si sostituiranno alle sue piume. Quello che sento possa rappresentarmi, potrebbe rimanere in una piccola gabbia a pagoda, protetta dalla luce solare, ma senza il contenitore con l'acqua. Il cadavere ancora caldo di un canarino di postura.

venerdì 24 giugno 2011

Versi ciclopici

Questo Lorca ha lo spessore dell'invenzione violenta. Asciutto e affilato, come un coltello appena uscito da una forma di pane rovente. Molto bello, dal testo in lingua originale, l'effetto musicale della piccola anima, di un'anima minuscola: Alma diminuta. Gli sguardi diventano invece Miradas, meravigliosa apertura di luce nell'originale: Una tela de miradas. 
Li ho pensati e sentiti come versi ciclopici, anche se inseriti nei suoi inediti, poi raccolti in Canciones. Il suo immaginario non ha mai peso, ma ha soltanto una manata di slancio, anche in questo gravido caso, fatto di spazi minuti e diminuti, quanto creaturali tra le densità polpose della sua lingua :

Polifemo

L'occhio del ciclope
Tesse nell'ombra
Una trama di sguardi.

(Anima minuscola.
Fallo gigantesco).

Federico García Lorca

martedì 21 giugno 2011

Il disabitato: qualche estratto audio

Estratti audio

Musica di Balakirev (Creative Commons )
Creative Commons License
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venerdì 17 giugno 2011

VAT 69

VAT 69

Il colore che attinge dalle cose
la memoria superstite o rispose
la verità dell'essere che chiama
nel nome la sostanza di che s'ama

la brocca, la bottiglia, quel peocio
di violetto marino giallarancio?
Rimase sul pennello questo slancio
rapito, questo ridere precoce.

Alfonso Gatto

giovedì 16 giugno 2011

La compagna di classe di Luigi Salerno

La compagna di classe  da Musicaos

mercoledì 15 giugno 2011

Un attimo prima dello sparo

Bisognerebbe scrivere sempre, ciascuna parola, come un uccello cacciato, un attimo prima dello sparo. Non conosco al momento altre regole o possibilità per non coprirsi di ridicolo. La possibilità che un testo, anche ben fatto, sia causa di sbadigli o di risate convulse, si aggira intorno al novantotto per cento! Il resto due per cento è per tutto il possibile resto.
Rimane una grossa incognita. Parlo della certezza di comunicare e di sposare un intento espressivo, con una propria forma di linguaggio, e con la stessa catturare l'interesse di illustri ed eroici sconosciuti, che potrebbero fare sicuramente a meno dei tuoi sforzi e della tua vita. Imbattersi in un duello senza fine, con la propria strumentazione di bordo, contro l'indefinibile imperscrutabile mondo che si muove e che continua, al di là di me o di chiunque si accinga per un qualsiasi motivo a mettersi per qualche istante al centro, con un proprio testo.
La scrittura in qualche modo mi ridimensiona. In alcuni fa l'effetto contrario, per me è complesso vitaminico o un canale criptato per i film sporchi mai visti. Mi rende tangibile la mia assoluta invisibilità al mondo. Una traccia di collo sporco e il cuore scuoiato del principe azzuro colpito per sbaglio dal pugnale di un guardiacaccia. La fragilità della mia specie e del suo canto in sottovoce, che rimane seduto in piedi, sulla sedia gialla della mia stanzetta, nel cortile di casa, quando improvvisavo un recital davanti a mia nonna, insieme alla mia amica del cuore... 
È così che avverto il senso ridicolo dell'esporsi, del proporsi e del sottoporsi, spesso senza aver nemmeno collaudato per bene l'accordatura del mio strumento, o peggio: con l'illusione che per suonare bene un proprio testo, basti accordarlo alla perfezione e violentarlo di perfezionismo artificiale – o  artifecale – e non proprio. Accordarlo e farlo ritornare come un cristallo sfavillante di suono, con un ottimo accordatore elettronico, che epurerà tutti i difetti e i possibili delitti, che mi assicurino l'arroganza di presenziare davanti a un lettore, con il papillon bene in asse sulla camicia diplomatica, i polsini rigidi e ben inamidati, la patta del pantalone che mi contenga per bene il probabile demonio di un'erezione improvvisa, in presenza degli ospiti importanti e troppo sensibili alla natura selvatica dell'uomo. Eppure lo strumento è perfetto. È tutto a posto. Ho pesato al massimo le mie parole. Le ho messe al microscopio, come il fegato di ratto nel vetrino, che mi attirava così tanto, quando andavo a giocare da bambino dal mio vicino di casa. Eppure non succede niente. Dove è finito quello stupore? Quell'ansia naturale di darsi e di immolarsi con il proprio occhiale, anche se sporco e appannato, ma ancora così riconoscibile? Dove comincia la mia voce? Così come è e non come sarebbe giusto che sia. Troppo sformata dalle informazioni, dalle buone amicizie. Uno scrittore ha bisogno di compagni cattivi, che gli frughino nelle tasche e sbavino dietro le bariste del centro, più che di grandi amici. Ho paura che questo tempo voglia centrarsi troppo su se stesso. Avvolgersi in una sua idea. La palpebra è troppo tesa per ammorbidirsi e perdersi nel privato di una costellazione aperta. Lo scrittore è diventato un chimico, che illustra le sue formule e le fa scorrere, come perle dentro un solo filo bagnato, appena passato nei denti bianchissimi di un orafo. E ciascuno imparerà a memoria la giusta sequenza e terrà fuori quelli che non hanno incamerato il giusto assetto. Il mare canta e l'uomo scrive. Senza mare. Un mare senza scrittura se non quella delle seppie, che sborrano romanzi storici nella bocca di un polipo.
Non trovo un senso a suonare troppo accordato. Il miracolo è imparare a suonare un proprio strumento da scordato, e dal canto imparare naturalmente ad accordarlo.
Possibilmente al buio, o davanti a un fuoco fatuo! Se così non succede niente, conviene fare altro.
Bisognerebbe scrivere sempre, ciascuna parola, come un uccello cacciato, un attimo prima dello sparo.

lunedì 13 giugno 2011

Il disabitato: aggiornamento negozi distributori











giovedì 9 giugno 2011

Il cattivo tempo (Bozza di monologo o lettera d'amore)

È uno stato degli occhi e dei pensieri, quando mi accorgo che manchi la luce giusta per cominciare. Che non esistono gli interlocutori che stimolino a una crescita e a un confronto, ma che sono eccellenti architetti, con la testa in aria e il sigaro storto che affumica l'umido grugno. 
Avverto il cattivo tempo: di un' epoca  statica, e di un tempo culturale che misura, annusa il piatto e non lo sfiora, lo scansa, ma ne individua per intuito o per orgoglio gli ingredienti, e li condanna guasti. Senza  speranza di assaggio e di sentenza. 
Il cattivo tempo dalla tua finestra in cui mi specchio e mi rabbuio, mi riporta a figure gotiche e più antiche, che hanno capito e captato senza imparare, contro quelle che hanno imparato senza capire e captare. Conosco la quantità di potere che si cela in un movente sordido di scrittura. In molti casi è una rivalsa, per aver fallito altrove, o perché forse non c'è più tempo per farsi scorgere e allora si lancia un grido nel vuoto, ma lo si scrive con una grafia troppo perfetta per farlo arrivare in fondo, per spaccare un cristallo e infrangerlo in un punto opposto dell'emisfero. Per deviare la curva del pipistrello e la risata cupa del gufo.
Il cattivo tempo dell'arroganza, che scorgo sempre più densa, come neve bianca, e che ammanta cuori e cultori. Quella che non lascia spazio ma dispensa strazio. Il sapere come un avere. C'è la possibilità di ascoltarsi ma non di perdersi. Non potrai mai perderti in quello che fai, ascoltami e non ti girare: non ti sarà permesso. Non potrai contrastare le direttive e le coordinate  che sono state tracciate e imposte al copione maestro. Dovrai affossarti a poppa con gli stessi venti, e sentirti travolgere da una burrasca allo stesso modo, con lo stesso balzo o rinculo all'indietro. Attenta alle sbucciature dei gomiti e delle belle ginocchia, a non succhiartele e a non truccarti la bocca con quella roba lì.
Le parole sono segni. Hanno la fragilità e la forza del codice. La natura e la tenebra criptica, quanto la fascinazione semantica dell'evocazione. Ma ogni codice avrà le sue limitazioni. Il segno avanza con uno spasmo, che quanto più naturale e maestoso, verrà sorpreso e poi soppresso da nuovi e generosi ammortizzatori sintattici contundenti, che spostano il paragrafo spastico e lasciano spazio al pensiero terso e semplice con una foresta pluviale di stampelle. Il paragrafo metallico perfetto, come un polmone rantolante d'acciaio: l' unilaterale, cristallino, placido, fobico, consolatorio e possibilmente senza punte falliche sporgenti.
Il cattivo tempo: ogni penna è il tentativo di un coltello da sub di sciogliere, sbrigliare, divincolarsi da una rete folta di alghe. È un gesto fallico, fanatico e mistico, di ricongiunzione a una propria natività profana. Lo scafo è pronto e rintuona di schiuma. Lo sperma dell'oceano che sogna e il mio braccio cerca di asciugarsi. Mi alzo per metà la camicia, mentre il passero dalla gola bianca mi lascia un bacio sulla fronte e rimane fermo, quando lo sfioro con la punta del naso e gli faccio chiudere i semi dolci e asiatici degli occhi bruni. In un lungo sogno avverto il dolore di un tuo incanto.
Ancora la mia voce non si sente. Eppure la sto abbassando all'infinito.  Dal cortile sento la schiuma pesante di una vedova che lava una tomba, ribollire dai secchi, e intingere di celeste le mie ultime parole rovesciate. Un ramo si spezza. Adesso c'è un tuono. È biondo, con i capelli di un principe, che strappa la criniera e scivola da una giumenta calda in amore per poi venirne travolto. Le mie parole scorrono, come mestruo fiumante  e fumano l'argilla, consolando la notte insonne dell'uccellino, la fronte fredda del becchino, la giarrettiera bianca della sgualdrina. Cercano sfogo, nell'ultimo gomito di fogna e rischiano e raschiano la certezza del silenzio perfido e perfetto del giullare monco.
Il cattivo tempo: ancora in agguato. Come il tuo viso che mi scrive e ancora il tuo nastro che mi lascia una traccia verde nel buio. Dal tuo tavolo ti scorgo una gobba nuda che sgorga latte fumante. Annusi il vomito del firmamento insieme al mio migliore pensiero e alla tua tristezza immensa. Il pensiero migliore arriva solo col sonno. Non esistono parole scritte che non siano l'ombra o il cattivo  fantasma di tante altre perdute e sfinite, in un orgasmo giostraio di sonno senza sogno, senza una fine. 
Brindo a tutto il  mio non scritto, a tutto l'incompreso e il rifiutato, al contorto, al mio sputo, al mio muco argentato e al mio indaco gesto e delitto secreto. Brindo a quello che non ho lasciato, che non ho più preso e poi raccontato, e che mi è già sfuggito, come il passero cieco appena scomparso e ormai sfumato, che mi ha pizzicato il dito e ha ingoiato una tua piccola perla rosa scivolata da un filo:
perché è solo in quell'unico limpido tempo di un lampo, che sarò forse vissuto:

Ebook manifesto

Questo scritto credo che metta un po' d'ordine. Quanto meno farà un po' di chiaro, perché informa sullo strumento Ebook in un suo contesto preciso e dettagliato, che non sia necessariamente un credo o un rifiuto degli strumenti più classici e tradizionali, che, a mio modesto parere, non tramonteranno mai del tutto.
L'importante è capire e poi decidere o comunque provare, esplorare, sperimentare, ma essendo informati o anche formati a certe possibilità, prima di condannarle o di assolverle, o semplicemente di ignorarle. 
Doctorow ha un passo di scrittura limpido e scorrevole. Molto piacevole e soprattutto utile per chi non abbia ancora approfondito. L'introduzione è di Antonio Tombolini.
Vi ripropongo allora il link diretto, da Simplicissimus. Ebook Manifesto: Paper per la O'Reilly Emerging Technologies Conference, 2004.
Questa è una versione free.

mercoledì 8 giugno 2011

Conversione di un testo in ePub

Esiste un sito dove si possono convertire gratuitamente i propri documenti in ePub dal PDF.
È utilizzato anche dai possessori di iPad per leggere con Stanza. Eccolo: ePub 2Go

Un capolavoro di solitudine:

Stamattina mi sono imbattuto in due testi singolarissini di García Lorca. Sono fratelli per uno strano destino, dal momento che sarebbero appartenuti entrambi alla suite Palimpsestos, la quale, a pubblicazione avvenuta, ne risultò invece monca. Secondo Belamich, le due poesie sarebbero state scartate dallo stesso poeta. Ma non vi sono certezze, al di là della loro assenza.
Della prima, Camino, trascrivo la prima strofa, che trovo bellissima, e che ho riletto molte volte, rallentandola negli occhi, ogni passaggio sempre di più, in entrambe le lingue. La seconda, El pecho (Il cuore), la trascrivo invece tutta.

Camino  (Sentiero)

Ogni volta che ci diciamo
addio,
creiamo un mistero.

Non so se possa definirsi una strofa semplice, ma è molto profonda ed evocatrice. Ha una sua forza, molto particolare e poco appariscente. È una forza placida e interna, e non guerriera. L'isolamento della parola addio (adiós) diventa un punto di approdo importante, un'ancora o un capolavoro di solitudine, come direbbe in queste circostanze Joseph Conrad. Mi fa pensare molto al fatto che Lorca abbia eliminato una poesia con un attacco del genere. Rimarrà  così mistero naturale del suo stesso mistero di addio. Forse il suo ruolo era quello di sparire, e di non essere ricordata e nemmeno dimenticata.
Ecco la successiva:

El pecho (Il cuore)

Il dottore
mi ha auscultato
il cuore.
Dice che ho
dentro
un'immensa bolla.
Legge con le orecchie
il mio torbido palinsesto
e risveglia non so
che folletto con le dita.
Vorrei anch'io
auscultarmi il cuore.

Federico García Lorca

martedì 7 giugno 2011

Il vortice geografico e umano in Conrad

Credo che questo romanzo sia un occhio di giovane falco, pieno di luce vitale e di fame. Un occhio insulare e geografico, che parte dalla vegetazione e dalle piogge tropicali, per scendere nei canali più scomposti e inscrutabili del continente umano e delle sue diverse stagioni. Non mi dilungo sulla trama, sui personaggi, sullo stile, sulle particolarità del punto di vista. Non sono queste le cose essenziali di Vittoria. Le potrò affrontare più avanti, con più calma, ma quello che conta è la radice vitale di ogni parola raccontata ed evocata, la sua potenza in carisma e in profondità. I due territori, il geografico e l'umano, si intersecano e si toccano,  in un lungo tragico divertimento, baciati dagli stessi mari. Che sia quello di Giava o quello Cinese Meridionale, le speranze e le grandi apnee dell'uomo, sembrano intingersi degli stessi flussi emotivi e limacciosi gorghi notturni che rispondono alla nobile cura del sonno di Mr. Jones o alla furia castrata e repressa di Schomberg.
Lo scenario è vorticoso, come è vorticoso  quell'impianto geografico dove Conrad si muove e traccia coordinate e nuovi confini. Abissale e caratteristico, pericoloso. Suggestive le sere e le notti, ciondolanti alla luce stanca delle lampade sospese tra gli alberi lontani. Qualche sussurro, un grido, un viso di donna nelle tenebre, una stanchezza soffusa. Il cerchio di fuoco si espande, in senso antiorario. La pennellata è sempre circolare, come gli spostamenti, e lascia sempre questo grande senso di perdita e di conquista nel solcare un tratto marittimo o una corrente nuova di pensiero. Tutto in una luce strana e profonda, una luce insulare. Partendo dall'uragano caratteristico di Winslow Hormer, scelto a illustrare la copertina, per continuare nella varietà di un paesaggio violento e balsamico, come teatro. Una ferita calda e impazzita di terre tra due Oceani: l'Indiano, a Sud-Ovest, e il Pacifico, a Nord-Est, dove staccano, ancora in senso antiorario e vorticoso, le giostre delle Filippine, la punta di Saigon e ancora più in basso della Malesia, Malacca e Singapore. Scendendo ancora verso Sumatra, lunga striscia trasversale di un rettile al sole, e quindi Giava e il suo mare, che tocca il grosso Borneo e ancora Makassar, la piccola Timor, trasparente, come Ambin e le Molucche, con alle spalle il grosso spettro della Nuova Guinea, che pare dilatarsi per inghiottirle a distanza, e più sopra, chiudendo il cerchio, Mindanao, a Nord- Est del mar di Celebes.
Tutto questo può entrare e può sbattere in un solo sguardo, come una falena, solo se intriso da un pensiero nitido e umano.  È proprio lì che Conrad, come lui stesso affermò, avrebbe riversato e traversato l'essenza purissima della vita.

lunedì 6 giugno 2011

Uscita del romanzo

Oggi, 6 giugno 2011, è la data dell'uscita ufficiale del mio romanzo Il disabitato.
Qui di seguito i primi negozi, dove il testo è disponibile da oggi:

Media World

Biblet Telecom

Bol.it

Edizioni Il  Pavone

Ultima Books Simplicissimus

9 am

Pilade.it

Libreria Universitaria

Deastore

Speedybook

giovedì 2 giugno 2011

Il disabitato e l'immaginismo: l'ipotesi di condotta dell'immagine

il disabitato e l' immaginismo. Ipotesi di condotta dell'immagine                                                                                            


Sono le prime fasi, alla chiusura di un lavoro, nelle quali cerco, non ancora a freddo e non troppo a caldo, con le mani appena ripulite dall'impasto, di riflettere. La riflessione può essere un atto egoistico, un'espiazione di colpe pregresse o di fobie fantasmiche, o anche il piccolo filo del pendolo di una lettura, per chi potesse essere interessato a scoprire nei dettagli e in un qualche possibile futuro, di cosa tratta il mio lavoro.
Parto da una piccola considerazione. La condotta. 
Ogni storia ha bisogno di un impulso, di una certa tensione che la spinga  a muoversi in una certa direzione. Come la dinamica di un riflesso, di una reazione, di una sollecitazione nervosa, questo impulso  può esserci all'origine, da qualche parte, o a volte essere sviluppato in itinere, per far sì che l'organismo si muova, si snodi e sopravviva ai suoi spostamenti senza troppe fratture. Nel caso specifico de Il disabitato, il tipo di condotta e quindi di tensione motoria o frizione, è stato affidato a un fattore molto particolare – questo l'ho appurato nel tempo, scrutando altre angolazioni della storia da altre prospettive, pur non avendolo impostato in itinere, ma come fattore o movente di scrittura, forse in parte inconscio o subìto nello stile –  che è legato e avviluppato attorno alle immagini.
Che cosa intendo per una condotta sviluppata o avviluppata sull' immagine o attorno a una sequenza di richiami simbolici immaginari o immaginati? Non credo che sia semplice partire da una sola definizione corretta e letteraria per centrarla all'interno della mia questione. Intanto la sua molteplicità di significati e di valutazioni, potrebbe, in qualche modo, aiutarmi:
più che figura esteriore o rappresentazione mentale, sarei più propenso ad associare l'uso dell'immagine in questo contesto, come evocazione o meglio espressione simbolica di un'idea astratta, che fra l'altro ritorna tra le definizioni più classiche e letterali del termine (meraviglioso e incantevole l'utilizzo letterale: imagine, di cui è costellata tutta La Montagna incantata di Mann, quanto meno la vecchia edizione in mio possesso).
Ritornando quindi a questi due fattori, la condotta di un' immagine come perno o motore di una certa azione coerente, vuol dire lasciare alle figure e ai simboli evocati, la tenuta del discorso, il punto di vista parallelo e occulto, accanto a quello tecnico del narratore. Il basso continuo, che muove e smuove i suoi temi, attraverso un altro occhiale, sovraimpresso o anche simultaneo.
Questo fattore crea una certa visibile alterazione, per tutte le voci e le dinamiche che si succedono. Come se tutta la storia, con i suoi figuranti e il suo contesto, sia attraversata costantemente da un rigo sottile ma invasivo di febbre, o meglio di febbricola insistente. L'alterazione è la costante, che giustifica e trasfigura nel suo tempo, il moto diretto o contrario degli eventi, come nel fuso di un'ostrica, così come ho acennato nella breve sinossi che avevo preparato per l'editore. In fondo, in questo tipo di scelta, gli elementi rievocati e trasfigurati, o le suggestioni di un effetto immaginativo o immaginifico, saranno carne e corpo di tutti i moventi e i passaggi principali che consentiranno al muscolo narrativo di flettersi o di tendersi in una certa direzione. Saranno il loro albero motore, o anche la loro prua. Questa considerazione è ancora molto acerba e fresca, ma sarei contento che fosse un fattore considerato, non per giustificare alcune mie scelte e alcuni miei criteri, ma per fare maggiore chiarezza e associare agli elementi utilizzati, il loro ruolo specifico, la loro funzione in un'economia generale e quanto più coerente, e non soltanto effettistica e quindi gratuita.
Queste scelte saranno il dente incisivo, dove batterà il ferro  della storia. Il fattore più rischioso, ma anche quello più ricco di sorprese e di possibili varianti interpretative. Il rischio è quello di poter essere letti o di scivolare nel fattore dell'immaginismo, quando sarebbe preferibile assecondare un artificio più immaginifico, avvertendo, personalmente, dei confini ben netti che separano il contenuto dei due termini.
Buona giornata.

Radici e anatomia de "il lume" petrarchesco

È ancora una volta il contesto a decidere sulla sorte definitiva di un dato termine, a volte semplice, immediato, forse perché ancora straordinariamente comune, pur nella sua forma arcaica o prettamente poetica di utilizzo.
In certa poesia è diffuso l' uso particolare e variegato della stessa parola in base al tipo di situazione contestuale dove la parola si muove. Ho pensato a questo in momenti diversi, soprattutto nei miei primi pomeriggi passati a leggere i purissimi  sonetti de Il Canzoniere, di Francesco Petrarca, nella mia cucina, che mi hanno dato la prova del fuoco di questa straordinaria mobilità ed estensione di uno stesso termine in diverse situazioni.
Il Dizionario Garzanti della Lingua Italiana, al punto n. 5 della definizione di lume, cita direttamente il Petrarca, (poet.) parlando in questo caso del plurale: gli occhi (Vive faville uscian de' duo bei lumi, Canz. CCLVIII, verso 1), con cui il Petrarca attacca il sonetto n.258, come nell'effetto di un doppio baglioreLa radice è latina; lux, lucis: la luce.
I riferimenti successivi del mio curioso quanto appassionato approfondimento in merito -soprattutto per la bellezza, la morbidezza e la pastosità nebbiosa del termine, sono presi dalla versione del Santagata, che prende a modello e a riferimento l'analisi precedente del Contini, 1964.



Venendo dunque al termine lume ( 7, 12, 326) e illuminar (4).

Nel testo n. 4,  della parte prima, abbiamo al verso 5:
"vegnendo in terra a'lluminar le carte", che adesso si accosta all'intelligibilità e alla chiarezza di un testo, alla sua penetrazione in base a un fattore profetico dunque intuizione o comunque elemento più mentale.
Nel testo n.7 della prima parte, invece, ancora al verso 5:
"et è sì spento ogni benigno lume del ciel", il lume qui significa influsso, emanazione, in questo caso astrale, dunque elemento diverso, decisamente trascendente.

Nel testo n.12 della prima parte, al verso 5
"donna, de' be' vostr'occhi il lume spento", dove adesso per lume si intende luce, o meglio splendore degli occhi, dello sguardo luminoso, acceso che in questo caso è spento e non più radioso.
Proseguendo per finire, al  testo n.326, parte seconda, troviamo al verso 4: 
"or di bellezza il fiore/ e 'l lume ài spento", ritornando adesso allo stesso di sguardo del n. 12,  ma in relazione alla Morte e quindi al suo definitivo e irreparabile offuscamento. Privo di una luce vitale superiore.

Analisi testuale elaborata dalla versione commentata e curata da Marco Santagata, de i Meridiani, anno 1996.

mercoledì 1 giugno 2011

Il fattore lancinante di un personaggio

Questo titolo dice tutto il  mio pensiero. Lasciare un personaggio, a volte è come tradirlo, quando hai concluso, lasciarlo al suo destino, o lasciargli la mano mentre attraversa la strada. 
L'unico metro che mi avvicina alla sua probabile riuscita, è questo affetto strano e simbiotico che ci lega; questa volontà di fargli del male e questa forte nostalgia di bene, quando il gioco ormai è fatto e la sua figura stagliata nella mia vita è già passata. 
Capita di immaginarmelo vivo, in una telefonata improvvisa, nel desiderio di sapere dove si trovi quando piove, e  cercarlo al di fuori e non più al di dentro di me, quando cala il sipario. Cerco di organizzare e di muovere tutto il mio linguaggio e le sue dinamiche, dai fattori più meccanici alle arcate più fluide e ornate, attraverso questo parco luci di sensibilità abbagliata e inespressa nelle nostre distanze private. Attraverso l'invisibile e il sottile speziato di quest'assenza, resisterò forse al suo agguato solitario, e avrò la timida speranza di comunicare la parte di un mio mondo. Non ho altri catalizzatori se non queste particolari entità, che organizzano il concerto di una molestia, mutando e sfilando frecce infuocate avvelenate alle mie povere spalle.
Credo, allo stesso modo, che non esista un personaggio, tra quelli incontrati e vissuti nelle mie storie, che non abbia amato, protetto e perduto, come si ama, si protegge e si perde una persona vera. In caso contrario, non resisterebbe ai primi due paragrafi. Oppure affonderebbe per sempre la storia nei suoi rottami ferrosi.