I personaggi che abitano le mie storie, fanno parte di una strana mescolanza di vero, di possibile, di desiderato, di spaventato, di temuto, di verosimile, di tragico, di cercato, di smentito, di molto amato. Sono visi e figure già vive ancora prima di esistere, instancabili e indimenticabili per la loro stessa stanchezza, o forse perché hanno quella strana febbre addosso, quella forma delle mani e degli occhi e delle nuche e dei pensieri, che amo e che a volte immagino vicini a un mio polso che trema mentre li disegna o alla mia gola che grida senza suonare, quando risponde a una loro telefonata notturna. Sono figure che cerco di riconoscere dal vero, quando ormai sono dentro una storia, lungo i passaggi delle mie strade e immaginarli vivi, che forse mi riconoscono in un istante che non ricordo, e che neanche l'altro forse ricorderà. E che prendono ad abitare la mia esistenza insieme alla mia vita, durante e anche al di là della loro vita artificiosa sulle mie strane pagine che li accoglie e li raccoglie da uno strano fondale nascosto. Anche l'ultimo personaggio, dell'ultima storia sbagliata o uscita per sbaglio dalla mia vita, o sputata come questo post, sbalzato quasi come un colpo di sonno, avrà qualcosa da dirmi e da insegnarmi. O forse da amarmi. Penso di scrivere per essere amato dai personaggi delle mie storie. Anche i più tremendi. Potrebbe essere davvero possibile. Forse l'unica seria ragione per dedicarmi ancora a questa follia.
giovedì 31 marzo 2011
mercoledì 30 marzo 2011
Maestria nella tenerezza in Mario Soldati
La scrittura di Soldati è di una sconcertante bellezza naturale. Parte di un paesaggio, di una luce notturna. Una bicicletta che si ritira di sera tardi in un piccolo paese appena addobbato a festa, ma con le luminarie già spente.
Credo che leggendo uno dei suoi romanzi più perfetti nella struttura e altrettanto naturali e generosi nella cantabilità espressiva dell'ispirazione, si possono scorgere le caratteristiche che fanno irresistibile e ineguagliabile la grande scrittura naturale, quando si riesce a coglierla nella traslucenza del suo ultimo e pericoloso fondale di bellezza. Quella che scorre senza artifici, che allaccia paragrafi, situazioni e pensieri, come fettucce di scarpine da ballo attorno a un polpaccio dolorante in equilibrio. È la grandezza dell'essere teneri ed espressivi, senza disperare ed osare troppo nell'artificio riuscito. Senza diventare tenebrosamente teneri, o pittorescamente tristi o forse gioiosi ed esultanti della stessa tristezza descritta e raggiunta. Il grande scrittore deve cimentarsi in tutto il suo estro per guadagnare quel millimetro, quella minuscola frazione di spazio assiepato e oscuro, che separi una sensazione di profondo incanto – o incantamento – espressa in un ritratto in filigrana, da un impasto stucchevole e artefatto, dipinto con il taglio della mano intrisa di tintura per capelli. E tra questi due modi di colorare, a volte si può piombare in quello più grossolano per una frazione invisibile di passo. Credo che lo sforzo letterario di una descrizione, debba lavorare e penetrare l'immagine di fino, per guadagnare questi millimetri inscrutabili e preziosi, che diventeranno la sua naturale e commovente grandezza e parte viva della sua poetica.
Ecco, secondo me, che cos'è uno scrittore. Un uomo che bada ai millimetri importanti, e li distingue alla perfezione da quelli superflui.
Ecco, secondo me, che cos'è uno scrittore. Un uomo che bada ai millimetri importanti, e li distingue alla perfezione da quelli superflui.
Come in questi due estratti dal romanzo La sposa americana, in apparenza semplici e alla portata di tutti, ma terribilmente perfetti nel tipo di delicatissimo innesto di giustezza millimetrica dal baratro del confine, e nel senso più classico e più umano della tenerezza letteraria e silenziosa che osserva, senza quasi più dire:
"Il padre di Edith non aveva sessant'anni e ne dimostrava ottanta. L'ho sempre visto seduto su una poltrona, anche a tavola. Il volto chiaro, tranquillo, bonario. Lo sguardo azzurro e luminoso nei grossi occhiali di celluloide gialla: il giunto di una stanghetta era fasciato di scotch-tape: mi sembravano, forse a torto, ancora occhiali fatti a Praga. E stanchezza in ogni gesto, sorriso, parola. Un vecchio senza più nessuna speranza. Parlava un inglese rudimentale, raggentilito dalla cantante cadenza boema, ma perfettamente comprensibile. [...] Guardavo, e immaginavo la dolcezza della casa che gli Sládek avevano abbandonato e non dimenticato, la loro casa di Mělník, nei sobborghi di Praga. Non sono mai stato in Cecoslovacchia, perciò immaginavo vagamente, confusamente. Il tinello degli Sládek a Mělník sorgeva nella mia fantasia, forse dal ricordo di qualche film cecoslovacco, ogni volta che incontravo il sorriso viennese e malizioso della madre di Edith o il sorriso stanco del padre, la stanghetta dei suoi occhiali gialli fasciata di scotch-tape.".
Da La sposa americana, di Mario Soldati (1977)
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martedì 29 marzo 2011
Prima di spegnere la luce
Stanotte, prima di spegnere la luce, ho lasciato sopra il jeans alcune pagine di un manoscritto in revisione, mangiato dai segni della bic e sgualcito ai lati. Ho guardato quei fogli deboli di carta sul blu scambiato dei pantaloni, e poi la camicia a quadri e il pullover, appena più a destra, e non ho capito che cosa facessero adesso, senza di me, quegli strani oggetti o figure fantasmiche e ignote l'una dell'altra, ricomposte per un caso come salme dalla mia vita che riposa. E che forse mi rappresentano, mi vestono e mi nascondono per tutto quello che non sono. Comprese le mie parole corrette.
Erano tutti sulla stessa panca di legno, che è sistemata accanto al letto. Ho pensato a come è spaventoso vedere i propri abiti riposti senza vita con la tua carta e le tue parole scritte sopra e mischiate nei tessuti, anche loro senza vita: come oggetti personali di qualcuno che non c'è più, o che è scappato senza di loro, dandosi alla fuga o per vinto.
Ho spento la luce, ridendomi anche un po' addosso. Nel silenzio.
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lunedì 28 marzo 2011
Letteratura di formazione, informazione e trasformazione
Ne ho sentite troppe sulla scrittura. Credo che sia molto più letterario ed edificante parlare di donne o di cavalli da corsa. Un appassionato puro e inguaribile di belle donne o anche brutte donne – sono convinto che le brutte donne a volta sono le più belle – di qualsiasi livello culturale egli sia, avrà accumulato di sicuro molte meno sciocchezze di quelle che ho ascoltato su parametri letterari e prospettive formative per poter scrivere o non scrivere. Per poter avere la patente per comunicare e farsi capire o avere l'arroganza di non voler comunicare o non volersi far capire – sarebbe una trovata davvero idiota, quella di scrivere delle ore per non comunicare, o forse un atto di coraggio o di protesta.
Ne ho sentite troppe, sul discorso di quello che conti, di quello che sia necessario e utile da leggere, di quello che conti e sia imprescindibile e universalmente noto come farmaco letterario miracoloso, contro la cattiva letteratura o debole, criptica, denutrita scrittura di corridoio e non di reparto, letteratura da astanteria, da intrattenimento o da bordello; o quella da tenere pronta per rimanere aggiornati, o da sfoderare all'occorrenza, per una scopata di gran lusso, o da nascondere come una ruga o un parente scomodo.
La cultura e la scrittura non sono mondi fatti di sole categorie, di soli giudizi, di sole lineee geometriche che devono incontrarsi, di proporzioni e di equazioni che devono necessariamente trovarsi.
Nel mio caso, credo che si tratti di sproporzioni e di disequazioni che devono necessariamente perdersi e scontrarsi a morte, prima di trovare o non trovare una mia voce – non so quante altre volte lo avrò scritto, ma non credo che sia una ripetizione una cosa ridetta. Puoi essere ripetitivo anche dicendo una cosa una sola volta, se non usi la tua testa ma quella di qualcun altro, che pensi faccia un effetto migliore. Gli affari culturali e affini di scrittura, sono aspetti dell'umano e della sfida con l'inesprimibile, che nella stragrande maggioranza dei casi, trascendono il gusto ostinato a viverli come problematiche o comparti etici incasellati e asfittici –immagino che il fattore poetico sia estremamente inadatto a essere impostato e impastato sotto un profilo problematico, eppure ne sento delle belle anche lì.
Il problema è che ciascuno avrà i suoi mezzi e i suoi orizzonti formativi, informativi e trasformativi, e avrà la necessità o il dolore di esprimerli o di non esprimerli, senza dover esibire un elenco dei testi validi o dei documenti che hanno contribuito a fomentare il suo errore o il suo trionfo. Potrebbe non esserci un motivo o un reale movente per lo scrivere bene così come per lo scrivere male.
Che cosa significa e mortifica o panifica lo scrivere? Mostrare un muscolo, un bel ginocchio pieno da una calza di seta, una nuca profumata, o lottare con il demonismo di una necessità, di un'urgenza? Da dove vengono fuori queste grandi verità? Mi auguro di averne sempre di più sulle donne e sulle loro ginocchia e sulle loro nuche misteriose, e mai e poi mai sui libri e sulla loro scrittura.
Buona settimana.
sabato 26 marzo 2011
L'egoismo nella scrittura
Immagino di distinguere una tempra, un tratto fisico. Se chi sta scrivendo sia magro, sia grasso, sia felice o scontento, abbia un gatto in braccio o una ragazza bruna che gli dorme addosso e lo sta sognando. L'immaginazione di chi sta leggendo può spaziare e nuotare in punti distanti, a volte all'infinito. Immaginare il tipo di viso, il tipo di cibo preferito. La sua casa, la sua storia non narrata. E anche lo scrittore può immaginare all'infinito il suo lettore, quando ancora non esiste e non legge anche se forse non lo leggerà mai.
E il suo egoismo? Dico ancora quello di uno scrittore senza viso. Esiste una possibilità anche remota, ma nemmeno troppo remota, di essere smascherati o di smascherare una figura egoista e blindata che scrive? O egoista perché scrive? Ci ho fatto caso tornando a casa. Con il cielo coperto, immaginando a quante cose si perdono e non si danno se si confina la propria vita soltanto alle proprie parole scritte. Col rischio di farle diventare questure se non torture. E che fine hanno fatto gli altri? Sono persone o soltanto possibili prede-lettori?
Con queste riflessioni ho riletto in parte alcuni atteggiamenti complessi, che mi riguardano, per considerare sul finale che una grande passione a volte è screziata di tanto egoismo, a volte ne è ammantata, e se non si sta molto attenti questo aspetto può essenziarsi e nascondere tutto il resto. Se pur esiste del resto. Ho smesso di pensarci, e ho preferito vivermi l'ultimo tratto di strada. Cercando di guardarmi e non di pensarmi troppo intorno. Eppure credo che una scrittura egoistica si possa distinguere in qualche modo, in base alla tipologia umana. Di solito gli uomini e tutti gli scrittori, si dividono in due grossi blocchi: quelli che hanno la certezza di essere amati, e quelli che non hanno e forse non avranno mai questa certezza. Credo che l'esistenza di un uomo e i relativi guasti egoistici possibili che potrebbero annidarsi nel suo fare, possa ricondursi a quanta certezza o incertezza ci abiti in relazione all'essere o al sentirsi amati.
È tutto.
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giovedì 24 marzo 2011
L'attenzione
Vi è uno spasmo molto forte di richiesta di attenzione da parte di chi scrive. In qualsiasi modo si cerca un occhio privilegiato, dedicato alla propria strada.
Questo è molto importante ma merita un piccolo appunto: se l'attenzione fosse subito disponibile e pronta al proprio cospetto, personalmente non vedrei l'ora di liberarmene per poter continuare a scrivere o forse non scriverei più una sola riga. In alcune fasi diventerebbe un ostacolo, un oggetto contundente e non più edificante, che coprirebbe così il sapore di quello che si cerca nel proprio buio e nella mancanza stessa, a volte così fertile e nutriente, di questa premurosa attenzione negata. Non credo che scrivere sia soltanto alzare un braccio dall'acqua verso un genitore che sta sulla riva e chiedergli di guardare quello che si riesce a fare.
Gli occhi e l'attenzione sono frutto di un percorso credo molto più ampio, che se troppo richiesto potrebbe ritornare svilente, addirittura asfissiante. Le persone hanno milioni di cose di cui stare attenti. Non soltanto libri, ma anche bambini, mogli e mariti, animali, piante, uffici, musei. È importante, da scrittori, fare molta attenzione, ma non cercarla mai troppo e non sentirsi mai troppo al centro, in nessun caso. Nemmeno quando si è letti. La persona che legge dovrà essere trascinata al centro quando si addentrerà in un lavoro che vale, ma nessuno al mondo potrà prevedere l'adeguato valore di un testo e la relativa attenzione meritata o meritabile. Solo pensando in questo modo così cinico, riesco a non sentirmi ridicolo o pazzo quando attacco una prima sola parola. Poi alle altre non concedo più pensieri. Sentire che meriti la massima cura e importanza, soprattutto perché non è e probabilmente non sarà mai così importante come quelle che non ho scritto e che non ho scelto! Ecco dove dedicare la mia attenzione. All'interno e mai troppo all'esterno.
mercoledì 23 marzo 2011
martedì 22 marzo 2011
L'arte del silenzio
L'incoraggiamento o il giusto sprone, dovrebbe avere la decenza di riservarsi a persone che siano quanto meno ferrate nel settore dove interagiscono e non a quelli che quella strada non la batteranno mai e poi mai. Un pessimo motociclista, che non si regge in piedi, non può essere incoraggiato, così come non si può osannare come un genio un musicista stonato che va fuori tempo. Molte persone hanno sbagliato strada. È una cosa possibile, credo che sia una cosa normale nelle fasi di una ricerca. Ora: molte di queste persone non si accorgono subito di aver sbagliato strada, di solito per un paio di motivi fondamentali: il primo è perché fingono di non accorgersene, e sono così presi dalla gara e dal fascino della situazione, da voler ignorare o quanto meno mascherare la deficienza o eventuale incapacità del settore scelto. Questi signori faranno di tutto per confondersi nella mischia con i più bravi e capaci, o con quelli che la strada l'hanno trovata e non spintonano e non fingono, ma la perseguono, nel migliore dei modi possibili, qualche volta anche dei modi impossibili. Un secondo caso, pur molto diffuso relativo al non accorgersi per tempo della umana e possibile svista, è il fatto che ci sia qualcuno, che per qualche misterioso motivo, cerca di dimostrarti il contrario, molto spesso a scapito di quelli che la strada l'hanno imbroccata. Questi signori non sanno benissimo che la strada imbroccata non è quella giusta, e allora cercano in tutti i modi di incoraggiare l'interessato a perseguirla, cercando di incensarlo, minimizzando i suoi difetti e le sue problematiche, e amplificando al massimo i piccoli, tremanti barlumi di buono, che possono intravedersi in qualsiasi percorso sbagliato, dove, a dirla in soldoni, non esiste una reale attitudine di fondo e nemmeno la possibilità di svilupparla. I poveri malcapitati, a questo punto, sono portati a credere a quelle parole, soprattutto perché pronunciate senza secondi fini e con una certa naturalezza romantica – su questo devo dare atto. Gli stessi incoraggianti, allo stesso modo e per motivi ancora inscrutabili, usano il sistema opposto quando incontrano qualcuno che la strada l'abbia imbroccata per bene e alla grande, soprattutto se il soggetto in questione sia uno molto in gamba e predisposto. Questi ultimi, saranno così le vittime preferite, i primi a essere ridimensionati a dovere e a piacere, pur essendo così evidente il loro talento e la loro predisposizione, cercando di interpretare come difetti i pregi più lampanti, e di invertire le prospettive e i parametri di osservazione, mettendo in luce il piccolo possibile particolare di squilibrio, come prototipo di inadeguatezza e prova del nove dell'incapacità più marcata - a volte solo perché non rientra in uno specifico mood. Si leggono e si interpretano le realtà, soprattutto quelle creative, dispensando alla persona molto capace, un trattamento sprezzante, quasi a volerla punire di quel flusso naturale che la porta a incamminarsi lungo una propria strada, che tra l'altro è quella imbroccata e dispensando una serie sterminata di consigli, di decaloghi, su come dovrebbe essere la sua strada, con quale tipo di asfalto, di inclinazione, di paesaggio. Tutto allora diventa relativo. Si cominciano a confondere le acque, tutti possono fare tutto, ma per una strana visione democratica, i più portati o talentuosi sono incoraggiati a fare altro perché sono mancini o vestono male. La cosa più allarmante è che in molti casi l'atteggiamento nasce da una spaventosa buona fede. Non c'è malizia, non ci sono interessi, non c'è viltà. C'è solo mancanza di attenzione e di distinzione del buono dal cattivo. Ancora più grave di una cazzimmata, perdonatemi! Tutto qui. È una colpa davvero così grave? Questo non lo so. A volte le colpe gravi sono derivate da azioni violente, che vogliono destabilizzare e arrecare squilibrio per un proprio personale vantaggio. L'unica cosa che mi sento di dire, è che quando non sono ferratissimo su di un qualsiasi argomento e soprattutto quando non so quanto possa essere condizionante un mio giudizio se troppo affrettato o troppo azzardato, mi dedico all'arte del silenzio. Credo la più perfetta ed educativa, quanto la più sublime tra quelle più antiche.
lunedì 21 marzo 2011
Le persone che tornano tardi a casa
...a volte credo che una persona, uomo o donna, che faccia molto tardi, ritorni a casa con uno strano carico addosso e dentro, che appartiene alle prerogative di una certa specie a sé stante, e che riesce a rilasciare intorno alla sua stessa figura una strana eleganza e lontananza di faticoso mistero.
Tornare molto tardi a volte è un cantus firmus di dolore alla nuca, più che una prova di forza o di resistenza.
Il desiderio di preoccupare qualcuno a morte o di scorgere un'ultima luce accesa, che forse non ci sono già più.
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Canzonetta
La Primavera è disordine ansioso e dolore, per alcuni aspetti. Ogni fioritura ha la sua canzone nel suo spasmo torvo di ansia, le sue possibili molestie all'ordinario, le sue tensioni. La freschezza ha la sua violenza di erezione, anche quando bagna un viso da una finestra spalancata a volte è un morso sboccato che ferma il cuore. Stagione di scostumatezza armonica e grandi manate piene alla carne nuova, condottiera di sogno e di ingegno. Triplo salto mortale. Una stagione molto fisica e sognante. Gli uccelli industriano i condotti del funicolo spermatico nell'acrobazia del bacio, e le giornate si allungano e gli umani si tingono e si distinguono come cani da caccia sciolti in un bosco rosso e molto caldo.
Vorrei anche testimoniare il passaggio di stagione, con una lieve Canzonetta di Alfonso Gatto, che avverto incantevole e compensatoria alla mia funesta e lavica lettura istantanea delle cose fiorite o in atto fisico di fioritura.
Canzonetta
Le ragazze moderne
non sono eterne.
Oh, che bella novità,
ma dànno fresco alla città.
L'una nell'altra
l'altra nell'una
chi si fa scaltra
non ha fortuna.
Oh, che bella sciocchezza,
ma insieme fanno la giovinezza.
Il rosso le veste di blu
l'azzurro le veste di rosa,
un poeta non sa più
quale scegliere per sposa.
Sceglierà la più bella?
Nessuna è tutta brutta
nessuna è tutta bella.
Sceglierà la più caduca,
sceglierà la passeggera
della fresca primavera
col nastrino sulla nuca.
Alfonso Gatto- La forza degli occhi (1950- 1953)
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domenica 20 marzo 2011
La scrittura notturna
Penso che la scrittura notturna conceda delle possibilità diverse. Immagino che in certe particolari ore si alternino le ultime avanguardie di vigilanza dalle roccaforti; i sensori, i sonar e le certezze, soprattutto quelle, dando il cambio e lasciando aperta qualche falla verso qualche campagna fosca e sperduta, dove puoi incontrare ancora qualche branco di cani sciolti e affamati, fuoriusciti da un videogioco violento, con le lingue ciondolanti e fiammate, la testa bassa. Una donna avvolta in uno scialle nero che si avvia verso un dirupo, il luminio di una sassaiola di fantasmi bambini. Penso che le nostre parole così come i pensieri da cui si rianimano, conoscono la quantità di luce e di silenzio assorbiti, nel momento in cui vengono tracciate o scacciate come insetti molesti dalla nostra vita. La scrittura di notte è una scuola dolcissima di accudimento delle nostre ultime tenebre violate o rifiutate. La malinconia dell'ultimo spettacolo di provincia.
sabato 19 marzo 2011
venerdì 18 marzo 2011
Delicatissimo omaggio in acrostico ad Alfonso Gatto
Mi riferisco all'acrostico che Sanguineti compone in memoria del poeta Alfonso Gatto. L'ho trovato di una particolare intensità, e soprattutto naturale e di tinte pastello, così vicino ai litorali e alle luci del poeta salernitano, come stile e come sonorità. Credo che nell'ultimo verso Sanguineti alluda a una composizione da "Morto ai paesi" –da cui il titolo dell'acrostico – Erba e latte: Mansueta di campani, la sera remota/ alle finestre pallide di cielo /odora umido [•••] odora d'erbe e di muschio la stanza.
Morto ai paesi
G emiti e canti erano il caldo cuore,
A cque marine nei tuoi occhi chiari:
T remava appena la tua ombra, nel vento,
T ra le rosse bandiere, a Portanova:
0 dora l'onda, ancora, di erba e cielo
Edoardo Sanguineti
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giovedì 17 marzo 2011
Scrittura e solitudine
La scrittura è un affare splendidamente solitario. A volte è la solitudine.
Credo che nella scrittura si combatta con la ricerca o meglio con le difficoltà per ricercare una propria voce solitaria ma per incontrare forse un amico, un proprio suono umano di scrittura, che non sia doppiaggio o doppione di un'altra voce, e nemmeno imitazione, clone, al massimo risonanza, questo potrebbe andare quando non divenga consonanza o assonanza troppo marcata.
Una voce che si affacci come la luce di un cerino in una casa aperta da poco e in pieno black out, ma che riporti quel certo effetto velato di una presenza tangibile, anche molto intimo e non fa niente se questo avviene in una piccola e ombrosa parte del testo, a patto che parli appena un po' di sé. Penso che per raggiungere anche una piccola feritoia del genere, si debbano squarciare interi crateri di tentativi, strade sbarrate o sbagliate e di cattiva o di pessima scrittura, sciocchezze, azzardi ispirati e piccole intuizioni e tanto altro. Ma soprattutto non sentirsi mai troppo certi di quella che sia la strada giusta, perché una certezza del genere, specie se ostentata agli altri come formula suprema o talismano, potrebbe essere il passaggio più agile verso il primo dirupo.
Di solito, però, quando si comincia a sentire l'odore di una propria voce, faticata e a volte sofferta, comincia lo scotto della propria reale solitudine.
Credo che nella scrittura si combatta con la ricerca o meglio con le difficoltà per ricercare una propria voce solitaria ma per incontrare forse un amico, un proprio suono umano di scrittura, che non sia doppiaggio o doppione di un'altra voce, e nemmeno imitazione, clone, al massimo risonanza, questo potrebbe andare quando non divenga consonanza o assonanza troppo marcata.
Una voce che si affacci come la luce di un cerino in una casa aperta da poco e in pieno black out, ma che riporti quel certo effetto velato di una presenza tangibile, anche molto intimo e non fa niente se questo avviene in una piccola e ombrosa parte del testo, a patto che parli appena un po' di sé. Penso che per raggiungere anche una piccola feritoia del genere, si debbano squarciare interi crateri di tentativi, strade sbarrate o sbagliate e di cattiva o di pessima scrittura, sciocchezze, azzardi ispirati e piccole intuizioni e tanto altro. Ma soprattutto non sentirsi mai troppo certi di quella che sia la strada giusta, perché una certezza del genere, specie se ostentata agli altri come formula suprema o talismano, potrebbe essere il passaggio più agile verso il primo dirupo.
Di solito, però, quando si comincia a sentire l'odore di una propria voce, faticata e a volte sofferta, comincia lo scotto della propria reale solitudine.
martedì 15 marzo 2011
Chat Commissariato Centro
Mercoledì 16 Marzo alle ore 21,00 “Commissariato Centro” (Il killer della Maddalena) in CHAT sul sito Casa Editrice Il Pavone.
Parteciperanno l’autore Marco Doria e il co-editore e fondatrice del progetto “Parole Indipendenti” Aura Conte che curerà la moderazione dell’evento.
Alla chat del sito è possibile accedere “liberamente” o con account su Twitter, Facebook, Myspace; non richiede alcun programma o registrazione.
Ciò che conta in uno scrittore
Credo che questa definizione di Thomas Bernhard, tocchi il vivo e il fondo della questione creativa, in relazione alla dicotomia tra demone fantastico e maglio scientifico dell'indagine. La sento lapidaria, concreta, rischiarante e anche molto fisica, rispetto a tutte le enormi schiocchezze fumose che ho sentito blaterare sulla faccenda e a gola sfacciatamente spiegata:
"La natura è la sola incessante impossibilità dell'uomo. Ciò che conta in uno scrittore, proceda egli in modo scientifico o in modo fantastico, è solo la forza valutativa del suo talento descrittivo, l'intensità della superficie parziale dell'intera natura che è resa visibile del suo talento, attraverso una sollecitazione ingenuamente intensa della superficie: il suo fluidum deferens; questione dell'intelligenza e della cultura, della fantasia (come humus) degli strumenti alfabetici".
Thomas Bernhard
lunedì 14 marzo 2011
Lo scrittore fiociniere e l'amore
Sono convinto di associare ogni attimo o spasmo di scrittura a una questione assolutamente rischiosa. Lo stesso tipo di approccio con cui controllo che prima di coricarmi la chiavetta gialla del gas sia ben chiusa. Seguire una mia linea precisa e non essere troppo condizionabile dalle sagge raccomandazioni dei più prudenti e generosissimi dispensatori di certezze, è parte dell'humus insicuro ma vivo, dove attingo l'energia per il testo. A volte scrivo con il gas aperto, e me ne accorgo in ritardo, o faccio finta di niente. Preparo l'acqua sporca per il pennello ancora caldo, prima di scegliere il colore giusto, purché ci sia del vero, e non del già masticato o sputato da altri più saggi e più e prudenti di me, che chiudono il gas prima di andare a scrivere e di andare a dormire. Credo che non avrò mai la certezza assoluta di essere nel giusto, ma sono convinto fin da adesso di aver respirato aria pura a folate insieme a grandi fumi tossici, prima di lanciarmi nel vuoto e aver dispensato un movente generoso più che delittuoso nel mettere in ordine i miei segni cifrati, o forse in disordine – questo dipende ancora dai punti di vista, e non necessariamente letterari. Eppure nella mia ricerca, vi sono moltissime regole e molta autodisciplina, ma è quella correlata alle mie sensazioni, ai rapporti con i miei odori o dolori di scrittura, con tutto quello che sento e che scelgo di condividere, non per un gesto egoistico, ma per un dono, forse usato e senza carta, da condividere con un essere umano. Credo che rimanga l'istinto del gioco nella condivisione di una frase, di un pensiero, di una certa idea che potrebbe avere un senso se lanciata nel vuoto al momento giusto. E andando ancora nel profondo, un gesto incontaminato di amore, che per fortuna non conosce scuole! Quando è vero e non si ha vergogna a parlarne. Quando sento di scrivere con amore, non temo assolutamente nulla e mi sento giustificato per qualsiasi tipo di scelta io faccia e per qualsiasi piano scelga per il balzo, anche da bendato. Il problema è che mantenere una tensione di amore costante in un'attività complessa e fraintesa come quella della scrittura, è molto difficile. Così come farlo nella vita. Con la mia scrittura cerco di imparare ad amare e a bruciarmi vivo dentro quest'amore. Il resto è merda secca con mosche verdi annesse e ronzanti.
Sento ancora una volta e sempre di più raccomandazioni su come dovrebbe porsi un autore di fronte a una propria opera. Sul come funziona lo scrittore oggi. Sul colore e la forma degli occhi del suo stile, del suo mood. Su come debba muovere il culo nel suo ritmo. Sono molto attratto dalle istruzioni per l'uso, così come mi soffoca l'idea di dover accontentare sempre qualcuno o qualche idea durante questo processo silenzioso quanto esplosivo. Qualcuno che non cerca un mio pensiero ma una protesi o un surrogato di un sistema letterario già codificato, che non ha a che vedere con una mia idea, ma con un utilizzo quanto più ortodosso di certe idee comuni, funzionali. Si può anche scrivere per dimostrare di aver capito come si snodano i paragrafi. Farli scivolare come collane di perle nelle dita astute e rapide di un ladro, o rendere il ritmo scintillante e coinvolgente e ancora, si potrebbe procedere all'infinito. In fondo è molto bello leggere la bella scrittura. Ma non credo che la scrittura diventi bella o perfetta pensandola così dalle sue origini o non badando ad altro che al suo assetto, alla sua forma o alla sua cantabilità. Credo invece il contrario. Esiste la mia bellezza che nascerà da un compromesso e da un certo glimmer armonico con i miei detriti e i miei dirupi. Esiste l'orrore di essere diventati belli per imitazione, scegliendo gli stralci più funzionali e sicuri per far scorrere il proprio testo come un ruscello di montagna.
Ma credo che esista un punto fondamentale, e che credo sia essenziale, al di là di tutti i canoni, i processi stilistici e le sfumature o raffinatezze di scuola o di grande scuderia.
Il problema è la solitudine assoluta e pericolosa tra te e il lettore. Quando comincio a scrivere, ancora prima di battere sul primo carattere, penso che l'elemento importante, al di là dei miei mezzi e delle mie modulazioni di percorso, sia quello di raggiungere anche un solo lettore al mondo. È che tutta la mia sensibilità, il mio orecchio, la mia esperienza e forse tutta la mia vita, devono puntare a questa cattura, come un fiociniere farebbe nello stesso istante con una balena inferocita ma raggiungendo simultaneamente la punta acuminata di una propria voce naturale, in qualsiasi punto di maturazione essa si trovi. Non ho nulla altro in mente che questo contatto fisico e tempestoso con un mio interlocutore. Per uno scrittore il senso è un lettore vero infiociniato vivo. Solo allora saprà quanto valore avrà avuto il suo lavoro e il suo doppio lancio: nel vuoto. Ma il particolare ancora più intrigante, e di realizzare tutto questo senza pianificarlo o pensarlo.
Bookeen Cybook Orizon White
Credo che su questo modello si orienteranno le mie scelte per l'acquisto di un ebook reader. Almeno fino a questo momento.
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domenica 13 marzo 2011
Preferisco
Preferisco un uomo che scrive sputando frasi come un ragazzo,
anziché un ragazzo che scrive tossendo frasi come un uomo.
anziché un ragazzo che scrive tossendo frasi come un uomo.
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Verso l'editing
Il romanzo Il disabitato, si avvia ormai verso la fase di editing. Pronto il plot per la scheda autore e note bio-bibliografiche. Per dettagli sullo sviluppo: Books.
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sabato 12 marzo 2011
Altrove
Quello che continua ad affascinarmi in un progetto di scrittura, è il fattore rischio e la possiblità che quella che io credevo o sentivo fosse la mia strada, mi porti quasi sempre altrove, in un luogo molto lontano da quello dove pensavo di dirigermi. E quello che continua ad affascinarmi, è il fatto che questo altrove o questa sorta di svista, lungo il percorso, rappresenti in diversi casi il luogo più esatto e prezioso da cui ripartire o attraverso il quale arricchire un certo percorso dirottato. A volte è proprio in quel dirottamento che ritrovo la mia strada.
venerdì 11 marzo 2011
giovedì 10 marzo 2011
Time Warp
In gergo fantascientifico "Tempo Deformato". Secondo Erica Jong il flusso vitale che si frappone tra la creazione e la risposta dello scrittore. L'intercapedine dove fluttua il mistero, il frutto della caramella nel suo sangue mistico, aggiungo di stomaco.
Ancora la Jong, nel dettaglio:
"Scrivere è vivere in un "tempo deformato". [...] fra la creazione e la risposta. La fatica dello scrivere deve sostenersi molto prima di avere una risposta, se questa vi sarà. Spesso, come nel caso di Miller, la risposta può farsi attendere decenni".
Molto chiaro. Dunque una nozione anti-utilitaristica che basti e che nutra se stessa della bellezza dell'atto puro e creativo. O anche dell'atto terapeutico dello scrivere, di cui parla la scrittrice Doris Grumbach. E anche i fatti in fondo confermerebbero che una pura energia creativa si nutra di molto altro e non solo del consenso immediato e spicciolo degli addetti ai lavori e agli allori.
È proprio il caso di Henry Miller e del suo meraviglioso romanzo Il colosso di Maroussi, rifiutato da circa dieci editori, e pubblicato in ultimo presso una piccolissima casa editrice di San Francisco. Penso anch'io che Il colosso di Maroussi sia una delle sue opere più mirabili, distese e riuscite.
Saluti.
mercoledì 9 marzo 2011
Riflettendo su Black Spring
Leggendo Erica Jong su Miller, nel cuore della notte: The Devil at large. Non credo possibile nulla di più entusiasmante e sferzante nelle ore piccole per un lettore.
In un passo del genere, nel buio pesto, per esempio. Uno come questo, citando integralmente lo scrittore dal bellissimo Black Spring:
Cominciare! È la cosa principale. Metti che il naso di lei non sia aquilino? Metti che sia un naso celestiale? Che differenza fa? Quando un ritratto comincia male è perché tu non descrivi la donna che hai in mente: pensi piuttosto a coloro che ne guarderanno il ritratto, anziché alla donna che ti serve da modello.
Basta così! Credo che sia sufficiente, ma che dico! Abbondante, straripante, a tal punto da impedirmi di dormire. In quel momento avrei voluto saltare per aria e impugnare nella bocca una penna e intingere le pareti di tutta la casa dell'energia di quelle poche ma esplosive parole, dove mi sembra rivelata e confermata la più intima e secreta essenza dello scrivere, del mio possibile-impossibile mood di scrittore. Leggendo la dinamica del ritratto e dell'assenza dal condizionamento, rivedo esattamente lo stesso processo che mi avviene e mi sopravviene, quando mi accingo a esplorarmi, a scorporarmi e a saltare in aria con uno scritto, che sia o che non sia un incipit. La dipendenza da un occhio nascosto, da una voce, da una luce accesa nella stanza accanto, da una radio che suona l'opera alle due del mattino, da un balleto classico che svetta in tv senza volume e che mi costringe a una resa o a un'intesa o compromesso, con altro, che non sia me e che non provenga o dipenda da me.
Sono reduce dall'ultima stesura del romanzo Il disabitato. È stata vissuta in una fase complessa e molto rilassata, fatta di scoperte, di incantamenti, di azzardi e di lanci sinistri nel vuoto. Ma l'ho cominciato. E l'ho finito. Tra poco sarà nelle mani della mia editor. Leggere certe parole in piena notte, è come avvertire la dinamite che ti attraversa e ti sembra che la vita, al di là delle parole scritte o non scritte, sia la celebrazione violenta di ogni istante, non solo per come dovrebbere essere o come fosse desiderabile e più giusto che fosse. Ma semplicemente per com'è.
Buon pomeriggio.
martedì 8 marzo 2011
lunedì 7 marzo 2011
Scrivendo e colando
Scrivendo, dunque, dove eravamo? Insomma: scrivendo giusto per colare a picco. È l'unica risposta che mi sento di dare a chi dovesse chiedermi, o interpellare l'atto segreto o misfatto scrivente. Colando a picco. Senza nessun altro romantico o accessorio orpello. Senza ornare la mia immersione di squali bianchi o residui di antichi velieri. Il semplice catapultarmi dentro un tubo viscoso di schiuma, e non vedere altro che una colonna di acqua scura. Nessuna dottrina, ma solo uno scrosciare calmo di latrina.
Ancora: è il mio unico metodo, forse questo. Di scrivere colando. Ma soprattutto leggere. Leggere per imparare a tacere e a gustare, senza il vizio di sentenziare. Ormai diffuso e trasfuso nel sangue dei moltissimi appassionanti e appassionati, con la febbre della penna, che sento simile al mio vecchio mal della piuma, per il demone ornitologico forzatamente trascorso.
Programmi del pomeriggio sul prestino di scrittura?
Leggere:
1) Il gatto lupesco, di Edoardo Sanguineti.
2) Erica Jong su H. Miller. Il diavolo fra noi (appena giunto).
3) Ultimo racconto dal bel volume Einaudi di Vargas Llosa: I cuccioli e i capi.
Tutto qui.
Programmi del pomeriggio sul prestino di scrittura?
Leggere:
1) Il gatto lupesco, di Edoardo Sanguineti.
2) Erica Jong su H. Miller. Il diavolo fra noi (appena giunto).
3) Ultimo racconto dal bel volume Einaudi di Vargas Llosa: I cuccioli e i capi.
Tutto qui.
domenica 6 marzo 2011
L'economia del profondo
Un'analisi che sento di condividere, perché racchiude una mia idea precisa dell'economia del gesto letterario. E non del mito romantico del disossare, del ridurre, del rendere assolutamente digesto. Da lettore non cerco testi solo chiari e digeribili, ma testi di scrittori infiammati. Ma questo è un discorso diverso. Non si scrive con i numeri, ma con molto altro. Questa mia piccola analisi potrebbe dimostrarlo.
Procedo. Il tutto nasce dal raffinatissimo combattimento di coltelli che Vargas Llosa descrive nel suo racconto La sfida, dalla raccolta Los Jefes (I capi) 1959. Il personaggio dello Zoppo, è racchiuso in tutta la sua tempestosa durezza e minaccia, in questo stralcio, dove l'economia e la precisione si investono di un'aura e di un magnetismo rari e davvero coinvolgenti, ancora prima che muova un solo passo contro il suo rivale di turno Justo.
A voi (ogni tanto mi inserisco, se trovo qualcosa di interessante, altrimenti scorro avanti):
Era alto, molto più di tutti i presenti.
Ecco, invado subito il campo. Questo è il primo elemento che lo scrittore utilizza per introdurci nella fisionomia di uno dei due combattenti. Parte da una prospettiva che si può relare agli altri elementi. La minaccia dell'altezza. Era alto. Un primo elemento al quale si legheranno gli altri, che già pone la sua figura in un luogo preciso, con un suo riverbero di oscura superiorità.
Nella penombra, non potevo immaginare il suo volto corazzato dai foruncoli, il colore olivastro scuro della sua pelle glabra...
Adesso Vargas Llosa lavora sulla luce e sulle rifrazioni. I primi tratti sono più chiusi e trattenuti da qualcosa. Dalla corazzata dei forunculi, il colore olivastro della pelle. Un sintomo di profondità e di inquietudine, ottenuto con poco. Sottraendo e non aggiungendo. Così più avanti:
...i fori minuscoli degli occhi, infossati e brevi come due punti dentro quella massa di carne...
Anche qui, la figura adesso prende luce ma anche peso. I suoi fattori di distinzione vivono del soffocamento e del poco spazio, senza un respiro. I fori, le fosse, poi, più avanti, le gibbosità. Sembra la descrizione di un dirupo, sempre più ruvida e tagliente.
...spezzata dalle gibbosità oblunghe degli zigomi (immaginato quanti ragazzini precisini e scolastici, adesso storceranno il muso davanti a oblunghe, che invece scende a pennello, signori). Mi dispiace tanto.
e le sue labbra grosse come dita, pendule sul mento triangolare da iguana.
Questa è bellissima. Le labbra e le dita. Le vediamo, credo che sia impeccabile, soprattutto per come l'autore si sposta e come attraversa la carne del viso, e non il contorno di un disegno a matita.
E per finire:
Lo Zoppo cioncava dal piede sinistro, dicevano che su quella gamba avesse una cicatrice a forma di croce, ricordo di un maiale che l'aveva morso mentre dormiva, ma nessuno gliel'aveva vista.
L'ultima pennellata, con fattori che adesso diventano esterni, pur rimanendo fisici, come un'unghiata, uno sfregio, una macchia di unto, un'incisione.
L'economia dello scrittore mira ad arrivare dritto al punto e al tipo di effetto, che personalmente mi risuona chiarissimo e perfetto. Si aggira attorno alla figura dello Zoppo, in una serie di angolazioni insolite ma molto intime. Come se più che un'idea visiva, volesse ottenere un'idea olfattiva, un'impatto tangibile corporeo e poco pensato.
Solo allora concederà l'avvio dell'azione del combattimento dei coltelli. Senza sprechi ma sensa nemmeno contenersi. In una logica di economia letteraria e descrittiva del profondo.
È tutto.
Lo Zoppo cioncava dal piede sinistro, dicevano che su quella gamba avesse una cicatrice a forma di croce, ricordo di un maiale che l'aveva morso mentre dormiva, ma nessuno gliel'aveva vista.
L'ultima pennellata, con fattori che adesso diventano esterni, pur rimanendo fisici, come un'unghiata, uno sfregio, una macchia di unto, un'incisione.
L'economia dello scrittore mira ad arrivare dritto al punto e al tipo di effetto, che personalmente mi risuona chiarissimo e perfetto. Si aggira attorno alla figura dello Zoppo, in una serie di angolazioni insolite ma molto intime. Come se più che un'idea visiva, volesse ottenere un'idea olfattiva, un'impatto tangibile corporeo e poco pensato.
Solo allora concederà l'avvio dell'azione del combattimento dei coltelli. Senza sprechi ma sensa nemmeno contenersi. In una logica di economia letteraria e descrittiva del profondo.
È tutto.
sabato 5 marzo 2011
Se mi stacco
Ho trascorso diversi stralci di questa mattina di piovosissimo sabato, alla ricerca di un testo di Montale da Diario del '71, in cui avevo scorto un fattore già notato di recente in Sanguineti. Una sorta di effetto lacerante e poi collante linguistico. Il testo di Montale si intitola A questo punto. L'ho letto stamattina molto presto, poi non ricordavo dove fosse quest'elemento, appena recuperato dopo lunghe sonore sfogliate tra le raccolte:
Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l'inutile tua scorza.
A questo punto smetti, stràppati dal mio fiato
e cammina nel cielo come un razzo.
Mi ha intrigato tutta questa parte, laboriosa e molto fisica. Lo stacco e la pena, e subito dopo la dolcezza autunnale della foglia, la leggerezza, lo spostamento, la mobilità e non la lacerazione, che sopraggiunge poco dopo. Toccando la scorza il superfluo. Avverto il gesto della mano che separa nelle scelte.
In contrappunto o moto cancrizzante, così mi risuonava, già in prima lettura, un verso di Sanguineti, da Corollario (1992-1996).
Dal n. 6:
se mi stacco da te, mi strappo tutto:
ma il mio meglio (o il mio peggio)
ti rimane attaccato, appiccicoso, come un miele, una colla, un olio denso;
ritorno in me, quando ritorno in te:
e conclude:
vivo ancora per te, se vivo ancora:
Li ho sentiti viibrare come sonagli, questi testi, come se sollecitati da venticelli diversi su di uno stesso corpo. Montale parlava della sua opera, come di una sola poesia, di un solo libro. A volte accade che tutta la poesia, diventi e significhi un solo libro, intercomunicante tra le pagine diverse, i suoi temi, le sue fughe, le sue dissonanze. Come in un caso del genere.
Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l'inutile tua scorza.
A questo punto smetti, stràppati dal mio fiato
e cammina nel cielo come un razzo.
Mi ha intrigato tutta questa parte, laboriosa e molto fisica. Lo stacco e la pena, e subito dopo la dolcezza autunnale della foglia, la leggerezza, lo spostamento, la mobilità e non la lacerazione, che sopraggiunge poco dopo. Toccando la scorza il superfluo. Avverto il gesto della mano che separa nelle scelte.
In contrappunto o moto cancrizzante, così mi risuonava, già in prima lettura, un verso di Sanguineti, da Corollario (1992-1996).
Dal n. 6:
se mi stacco da te, mi strappo tutto:
ma il mio meglio (o il mio peggio)
ti rimane attaccato, appiccicoso, come un miele, una colla, un olio denso;
ritorno in me, quando ritorno in te:
e conclude:
vivo ancora per te, se vivo ancora:
Li ho sentiti viibrare come sonagli, questi testi, come se sollecitati da venticelli diversi su di uno stesso corpo. Montale parlava della sua opera, come di una sola poesia, di un solo libro. A volte accade che tutta la poesia, diventi e significhi un solo libro, intercomunicante tra le pagine diverse, i suoi temi, le sue fughe, le sue dissonanze. Come in un caso del genere.
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giovedì 3 marzo 2011
Cesare Pavese. Due edizioni 1955 e 1957
Ecco i due testi di Cesare Pavese degli anni cinquanta, scorporati dalla collezione di mio padre.
Lavorare stanca Einaudi 1955
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Einaudi 1957
Lavorare stanca Einaudi 1955
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Einaudi 1957
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