Questo racconto di Adele Iazzetta è anche il racconto inedito di una giovanissima scrittrice, che tra l'altro non è stata lei a chiedermi di inserirlo nel blog. È stata una mia scelta. Mi è sembrato giusto condividerlo nel post di oggi, perché credo che abbia dei numeri interessanti e stia sperimentando una sua strada, anche piuttosto coraggiosa. E perché credo che qualsiasi scrittore debba imparare ad ascoltare e ad apprendere dalle cose buone degli altri, e anche dei giovanissimi, invece di mettersi in cattedra con la matita blu e rossa tra i denti.
Proseguo. Perché ho scelto di pubblicare questo racconto? L'ho scelto per il suo
mood:
Aprire un racconto con una domanda da parte del narratore, ancora avvolto nel fumo del sogno possibile di un personaggio, ma non del tutto sicuro. Già partiamo da un livello di realtà sospeso e originale. Subito dopo un luccichio che si confonde con un sorriso, e poi decidere di far arrivare un profumo insieme a una voce umana. Una prospettiva interessante e matura, sospesa tra dimensioni emotive, che ho trovato molto fresche e poco macchinose. Il taglio di questa narrazione mantiene questo filo particolare intrecciato con delicatezza alle parti della trama tra l'onirico e il fisico
(La valigia piena di sensi di colpa e tabacco/ i “fiori-di-non-so-cosa/ ...le scarpe zuppe di melma./ Me ne vado a spasso con la mia bisaccia di errori e di rimpianti/ lasciarsi disabitato per un po). Non so quanto vi sia di consapevole, ma questi piccoli interventi sospesi lasciano un senso di orientamento attraverso un suo livello
personale di realtà, che si rivela come un ottimo indizio su quello che vuole raccontarci di sé o di una parte di un mondo che ha saputo osservare e poi narrare, senza dircelo mai direttamente, anche se filtrato da una sua dimensione fantastica e creativa, come accade in ogni finzione scritta. Non credo che sia sempre così importante quello che accade, quanto il modo in cui questo accaduto si dirami e si mostri. Il racconto scivola come un fiumiciattolo o un sonnellino pomeridiano; con molta scioltezza e fluidità, anche per l'uso dei dialoghi, con i quali Adele pare avere un orecchio attento e ben esercitato. Anche l'utilizzo del suo punto di vista spaziale è originale e molto sentito: una terza persona molto cosciente di alcuni aspetti del personaggio, e ispirata verso alcune dinamiche della relazione, ma allo stesso tempo poco invasiva e leziosa. Credo che anche da questa prospettiva vi sia una sua ricerca e una sua originalità. Io cerco sempre di leggere una storia secondo una mia visione, aperta a quello che rimane dopo, e non solo a quello che appare al momento della lettura. Potrà essere un modo sbagliato, ma ritornando indietro sui punti che mi sono rimasti più vivi, ho poi disegnato la mia linea di pensiero senza preconcetti ma sulla sensazone ancora viva della suggestione dell'ascolto di un suo mondo o meglio di un suo
mood, che è riuscito a convincermi.
Continuando e concludendo, con il racconto: bello anche il piccolo salto, o spostamento temporale, che Adele ha chiuso in un inciso:
-Tre mesi prima-. Ancora molto più accattivante in coda, il suono metallico delle risate con il successivo contrasto di quiete, molto ben riuscito.
Preciso che questa versione del suo racconto è così come mi è arrivata, senza nessun tipo di intervento da parte mia. In seguito, in caso di editing o di ripensamenti da parte dell'autrice, potrei aggiornarvi sui cambiamenti.
Auguro ad Adele tutta la fortuna di questo mondo e di questo suo
mood.
E adesso tocca a lei. In bocca al lupo:
l.s.
Solitudine in due di Adele Iazzetta
Era vero o stava sognando? E quello strano luccichio, da dove diavolo veniva fuori? Era il suo sorriso, forse? No, non era il suo sorriso, quello se lo ricordava fin troppo bene: gli aveva scombussolato l’esistenza, messo in disordine l’anima e i pensieri.
Un tonfo. Sordo, preciso. Metallico. E poi la sua voce: “Ma porca di una puttana, non c’è una cosa messa in ordine in questo posto!”
-“Jen?”, chiese incredulo.
-“Si, Ian, sono ancora io.”
E in quell’istante seppe che era lei. Con la sua voce arrivò un profumo. Il profumo che odiava, quello ai “fiori-di-non-so-cosa”. Lo aveva odiato da sempre, gli ricordava una valanga di cose che doveva dimenticare. Perché con Jen era sempre stato così. Dimenticavano per non farsi male, perché in realtà erano sempre stati sbagliati.
- “Non ce l’hai fatta.”
Non la stava colpevolizzando, lo stava semplicemente constatando. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Sapeva anche che non avrebbe preso una decisione, e che alla fine la vita avrebbe deciso per lei. Per Ian l’indecisione non era altro che una forma diversa di vigliaccheria.
La guardò. Fu una frazione di secondo, un attimo, e si rese conto di trovarla orribile. Un’eterna bambina, in viaggio con l’aria afflitta e la valigia piena di sensi colpa e tabacco. Aveva lo sguardo colpevole di chi è tornato sui suoi passi, di chi si è tradito e s’è deluso e poi si è tradito ancora. Aveva lo sguardo di chi si faceva schifo, di chi voleva fuggire e lasciarsi disabitato per un po’, sperando di trovarsi diverso per miracolo. Era orribile e la odiava, perché se lo ricordava ancora quant’era stata bella.
- “Lo so”.
-“Tu non puoi permetterti di usare quel tono, Jen! Tu non puoi usare quel tono con me.”
-“Quale tono?”
Lo chiese con una voce strana, inespressiva e terribile. Non lo sapeva davvero, e questo gli faceva più male del previsto.
-“Il tono di chi sta tornando, il tono di chi non ha scelta. Tu sei qui perché non sai dove altro andare, ed io non ti voglio più. Io… io non ce la faccio. Vai via, ti prego, vai via…”
Lo sapeva e sapeva che esserne a conoscenza non sarebbe bastato. Alla fine le avrebbe detto che poteva dormire sul divano e che ne avrebbero parlato. Si sarebbe messo a letto, ci avrebbe riflettuto e si sarebbe addormentato sentendosi il più grande idiota del pianeta. Si sarebbe svegliato, sarebbe andato da lei e l’avrebbe trovata ubriaca. O fatta. Allora avrebbe aspettato, come faceva da quando l’aveva conosciuta, pentendosi di aver potuto pensare che potesse essere diversa. Avrebbero parlato e non si sarebbero detti nulla, perché la verità è che non avevano più nulla da dirsi da tempo.
-“Lo so, ti ho lasciato, ma non so che fare. Sono sobria e sto di merda. E voglio che tu mi dica che andrà tutto bene perché sto impazzendo e… e perché non posso più dirmelo da sola. Neanche me lo ricordo com’è quando tutto va bene.”
-“Non riesco a crederti...”
-“Una novità, insomma. A quale parte non credi? Ti sei fermato al “sono sobria”?”
Era sarcastica. E un tempo questa cosa gli piaceva persino. Era stato pazzo o terribilmente stupido? Si disse che il termine giusto era “innamorato”, ma si rese conto che poi, alla fine, era sinonimo di tutt’e due.
-“Allora rettifico. Io non voglio crederti! Gli ultimi mesi tra di noi sono stati i peggiori della mia vita, ora vorrei… vorrei andare avanti, soltanto questo.”
- “Non puoi andare avanti, io sono qui e ti amo”.
-“Non mi hai mai amato Jen, mai…”
Aveva tutto l’aspetto di un vecchio bambolotto di pezza, abbandonato negli angoli più remoti e solitari, rattoppato troppe volte e troppo velocemente, troppo malandato perché qualcuno potesse desiderarlo ancora. Se ne stava lì, lo sguardo vitreo e le braccia penzolanti, a parlare. Parlava perché nella vita non aveva mai saputo fare altro e perchè nessuno l’aveva mai ascoltato abbastanza.
Inspirò rumorosamente e guardò altrove.
Jen si accoccolò in un angolo della stanza, le mani incrociate, lo sguardo fisso. E poi cominciò a piangere. Era uno di quei pianti che non chiedono conforto, che ti lasciano solo con la tua voragine e sai che l’unica cosa che puoi fare è aspettare che passi.
Non voleva guardarla, non ce la faceva. La sentiva singhiozzare silenziosamente e aveva paura di lei.
Non aveva mai avuto un buon rapporto con le persone che soffrivano, non sapeva come prenderle. E non aveva mai avuto un buon rapporto con Jen, esattamente per la stessa ragione.
Alla fine si voltò, la guardò in tutta la sua miseria e sentì dentro la voglia di raccoglierla, abbracciarla e dirle che lui c’era, che era ancora lì per lei.
Si avvicinò e le spostò i capelli dal viso.
-“Puoi restare, puoi restare quanto vuoi... Sai già dove dormire, le coperte sono nel mobile accanto alla porta. Buonanotte, Jen”
Lei annuì, fu un segno impercettibile. Ian si diresse verso la porta, senza guardarla e senza avere voglia di farlo. No, non l’aveva perdonata e non l’avrebbe mai fatto. C’erano tante di quelle cose che non riuscivano a perdonarsi. La amava, o almeno, così aveva creduto. Ma quel misto di paura, bisogno e rabbia era mai stato amore?
-“Ne parleremo, ti giuro che ne parleremo… Domani, o quando sarà…” -disse Jen con voce tremolante.
Ian annuì, sapeva fin troppo bene che alla fine sarebbe arrivato il momento di parlarne. Lei si rannicchiò tra le coperte e piombò in un sonno etilico.
Avrebbe voluto dirle tante cose. Dio, quante cose che aveva da dirle. Più la guardava e più tutte quelle parole gli morivano in gola.
Le mani sulla testa, gli occhi umidi… Ian si accoccolò sul pavimento e si sentì improvvisamente più vecchio.
-Tre mesi prima-
- “Sono stanco, Jen, sono stanco!” – Ian urlava, era paonazzo e fuori di sé. Non s’era mai visto in quelle condizioni, l’aveva ridotto uno straccio. Lei era sempre stata questo: un guaio. Nient’altro che un guaio.
- “Lasciami in pace, Ian…”- Jen si stropicciava gli occhi e lo guardava perplessa.
Era sfinita…ma la cosa non lo toccava minimamente. Era stato così pieno del dolore di Jen da non aver più spazio per il suo, che ora avanzava prepotente e ottuso. Non aveva pietà di lei, nel suo sguardo non c’era altro che rancore.
- “Ma cosa!? Ha chiamato tua madre, non ti fai vedere da un mese, credeva che finalmente fossi morta! E avrei potuto crederlo anch’io, dato che hai tenuto spento il cellulare tutto il santissimo giorno!”
-Silenzio. Tensione e silenzio. Jen sapeva di dovergli dare il tempo di calmarsi, di riprendere il controllo e reprimere ciò che pensava davvero. Non furono più di due minuti, ma gli bastarono: lo sguardo di Ian si fece improvvisamente opaco, la furia si tramutò in dolore passivo e represso, si sedette e continuò:
- “Noi avevamo dei progetti. Il matrimonio, la casa e i bambini e… il futuro. Non c’è più niente, Jen, hai ucciso tutto. Ora ci sono io e basta, che ti rincorro e raccolgo i cocci di te stessa, di me e di noi… Li rimetto insieme come posso, ma tu calpesti tutto di nuovo, come se non te ne fregasse niente. E io non riesco a distinguere più nulla… Ci sono soltanto minuscoli frammenti, briciole insignificanti di quello che è stato, mi chiedo che senso abbia raccoglierle ancora, se non sia meglio gettarle via…”
- “Siamo arrivati al punto in cui mi lasci, giusto?” – disse sarcastica Jen – “Aspetta, mi metto comoda. E’ la mia parte preferita, di solito mi ci faccio anche due risate! Sai, il mio comportamento scostante è proprio incomprensibile. Certo, mi hanno licenziata, non ho più una lira e non ho nessuno a cui chiederli, dato che, tra parentesi, mio padre mi odia. Però già, forse sono troppo negativa, nessuno si butterebbe giù per questo!”
- “Ti ho forse ordinato di sentirti meglio? Tu non capisci! Ti sto dicendo di rendermi partecipe! E smettila con questa storia del lavoro, ti prego. L’hai perso perché non ci andavi mai, perché ci arrivavi fatta e perché ti eri fatta odiare da più di metà del personale. La tua vita non è il problema! Lo sappiamo entrambi, purtroppo, che il problema sei tu!”
Ian si era appena lasciato sfuggire qualcosa che non avrebbe mai dovuto venir fuori dalle sue labbra. Rigido e spaventato, con l’aria di chi ha appena sganciato l’ultima bomba, se ne stava lì a tremare e sudare, temendo e sperando che distruggesse tutto.
- “Vuoi lasciarmi?” – Jen lo disse con prepotenza, quasi sillabando. Era pronta.
- “Non banalizzare…”
- “No, non banalizzo affatto. Non sono una donna speciale, non sono di quelle di cui si dice “Quella lì? Oh, quella sì che è una brava persona!”, tant’è che tu stesso non me l’hai mai detto. Non ho progetti che vadano al di là del pranzo di domani e, soprattutto, non ho legami: non ne ho mai voluti. Sono una persona qualsiasi, che ha lasciato andare tante altre persone qualsiasi, che si è mischiata con il mondo e ne è uscita con le scarpe zuppe di melma, proprio come te e milioni di persone come noi! Me ne vado a spasso con la mia bisaccia di errori e di rimpianti, vivo giorni in cui mi odio persino più di quanto mi odi tu, non mi conosco e mi fa impazzire il sapere che tu non sia mai riuscito a conoscermi ma… Tu sei libero! Se vuoi andare via, se non trovi più nulla che sia “casa tua” in me, allora vai! Va’ dove ti pare, innamorati e metti al mondo il figlio che volevi da me! Dio, Ian…La verità è che la vita per me è sempre stata questo, nient’altro, mai nient’altro di diverso da questo! Tu, invece, tu hai così tanta vita! Provaci, se non hai più ragione di essere qui, allora sii altrove! E se anche dovesse andare male, insomma… nessuno ha stabilito che esiste un tempo per essere felice! Sarai libero di essere altrettanto infelice e solo, come lo sei oggi di varcare quella porta e andare via, per essere amato e forse felice, altrove e senza di me!
-“E se non avessi nient’altro? Se non me ne fregasse nulla di me o della mia felicità? E se alla fine, alla fine di tutto questo vivere, non ci fosse alcuna scelta e io fossi soltanto stanco?”
- “Allora saprei di averti consumato, e andrei via domani.”
- “Mi stai lasciando?”.
- "Non banalizzare..."
Risero. Di una risata vuota e senza gioia, una di quelle risate orribili, di cui non restano altro che stridule urla nel vento e un immenso silenzio quando il rumore cessa.
- “Buonanotte, Ian. E addio”.
- "Buonanotte Jen. Sii felice".
Adele Iazzetta